01 febbraio 2005

Super Guggenheim in laguna

 
Trecentoventimila visitatori nel 2004. Che, in percentuali, vuol dire il 15% in più rispetto all’anno precedente. Così ha chiuso in bellezza il bilancio. E adesso si prepara alla riapertura dopo qualche settimana di restyling. Noi abbiamo incontrato Philip Rylands. Per parlare di politiche museali, mostre e collezioni. A casa di Peggy, per festeggiare i quindici anni del Guggenheim di Venezia…

di

Come è arrivato a Venezia?
Ottenuta la laurea al King’s College di Cambridge, sono venuto a Venezia nel 1973 con mia moglie per svolgere ricerche sul pittore veneto-bergamasco Palma il Vecchio, impresa felicemente conclusa nel 1981 con un dottorato di ricerca (sempre di Cambridge) e la pubblicazione, nel 1988, del catalogo scientifico del pittore da parte della Mondadori. Nel frattempo ho aiutato il Comitato privato inglese per la salvaguardia di Venezia, il Venice in Peril Fund, guidato dal celebre Amb. Sir Ashley Clarke. Inoltre, insegnavo storia dell’arte per diverse università americane con sede in Italia.

E il rapporto con Peggy Guggenheim come è nato
Io e mia moglie la conoscevamo già nel 1973, appena arrivati, presso il Consolato inglese e siamo diventati amici. Subito dopo la morte di Peggy Guggenheim, il 23 dicembre del 1979 nell’Ospedale di Camposampiero vicino a Padova, a causa di una un’alta marea che aveva inondato il pianterreno di casa sua a Venezia, ci siamo trovati ad aiutare il figlio, Sindbad Vail, uomo di grande simpatia che viveva a Parigi, a sistemare le cose di Peggy a Venezia. La collezione di opere d’arte moderna, assieme al palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande, erano già da tempo proprietà della Fondazione Solomon R. Guggenheim del defunto zio di Peggy con cui lei aveva concordato la donazione inter vivos. L’allora direttore della Fondazione Guggenheim, Tom Messer mi chiese di custodire la collezione e amministrare il museo che riaprì a Pasqua del 1980. Ed è questo che ho fatto e che faccio ancora oggi.

Cosa apprezza maggiormente degli musei italiani?
Che sono ricchi di collezioni invidiabili, che sono culturalmente radicati nel territorio, che sono gestiti con una forte strategia di conservazione dei beni museali. E che la tradizione vuole siano diretti da studiosi preparatissimi.

…e per quanto riguarda i difetti?
Premesso che i musei sono generalmente pubblici, la gestione è circoscritta dalle leggi per gli enti pubblici ed i finanziamenti non sono collegati alla ‘performance’ del museo stesso. La prima toglie flessibilità ed agilità nello svolgere delle attività culturali, i secondi soffocano la motivazione del personale.

Dunque nei musei italiani ci vorrebbe meritocrazia?
Esattamente. Quando l’indice dei visitatori, la campagna di marketing, la raccolta dei fondi e lo svolgimento delle pubbliche relazioni in generale vanno a diretto beneficio del museo stesso, dovrebbero far scattare una spirale virtuosa di successo ed una componente di dinamismo nella programmazione, perfettamente in linea con la missione del museo. Non solo conservazione, quindi, ma anche studio ed interpretazione.

Torniamo al Guggenheim Venice. Ci parla delle prestigiose partnership intraprese dal suo museo?
Negli anni, cominciando nel 1982 a Roma, la Fondazione Solomon R. Guggenheim ha organizzato diverse mostre in Italia, da Bari a Cagliari, da Mantova a Udine, fino alla più recente, la mostra Action Painting. Arte Americana 1940-1970 a Modena. Quest’ultimo è un modello di collaborazione, di fiducia e di reciproci benefici che offre, innanzitutto, l’opportunità a tutte e due le parti di proporre la cultura attraverso l’energia delle proprie risorse immobiliari, umane, artistiche ed economiche. La Collezione Peggy Guggenheim, grazie al sostegno della Regione Veneto, sta consolidando i programmi didattici con le scuole di Venezia e del Veneto. L’Università Ca’ Foscari, lo IUAV di Venezia, le Università di Padova, Trieste e Bologna, in maniera più o meno continuativa, hanno partecipano al programma internazionale degli stagisti presso la Collezione.

E poi ci sono le aziende vere e proprie…
Un’importante arena di “confronto” è il sostegno che la Collezione Peggy Guggenheim riceve dai soci italiani del suo Comitato Consultivo, instaurato fin dal 1980, e dalle philp rylands aziende associate nel marchio delle Intrapresae Collezione Guggenheim, tutte italiane (Arclinea, Automotive Products Italia, Barbero 1891, Bisazza, Corriere della Sera, Enel, Fitt, Hangar Design Group, Hausbrandt, Listone Giordano, Nicoletti, Palladio Finanziaria, Rubelli e Salvatore Ferragamo) o filiali italiane di aziende internazionali come Electrolux, 3M, Leo Burnett, Swatch e Wella.

Quali sono state le mostre meglio riuscite in questi anni?
Nel 1986 la mostra Jean Dubuffet e l’Art Brut confermò la grandezza di questo maestro francese e fu la prima occasione in cui le sue opere furono esposte a fianco di un movimento artistico, l’Art brut appunto, da lui stesso identificato e nominato. Forse la mostra squisitamente più perfetta è stata l’assemblaggio di un gruppo di opere di Alberto Giacometti (1995). Fu concepita dal curatore Fred Licht, come un confronto fra le versioni in bronzo e gesso della Femme qui marche, affiancate dalle opere (disegni, un quadro, bronzi, gessi, legni, figure intere, busti, e frammenti, opere mature, opere surrealiste) della collezione Patsy e Raymond Nasher (oggi il Nasher Sculpture Center), e di quelle provenienti dagli allora musei Guggenheim di Venezia e New York. Importante per lo svolgimento della nostra missione culturale sono state le prime mostre in Europa di Anni Albers, di Stuart Davies e William Baziotes. Una mostra dedicata alla produzione Futurista di Gino Severini (La Danza, 1909-1916, nel 2001), curata da Daniela Fonti, fu particolarmente riuscita, e forse la mostra più popolare per il nostro pubblico italiano è stata quella dedicata al simbolismo di Segantini, curata da Annie-Paule Quinsac. Personalmente ricordo con gioia la collezione di disegni, dal ‘400 al ‘900 di Jan e Marie-Anne Krugier-Poniatowski (The Timeless Eye. Opere su carta dalla Collezione Jan e Marie-Anne Krugier-Poniatowski). La collezione è una vera e propria “lezione di storia dell’arte”, con decine di capolavori (vengono subito in mente Pontormo, Reni, Watteau e Degas). In termini di valore storico senza dubbio il numero uno è stato L’età di Michelangelo—disegni del ‘500 dall’Albertina di Vienna (2004). In quanto a puro splendore estetico, quest’ultima mostra è stata in concorrenza solo con L’ultimo Morandi (1998), curata da Laura Mattioli.

E per finire un accenno sul futuro…
La breve chiusura del museo permetterà il ripristino dell’assetto originale della cosiddetta barchessa, un padiglione nel giardino costruito nel 1957 su ordine di Peggy. Questo spazio era stato compromesso da una biglietteria che, dall’ottobre 2003 grazie al Progetto Lissone, è stata trasferita in un altro edificio che ospita una nuova, più ampia entrata del museo. Tra gli altri importanti lavori di manutenzione e di adeguamento del museo vorrei segnalare la predisposizione degli spazi per l’installazione di un elevatore per disabili che sarà attivo a primavera. Dopo la riapertura del museo, il 5 febbraio, verrà inaugurata la mostra Brancusi. L’opera al bianco, incentrata sull’opera fotografica dell’artista rumeno, in collaborazione con l’Atelier Brancusi del Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, Parigi. La mostra sarà visibile dal 19 febbraio al 22 maggio. Dal 4 giugno, il museo esporrà opere della collezione Pietzsch di Berlino (Affinità, tra Surrealismo e Espressionismo Astratto Americano) e una mostra di dipinti su carta di Jackson Pollock, curata da Susan Davidson, che alla fine di gennaio apre al Deutsche Guggenheim Berlin e che avrà come seconda tappa il museo di Venezia.

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duccio dogheria

Collezione Peggy Guggenheim
Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701, Venezia
mer-lun 10.00-18.00
ingresso € 10,00 adulti, € 8,00 oltre 65 anni; studenti muniti di tessera € 5,00




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