07 maggio 2002

Fino al 9.VI.2002 Barry McGee Milano, Fondazione Prada

 
La vitalità della metropoli urla dai graffiti che ricoprono interamente le pareti della galleria; carcasse di macchine e ruggine con i colori di San Francisco, l'eco di Basquiat e di Haring in una sorta di Wunderkammer del XX secolo. Di seguito due contributi critici...

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Un passaggio insolito che, una volta varcato, si rivela essere un camioncino capovolto, altri due furgoni abbandonati ed ammaccati, un angosciante rumore di sottofondo, martellante nel suo persistente ticchettio, un forte odore di vernice proveniente da grandi figure dipinte su pareti metalliche…
Non ci troviamo in una lontana e dimenticata periferia di Città del Messico o Los Angeles ma, semplicemente, stiamo visitando la prima mostra personale italiana dedicata a Barry McGee, artista americano che da sempre ha scelto di scandagliare ed analizzare nei suoi aspetti più alienanti e provocatori lo scenario urbano e suburbano, in un intreccio di influssi che, dalla pittura murale messicana alla tramp art, dai poeti della beat generation ai comics, si esprime ora attraverso disegni, dipinti, installazioni e soprattutto graffiti.BarryMcGee[1].Untitled
Autentico “artista di strada”, infatti, fin dagli anni ’80 Barry McGee li considera come strumento linguistico che più si avvicina a quella itinerante idea di libertà che, nel suo lato più spontaneo e diretto, sceglie di comparire su muri, vetrine e vagoni di treni, in aperta sfida verso quell’invalicabile senso di proprietà pronto a relegare un libero gesto nel regno dell’illegalità.
Una libertà che, infatti, esige l’anonimato per sfuggire a controlli o definizioni, consapevole che la città implacabile attende le luci del mattino per cancellare frettolosamente i segni di un’umanità abbandonata e scomoda.
Un’umanità rappresentata da volti tristi, solcati da rughe, apparentemente senza più quell’energia che permetteva loro di affrontare ogni giorno una nuova lotta contro l’emarginazione, contro l’oblio, contro un’indifferenza distruttiva forse più della miseria stessa, desiderosa solamente di allontanare da sé con fastidioso imbarazzo tutto ciò che denuncia questo mondo senza voce.
Intuendo che la forza disperata della strada non può essere comunque sufficiente per una sfida espressiva completa, Barry McGee sente di dover trasportare parte di questa energia all’interno di musei e gallerie, creando installazioni che traggono linfa vitale proprio dagli scarti più umili della moderna società dei consumi.
Veicoli distrutti, “grappoli” di bottiglie vuote, insegne dismesse, cartoni rotti, vecchie lamiere, vengono accostati ad enormi wall drawings, ove il tratto nitido ed elegante dell’artista demiurgo delinea con gesto veloce una folla di volti umani.
Un gesto veloce che però non dimentica di sottolineare la vena di malinconia, di precarietà, di rassegnata tristezza della contraddittoria realtà urbana, lasciando così un testamento visivo che solo nei suoi più eterogenei ma realistici linguaggi può trovare una forte ed universale coesione espressiva.
Elena Granuzzo

La mostra di Barry McGee, alla Fondazione Prada, immerge immediatamente lo spettatore nella realtà metropolitana della periferia di San Francisco.
I graffiti di questo artista americano, nato e cresciuto a San Francisco e oggi alla sua prima mostra personale italiana, catturano per la loro vivacità e vitalità, fresche e immediate.
Wall drawings, pitture su superfici metalliche arrugginite e disegni -realizzati dai suoi amici ed esposti all’interno di vecchie macchine capovolte- mostrano il paesaggio urbano degradato degli slums americani. barry McGee-IndelibleMarket
Attivo dagli anni Ottanta, Berry McGee viene dalla strada, dove suo padre faceva il carrozziere e lui firmava i suoi graffiti con lo pseudonimo di “Twist”.
Volti e personaggi di queste realtà diventano enormi murales dipinti sui muri con spray, smalto, acrilico; vetri rotti, lamiere, bottiglie, cartone, ruote, ruggine, gomma: gli oggetti della città sono riutilizzati per esprimerne l’alienazione e il degrado.
Le installazioni presentate, come quella che apre la mostra –Today Pink(2002)-, restituiscono un’atmosfera surreale: siamo catapultati nei ritmi e nei colori urbani, allo stesso modo delle figurine che girano a testa in giù, attaccate alle ruote dei vecchi camioncini.
Sorprende che un artista che proviene dal degrado e dall’emarginazione metropolitana – dalla stessa realtà dei barboni, dei senzatetto, dei tossicodipedenti, dei malati di Aids- esponga presso la galleria di uno dei simboli della ricchezza economica di Milano; la mostra, pur se bene allestita, manca infatti di una reale ricreazione dell’ambiente che rievoca. C’è il rischio di scordare da quali esigenze e disagi nasceva il graffitismo e di confonderlo con un movimento privo di qualsiasi tipo di denuncia sociale.
In occasione della mostra, Barry McGee è stato intervistato da Germano Celant; l’intervista fa parte di un testo, pubblicato dalla Fondazione Prada, che raccoglie numerose immagini (fotografie scattate dall’artista), una biografia e una bibliografia.
Valentina Sansone

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Barry McGee
Dall’11/04 al 9/VI
Fondazione Prada, via Fogazzaro 36, Milano
Ingresso: libero
Orari: martedì-domenica 10-19; chiuso lunedì
Informazioni: tel. 02/55028498, fax 02/54670258,e-mail <a
href=mailto:info@fondazioneprada.org>info@fondazioneprada.org
Pubblicazione: Fondazione Prada


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2 Commenti

  1. Non mi sono ancora fatto un’idea definitiva ma sono indirizzato a condividere il commento finale di Valentina che, per altro, mi sembra in linea con la linea critica di almeno una parte della stampa specializzata (se non erro, negativamente si è espressa anche Angela Vettese). Tra l’altro questa mostra mi suona tanto da falsa trasgressione all’ordine per benpensanti. Qualche anno fa ricordo di aver visto una bella mostra fotografica, senza particolari velleità artistiche, che aveva come scopo di documentare vita e creatività dei centri sociali (era a Bologna). Ecco, io credo appunto, e senza voler fare alcuna discriminazione a livello politico o sociale, che per respirare veramente l’atmosfera che McGee ha tentato vanamente di ricostruire, basti andare in luoghi come il Livello a Bologna. Sulla scena underground è facilissimo incontrare personaggi e manifestazioni artistiche che, sviluppandosi in contesti estranei al mondo dell’arte o del mercato, ciononostante mantengono, forse anche in virtù dello stesso contesto, intatte qualità come sponteneità, complessità critiche o ideologiche, naturale predisposizione a dar voce ad una parte consistente della cultura giovanile, ecc. Tempo fa, tanto per fare un esempio, scrissi un articolo per commentare gli splendidi graffiti di Blu che si possono osservare in giro per Bologna. In seguito ho scoperto che gli stessi graffiti decorano gli spazi del Livello. E’ anche da considerare il fatto che oggi perfino l’industria della moda, a detta dei loro stessi esponenti, cerca ispirazione proprio dalla strada e dai giovani per poi lanciare le proprie mode, e i media sono pieni (pubblicità, video musicali e quant’altro) di immagini costruite e false del paesaggio periferico e suburbano delle nostre città. Ma in fede non credo che McGee puntasse a fare un’analisi critica di questo fenomeno e, anzi, forse questo progetto non fa che alimentare i sospetti. Qualcuno dirà che distinguere tra vero e falso è una pretesa assurda al giorno d’oggi, ma allora il primo “spacciatore” di questa distinzione pare proprio essere il buon McGee, almeno stando alle sue dichiarazioni nell’intervista a Celant. In conclusione si potrebbe dire che più che di falsità, di artificiosità, di anacronismo, questa mostra potrebbe essere accusata di semplice insulsaggine, insipidezza, inutilità, mancanza di senso: potevamo farne a meno, con ciò sperando di tarpare almeno un poco le ali a chi pretenderebbe di proclamare la nascita di un nuovo mito. Abbiamo avuto Basquiat, Haring, che ce ne facciamo di McGee? Francamente preferisco le cose di gente come Shag, Taxali, Chow (il gruppo di http://www.laluzdejesus.com o della bolognese http://www.mondobizzarro.net), di altri artisti vicini alla cultura trasversale della rivista Juxtapoz, o dei canadesi Farber o Dzama, tanto per citarne alcuni, restando nello stesso ambito di ispirazione.

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