03 giugno 2003

fino al 9.VI.2003 Magritte – Le Maitre du Mystère Parigi, Jeu de Paume

 
All’opera del surrealista belga - uno degli artisti più apprezzati dal pubblico e (un po’ meno) dalla critica – è consacrata una ricca retrospettiva. Che si muove fra opere celebri e sconosciute. Dal periodo impressionista, a quello fauve, passando per il corpus surrealista…

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Un’infilata di immagini senza pannelli esplicativi, l’esposizione parigina di Renè Magritte (1898-1967) ci guida nel suo mondo. E lo fa sia attraverso le opere-cartolina (indelebilmente impresse nella nostra memoria) sia attraverso la pittura dalla texture approssimativa del periodo impressionista e vache (presa in giro del Fauvismo) degli anni Quaranta. Le faux miroir (1928) è il titolo di un’opera in cui campeggia un occhio enorme la cui pupilla è attorniata dal tipico cielo celeste con le nuvole ben tratteggiate. L’occhio è una membrana fra l’esterno e l’interno, fra percezione e immaginazione, fra gli oggetti della realtà e il pensiero che li elabora. Un dispositivo che registra l’esperienza, come suggerito dal titolo, in modo infedele e magritte_le faux miroir_1928 distorcente – metafora perfetta della pittura di Magritte che, la mostra ne è una conferma, non è né propriamente surrealista né simbolica.
I surrealisti volevano portare sulla superficie della tela le immagini dell’inconscio; al contrario la natura cristallina del pensiero di Magritte fa sì che tutto accada sotto la luce del giorno (persino la notte, come ne L’Empire des lumières).
All’artista belga – in questo riconoscente verso de Chirico – interessa non il come ma il cosa si dipinge; non l’elaborazione di tecniche e stili innovativi (è il caso della fucina pittorica del vulcanico Max Ernst) che fa emergere l’inconscio, ma la scelta di oggetti comuni e quotidiani (Magritte pop?). Oggetti tanto familiari quanto straniante risulta il loro accostamento: un leone, un busto di marmo, un basso tuba, una sfera che galleggia nell’aria, una pietra dalle sembianze organiche. Ecco il paradosso, nelle parole di John Berger (Sul guardare, Bruno Mondadori 2003): “per distruggere un’esperienzaMagritte_le premier_jour_1943 familiare, egli aveva bisogno di usare il linguaggio della familiarità. A differenza di buona parte degli artisti moderni, Magritte disdegnava l’esotico”.
Un alfabeto visivo che non costituisce un mondo di simboli, consci o inconsci. Nei suoi scritti – unica didascalia possibile alla sua opera – Magritte si è sempre opposto ad una sua lettura simbolica, che legittima l’ineludibile domanda “che cosa significa?”. Nessun rimando ad un orizzonte di senso che dissiperebbe l’oscurità: a mostrarsi non è nient’altro che la nuda presenza degli oggetti, la loro muta apparizione e compresenza, colma di mistero. Un mistero prezioso, che resiste ad ogni tentativo di spiegazione e che si può soltanto mettere in mostra. Come su un palcoscenico, al punto che le scene esterne somigliano a fondali scenografici, con tanto di tenda spesso dipinta da Magritte a far da sipario alle immagini – immagini alla ribalta.

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Sito della mostra

riccardo venturi
mostra visitata il 27 maggio 2003


René Magritte, Galerie nationale du Jeu de Paume (1, place de la Concorde, M° Concorde, info 0033 01 47031252), dal martedì alla domenica dalle 12 alle 19, martedì 3 giugno fino alle 23. Entrata 8 euro, ridotto 6.50. Catalogo 304pp., 45 o 35 euro. Dall’11 febbraio al 9 giugno

[exibart]

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