03 aprile 2003

fino al 21.V.2003 Intervista con la pittura Venezia, Bevilacqua La Masa

 
Dopo le critiche arriva il riscatto. La gestione Vettese recupera punti con una mostra che, nonostante qualche difetto, ha un respiro internazionale, appare coraggiosa e, soprattutto, presenta pezzi di elevata qualità. E suggella il tam tam che è sulla bocca di tutti: riecco la pittura!

di

Il progetto documenta alcuni percorsi della ricerca pittorica internazionale ma sarebbe sterile soffermarsi sui nomi degli assenti o sindacare sulla formazione di artisti spesso emigrati dal paese d’origine: giudichiamo invece una scelta dettata dal gusto quasi collezionistico del critico Gianni Romano, che non vuole sentenziare nulla e, proprio per questo, funziona.
Introduce il blob psichedelico di forme, colori e parole di Erik Parker, tra popHavekost, Eberhardt:Sport dunkel, Bo2 + Sport hell, Bo3; 2002-2003; olio su tela; cm. 190x140 (x2) delirante e graffitismo, da godere da lontano e da esplorare da vicino, come una carta geografica in cui, al posto di città e stati, ci sono parole e frasi del linguaggio tribale giovanile.
Il pop si raffina nei pennelli di Paul Morrison: solo nero di china per il suo perfetto paesaggio, ombra di un cartoon di cui immaginiamo i colori sgargianti. E’ bellissima l’armonia minimal di Carsten Nicolai ma finisce per stonare, nel contesto della mostra.
Nella seconda stanza, il soggetto è la generazione giovanile: annoiata e sfaccendata, ma vestita alla moda, nella critica geniale di Muntean & Rosemblum, rappresentata conMuntean & Rosenblum; Untitled (Our curse is that….); 2002; acrilico su tela; cm. 200x250 tecnica sublime dalle prospettive distorte di Nicky Hoberman, immatura e inquietante in Kiki Lamers, le cui tonalità preziose restituiscono gelide fisionomie aliene.
Elke Krystufek acuisce la drammaticità di un autoritratto di Van Gogh fino a sconfinare nel grottesco. Di Eberhard Havekost colpisce la tecnica fotografica con cui, dettagli insignificanti, si dissolvono in un ritmo di forme e colori di puro piacere estetico.
La prassi naive ma rigorosa di Peter Doig non indulge nella decorazione e alimenta una figurazione la cui grossolanità restituisce un verismo disarmante ed emblematico. Piccole dimensioni per Karen Kilimnik ed Elizabeth Peyton: l’immaginario della Parker, Erik: These Days; 2003/2003; acrilico su tela; cm. 243,8x182,8 prima evoca il decadentismo dei quadretti di genere del ‘700, quello della seconda è dettato dalla manìa per i vip della musica pop, ritratti quasi distrattamente e perciò intimamente veri. Di Margherita Manzelli, unica italiana, è un ritratto demoniaco e pallido, tipico della sua produzione. In mostra anche il vibrante pointilisme di Udomsak Krisanamis, la nuova corrente polacca con Wilhelm Sasnel, il lezioso ritratto di Mao di Yan Pei Ming e il gesto concettuale di Michel Majerus, artista morto prematuramente l’anno scorso, su serigrafia di Basquiat.
Della mostra non convincono allestimento e illuminazione; discutibile è la scelta invasiva delle luci spot per i pezzi più piccoli.
Buono è il catalogo, con molti testi ma senza biografie e con poca bibliografia. La moda delle interviste alla Bonami ha qui un risultato migliore dell’originale, con una scelta di brani e conversazioni associata all’illustrazione del lavoro dell’artista. Foto piccole, ma c’è tutta la mostra e molti altri lavori. Inconsistente il contributo della Vettese.

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mostra visitata il 21 marzo 2003


Intervista con la pittura
Dal 22.III.2003 al 21.V.2003
Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, galleria di piazza San Marco, San Marco 71/c
orario di visita: 14.00-19.30; chiuso il martedì
ingresso: gratuito
per informazioni: tel. 041 5237819; e-mail info@bevilacqualamasa.it; web http://www.bevilacqualamasa.it
a cura di Gianni Romano, interviste di Patricia Ellis

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[exibart]

5 Commenti

  1. ottimo alf!: “Della mostra non convincono allestimento e illuminazione; discutibile è la scelta invasiva delle luci spot per i pezzi più piccoli.”

    dalla presentazione/inaugurazione della nuova sede dopo il restauro: “Se un buon restauro è quello che non si vede, quello della sede della Fondazione Bevilacqua La Masa, a piazza San Marco, è un buon restauro: spazi rigorosi ed essenziali, arredo in linea con questa concezione minimalista. Il cambiamento, sostanziale, dopo anni di trascuratezza, è nella tecnologia, mimetizzata sotto i controsoffitti in cartongesso e che trova il suo punto di forza nel sistema dell’illuminazione.Questo, come ha spiegato l’architetto Alberto Pasetti Bombardella, è improntato al criterio della massima flessibilità e regolato da una programmazione digitale, in una serie infinita di possibili combinazioni allo scopo di trovare la luce adatta per le opere esposte.” (Lidia Panzeri-il gazzettino)

  2. Grazie dello spunto, vale la pena di chiarire: io non sono un esperto di restauri e tanto meno di luci. Premesso questo, io non metto in dubbio la flessibilità del nuovo sistema di illuminazione ma l’intervento “da curatore”, come lo ha definito lo stesso Gianni Romano. Nel caso della sala in questione al primo piano, un po’ l’anima della galleria e del percorso (inutile nasconderlo, la logica del percorso non è stata intaccata dai nuovi interventi), Romano ha scelto di collocare 7 pezzi (spero di non sbagliare col numero) piccoli di Peyton e Kilimnik (misure da un max di 56×48 a un minimo di 17,8×10, con medie sui 25×20). Già questa scelta, con l’ingresso a molti metri di distanza dai pezzi, non ha convinto fino in fondo. Ma la cosa che proprio non funziona, a parer mio, è di aver scelto di tenere le luci diffuse sull’intera stanza (abbassate di intensità rispetto alle altre stanze per agevolare la suggestione di intimità dei pezzi), aggiungendo, nei casi dei 2 pezzi più piccoli, questa luce puntuale che ha la caratteristica di illuminare fortemente la superficie del quadro, lasciando in ombra tutto il resto. Risultato: sembrava di essere in una stanza di quadri con l’eccezione di 2 light box (alcuni visitatori ci sono proprio cascati, indotti a frapporre la mano tra la fonte di luce e il pezzo per provare che si trattava di una luce esterna al pezzo). Dice Romano: sono stato costretto a questa scelta perché quei 2 pezzi si perdevano e perché, negli angoli della sala, l’illuminazione lascia zone d’ombra che è necessario correggere in qualche modo. Quindi è evidente che esiste una doppia responsabilità: da un lato un sistema di illuminazione che, nella stanza presente, non sembra perfetto e, dall’altro, una scelta curatoriale che appare troppo invasiva, specie perché innesca il confronto con le opere vicine che appaiono buie. Fino a che punto si deve spingere il curatore? Ci sono altri esempi, in questa mostra: per esempio, il testone di Yan Pei Ming, è stato inclinato per evitare, credo, il riflesso della luce diretta, inducendo un effetto di luce radente. C’è poi il pezzo di Carsten Nicolai: bellissimo, ma che ci fa questa raffinata sinfonia in mezzo al grunge di Parker, al Jingle di Morrison e alla meccanica da Olivetti Lettera 32 di Krisanamis? Scelte del genere, rischiano di rinfocolare le accuse di scelte dettate da ragioni geopolitiche (qualcuno che rumoreggiava, c’era). A me, francamente, importa poco che sia così oppure no, preferisco giudicare i lavori; il resto riguarda le coscienze e i preti. Per esempio ci sono 3 artisti su 17(Krystufek, Peyton e Kilimnik) provenienti dalla stessa galleria veneziana, il Capricorno. Scandalo? Macché! Non è forse vero che, nonostante le critiche rivolte alla strategia di questa galleria che magari vedremo un’altra volta, passano di lì alcuni dei nomi più interessanti della nuova pittura americana? Certo, si potrebbe discutere se era il caso di mettere 2 artiste, tutto sommato vicine, e non, per esempio, un Tim Gardner, una Hessenhigh o qualche esponente della nuova astrazione, che forse avrebbero chiuso meglio il cerchio. Almeno nei primi 2 casi, tuttavia, sempre dal Capricorno si sarebbe passati.

  3. il problema, e credo sia italiano, è che si interpellano architetti per fare gli allestimenti sia per la distribuzione degli spazi sia per la gestione luminosa, senza rivolgersi invece a chi realmente opera nei locali deputati alla messa in mostra dell’arte.
    ci fosse un minimo di serietà allora per l’illuminotecnica si cercherebbe un direttore della fotografia oppure uno scenografo con specifiche scenotecniche applicabili alle esposizioni d’arte contemporanea. accade invece che quando non si sa quale figura interpellare si finisce per chiamare l’architetto o il geometra, che fa tanto comunale, di turno. così capita anche al candiani con risultati non sempre felici e comunque molto costosi.
    non solo, crediamo che lo spazio della galleria blm sia molto difficile. a partire dalla predominanza cromatica della pavimentazione.
    l’operazione in questo caso di alberto pasetti bombardella ci sembra molto alla gregor schneider, è ovviamente una battuta, e cioè aggiungere strati su strati alle superfici “calpestabili”. al soffitto un controsoffitto, al controsoffitto un zoccolo e così via.
    ora, visto il nostro non buonissimo appeal con l’attuale blm, ci pare poco sensato produrre un restauro che oltre modo aggiunge, come hai puntualmente notato, difficoltà per il curatore, per chi fa l’allestitore e falsa, come hai precisato, anche la visione delle opere in mostra.
    ci viene in mente la sede londinese di saatchi (inizio mess. glam/fun) sita nella beatlesiana boundary road, li vicino c’è anche l’abitazione di gioventù dei f.lli “oasis” (fine mess. glam/fun), dove il ragionamento sugli spazi, pur trattandosi di altro edificio, è stato affrontato per sottrazione. via il pavimento, via il controsoffitto, luci modulabili per poterle gestire in un open space su vari locali, mettere cioè assieme più loft, a seconda del tipo di intervento allestitivo.
    poi però sulla recensione non ci è chiarissima una cosa. la sinossi il home dice: “Dopo le critiche arriva il riscatto. La gestione Vettese recupera punti con una mostra che” però concludi in maniera abbastanza dura. non tanto sui pezzi in mostra, che avranno dei pregi per conto loro ovviamente, ma proprio sulla operazione curatoriale che li ha visti messi in mostra assieme. probabilmente, forse, il sottotitolo è a cura della redazione.
    un cosa invece teniamo a voler evidenziare che dopo alcune operazioni di gestione amministrativa con mostre a pagamento si è tornati all’ingresso libero. cosa buona anche se ci sembra comunque questa una falsa partenza della nuova gestione. a meno che dopo questa intervista con la pittura no segua quella con la scultura, con la decorazione, con la moda, con il video, con l’installazione, con la grafica, con l’ambientazione, con la public art (????!!!), con la performance, con la….

  4. No, l’incipit non è opera della redazione. Il motivo? Innanzitutto, come dicevo, giudico le opere e, secondo me, qui ci sono delle belle opere (almeno 9, 10 bellissimi lavori). Inoltre, dopo aver scambiato 2 battute con Romano, ho voluto sentire il polso del pubblico ed ho fatto un giro con alcuni giovani artisti e ragazzi che frequentano l’ambiente veneziana. Il giudizio, al di là di qualche appunto, è stato complessivamente positivo. Viste le polemiche che hanno preceduto l’evento, sentite soprattutto su Ex (l’ingerenza dei milanesi, le critiche alla collettiva, la notizia dell’affitto al padiglione cinese, ecc.), mi sembra si possa concordare sul recupero di credito.

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