30 gennaio 2002

La generazione delle immagini

 
Dopo l’inugurazione, ieri, della sua personale al Castello di Rivoli, questa sera l’artista iraniana Shirin Neshat è a disposizione del pubblico milanese per partecipare ad uno degli incontri de ‘La generazione delle immagini’. La rassegna da otto anni porta a milano il meglio dell’arte contemporanea internazionale, ne abbiamo parlato con il curatore Roberto Pinto...

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La generazione delle immagini è ormai giunta all¹ottava edizione portando a Milano una fondamentale occasione di dibattito sulla produzione dei giovani artisti internazionali. Come è cresciuta la rassegna dal 1994 ad oggi?
La generazione delle immagini è nata in modo abbastanza casuale: nel ’93 Marco Senaldi e io siamo stati chiamati dal Settore Giovane del Comune di Milano a partecipare alla Commisione di selezione per la Biennale Giovani artisti del Mediterraneo che aveva come sede Lisbona. A parte Vanessa Beecroft (che mandammo a Lisbona) e pochi altri, il livello del materiale presentato era veramente sconfortante. Era come se l’arte contemporanea si fosse fermata agli anni Cinquanta. Io e Marco non facemmo altro che lamentarci (sport nazionale di noi critici e curatori d’arte contemporanea… ma che spesso ha delle ragioni più che solide) con le Istituzioni, dai Musei alle Accademie, e la stampa che non trattavano adeguatamente e professionalmente l’arte. Inaspettatamente il giorno dopo Giulia Amato, il funzionario del Comune con cui avevamo lavorato, ci chiamò per sapere se avessimo dei progetti che potessero cercare di colmare questa lacuna fummo inizalmente molto sorpresi e anche spiazzati ma ci mettemmo a lavorare su un progetto che dopo otto anni (e tre diversi Assessori) è ancora in piedi. Avevamo pensato che fosse importante lavorare da una parte sull’informazione che, ancora più di oggi otto anni fa, era quasi esclusivamente sulle spalle delle riviste e delle gallerie private; dall’altra sulle motivazioni e i processi che portano un artista a produrre un determinato lavoro. Dal terzo anno in poi ho proseguito da solo anche se rispettando sempre le direttive iniziali. Ogni edizione è stata tematica e ha affrontato temi e aspetti diversi della produzione visiva cercando sempre di portare a Milano le figure che in quel determinato momento potessero essere centrali. Problematiche più “interne e storiche” come la trasformazione del concetto di paesaggio o la narrazione visiva si sono affiancate a edizioni in cui intervenivano anche fattori sociologici come la moltiplicazione dei centri produttivi o il proropente arrivo sulla scena internazionale di figure provenienti da luoghi non considerati storicamente come centri artistici.


Scorrendo la lista degli artisti invitati a questa edizione (Cuevas, Neshat, Peljhan, Solakov, Hybert) mi vengono in mente alcune considerazioni. Non ci sono artisti italiani, cosa abbastanza ricorrente anche nelle precedenti puntate de La generazione delle immagini; mancano i curatori internazionali quando le scorse volte intervenirono, tra gli altri, Francesco Bonami o Harald Szeemann; gli artisti provengono da zone geograficamente, culturalmente e socialmente eterogenee. Come sei arrivato a questa scelta?
La scelta di presentare raramente artisti e curatori italiani è dettata dal semplice fatto che li conosciamo meglio e ci sono più occasioni di incontrare il loro lavoro e di discutere con loro. Ovviamente non seguo gli Shirin Neshat, Rapture, 1999, collezione Berlingieri – Leopardistessi criteri quando organizzo una mostra. Per quando riguarda la mancanza di teorici o curatori in questa edizione è legato alla tematica, alla necessità di raccogliere più punti di vista nel modo che gli artisti hanno di relazionarsi alla realtà, da quelli più diretti e concreti (quasi “sociali”) di Minerva Cuevas a quelli più metaforici di Cai Guo Qiang o di Carlos Garaicoa.
Inoltre, ormai si può vedere La Generazione delle Immagini come un progetto complessivo, al di là delle singole edizioni: due anni avevo chiamato esclusivamente critici e curatori a raccontare l’ambiente artistico di 12 diverse città del mondo…
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, credo che ormai sia diventato di moda andare a scoprire artisti dai più diversi paesi. Lo scorso anno all’inaugurazione della Biennale dell’Avana, nonostante il Blocco dei rapporti con gli USA, erano presenti migliaia di curatori e collezionisti che si spostavano con dei pulmann turistici da uno studio all’altro degli artisti cubani … la globalizzazione è anche questo, l’apertura a culture altre ma anche la moda di andare a fare shopping nell’esotica Cuba, salvo poi dimenticarsi di loro tra un paio di anni…
In ogni caso la parte positiva di questo processo rimane che adesso anche molti artisti (così come musicisti, scrittori, ecc.) che non necessariamente sono “uomini e occidentali” contribuiscono ad un patrimonio culturale che appartiene a tutti. Credo che finalmente ci si sorprenda in negativo quando questo non avviene … per esempio la Biennale di Venezia curata da Germano Celant dove non c’era praticamente traccia di artisti non occidentali.

Qualche flash dagli scorsi anni della manifestazione. Aneddoti, gossip, avvenimenti. Cosa ricordi?
Lavorando con un artista, dovendoci dividere una o più giornate, ti avvicini anche agli aspetti umani di persone di cui conoscevi soltanto il lavoro. Devo dire che raramente si rimane delusi (anche se a volte accade) e incontrare persone come Alfredo Jaar, Jimmie Durham o William Kentridge, al di là della loro capacità artistica, ti arricchisce dandoti un diverso sguardo sul mondo. Se devo limitarmi alle conferenze devo ammettere che Marina Abramovic è stata quella che è stata capace maggiormente di magnetizzare l’attenzione su di sé. E’ stata una vera e propria performance (a cui hanno partecipato almeno 600/700 persone). Ha fatto una conferenza su come si può usare il corpo usando decine di video sia delle sue performance sia di quelle di molti altri artisti (da Gilbert & George fino ai suoi più giovani studenti) lasciando tutto il suo pubblico affascinato.

Quale è stata la ‘partecipazione popolare’ alle scorse edizioni della rassegna? E che tipo di pubblico segue la manifestazione? Addetti ai lavori? Studenti?
Mi sorprende sempre vedere quante persone vengono a queste conferenze e che prendono parte alla discussione che ne segue, segno che la gente ha molta voglia di confrontarsi su problematiche artistiche e culturali. Anche per questo primo incontro con Minerva Cuevas (che è praticamente sconosciuta in Italia, dove non hai mai esposto) c¹erano anche persone in piedi in una sala con 150 posti a sedere. Sicuramente la maggior parte dei partecipanti sono giovani artisti e studenti dell’Accademia, che è il nostro obiettivo primario (voglio ancora sottolineare che questa manifestazione è sostenuta e organizzata dal Settore Giovani del Comune di Milano), anche se si fanno anche vedere altre figure professionali del mondo dell¹arte e semplici curiosi attratti dalle tematiche e dalla voglia di capire un po¹ di più cosa accade nell¹arte contemporanea. Per queste ragioni nella prima edizione avevamo cercato la collaborazione dell’Accademia di Brera che ha ospitato il primo ciclo di conferenze, ma visto che eravamo stati completamente ignorati (quando non ostacolati) ci siamo spostati alla Triennale di Milano che tutt’ora ospita gli incontri.

Massimiliano Tonelli

[exibart]

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