16 luglio 2001

Stele di Axum: la svolta ?

 
Un lettore del nostro portale pare avere le chiavi per risolvere la querelle scoppiata da alcune settimane attorno al monumento che dovrebbe essere restituito all’Etiopia...

di

La lunga ‘querelle’ sulla restituzione della Stele di Axum, che in questi giorni occupa le pagine dei maggiori quotidiani, potrebbe definitivamente concludersi.
A fornire elementi fondamentali alla risoluzione del “caso” è proprio Exibart, dove di fatto la polemica è iniziata. Difatti, tra i vari commenti ad una notizia uscita sul sito in gennaio (vi riportiamo il link in calce), lo scorso giovedì 12 luglio sembra essere apparsa una testimonianza fondamentale.
Il notaio Pietro Barziza, legato per motivi familiari e lavorativi alla terra etiope, riporta nel sito alcune dichiarazioni di funzionari abissini che, se prese per buone, avallerebbero decisamente la tesi della non-restituzione. Sarebbe stato in Negus in persona – secondo
Barziza – ad “interloquire con i plenipotenziari italiani” e quindi “a convenire sulla necessità di un ospedale” – poi realizzato dal nostro paese – a sostituzione della resa del monumento pattuita nel primo dopoguerra.
Dichiarazioni importanti che necessariamente fanno guardare tutto il ‘caso’ da un punto di vista capovolto. E’ stata dunque la stessa Etiopia a rinunciare all’obelisco? Le parole sarebbero di un funzionario del ministero degli esteri abissino che ha partecipato
direttamente alla promessa di scambio stele/ospedale. Niente di tutto ciò però è stato registrato, nessun notaio era presente?
Se tutto ciò fosse vero perché allora tutte queste polemiche? Come mai il presidente Scalfaro si sentì obbligato nel ’97 a promettere ufficialmente la restituzione? Il notaio Barziza ci aiuta a rispondere
a questi interrogativi. Dopo alcuni sondaggi tra i cittadini di Addis Abeba, sua abituale meta lavorativa, Barziza viene a sapere che la campagna pro-restituzione in Etiopia non suscita l’interesse di nessuno di loro, molti anzi affermano che si tratta addirittura di una montatura orchestrata dagli archeologi inglesi invidiosi dei colleghi italiani. Secondo le opinioni raccolte dal notaio sarebbero sempre i britannici ad aver ricoperto i taxi della capitale, Addis Abeba, con la scritta “ridateci l’obelisco di Axum”.
Si tratta del successo definitivo dei contrari alla restituzione? Come potranno i favorevoli alla restituzione perorare la causa della ‘prova di civiltà’ nei confronti di un paese che invece ha consapevolmente rinunciato al ‘maltolto’ barattandolo con un ospedale?
Largo ai
commenti!

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massimiliano tonelli

[exibart]

22 Commenti

  1. I punti di questa incredibile vicenda sono fondamentalmente tre:

    –1)Gli obblighi internazionali sono venuti meno allorchè il Negus propone al posto della restituzione della Stele, la costruzione di un ospedale (poi infatti costruito a spese dell’Italia).

    –2)La Stele di Axum, a sentire il notaio Barziza e il professor Mattazzi, non è poi un reperto di valore eccezionale ed unico per la documentazione archeologica della civiltà etiope. A fronte del fatto che il trasporto sarebbe rischiosissimo (ne potrebbe provocare la distruzione), esistono diversi altri obelischi nella stessa zona di Axum, molto più grandi ed imponenti, che giacciono ancora a terra nella più completa incuria.

    —3)Gli Inglesi per invidie personali e posizioni ideologiche che sarebbe meglio dirigere verso il loro paese (colmo di opere d’arte provenienti da ogni parte del mondo…), finanziano addirittura una campagna pubblicitaria in Etiopia pro-restituzione…

    ——Dimenticavo un quarto punto essenziale:– In Italia c’è stato qualche uomo politico buonista ed impiccione che ha pensato bene di annullare (per motivi ideologici? Per cialtrona superficialità?) un pezzo della nostra storia patria…
    Speriamo che si faccia qualcosa per rimediare prima che sia troppo tardi!

  2. L’avvocato Barzizza – spero si chiami così – dimentica che le brutture architettoniche del periodo fascista, sono ancora in piedi e visibili nel nostro paese, non vedo quindi il motivo di arricchire il patrimonio culturale con monumenti che non ci appartengono, ma che fanno parte della cultura di un popolo che settant’anni fa è stato invaso e colonizzato.
    Che sia restituita!

  3. Al Signor notaio, che sembra appartenere ad una categoria che poco annota e che viene a conoscenza delle questioni solo dalla moglie del fratello del cugino della zia del cognato della vicina di casa di qualcuno che nulla sa, vorrei dire che chiedere alla “gente” appartentenente a un popolo che cede volentieri un obelisco in cambio della costruzione di un ospedale non è molto edificante come fonte di una questione molto seria.
    Sono certo che se avessero chiesto a un italiano della depressione, o perchè no, a uno schiavo della Costa d’avorio, di scambiare l’ultima cena di Leonardo per un pezzo di pane non avrebbe esitato per un momento.
    Anzitutto perchè magari nemmeno conosceva l’opera e poi perchè, mi dicono, gli affreschi non sono commestibili.
    Quanto alle strade esistenti in Etiopia, se non sono migliori di quelle che l’obelisco ha percorso al tempo di quando l’abbiamo rubato con disinvoltura, dubito che possano essere peggiori.
    Il vittimismo che lascia pensare ad un invidia degli archeologi inglesi è così ridicolo da essere offensivo per l’intelligenza di chiunque, tranne che, forse, per quella dei notai.
    Poi, da buon notaio, prosegue auspicando una spesa di energie per la sistemazione degli obelischi che ci spettano di diritto, piuttosto che occuparci di questioni che “non ci riguardano”.
    Gli errori sono due: il primo è che nessun obelisco, se per questo, è nostro.
    Il secondo è che le ragioni dell’arte, nulla di più lontano dal notariato, sono le ragioni dell’intelletto.
    Chissà… magari la prossima volta ci dirà che una parrucchiera della periferia di Eboli è totalmente disinteressata al restauro del Colosseo.
    Resto della mia opinione sui notai.
    Come resto dell’opinione che l’obelisco va restituito.
    I motivi li ho già espressi… e pensa… non ho nemmeno mai conosciuto il Negus, e nemmeno il marito della zia del notaio.
    Ciao, Biz.

  4. Effettivamente è molto strano che l’Italia, e nella fattispecie nonno Scalfaro, si occupi ancora di una questione di 50 anni fa. Non perchè non possa suscitare clamore, ma perchè è quasi assurdo che le “imprese” di Mussolini destino ancora così grande interesse: non dico di metter da parte la storia, dico solo che la questione non dovrebbe neanche esser posta, visto che in teoria è stato tutto risolto anni fa!

  5. Perché avete tagliato la sfilza di commenti? Ok, era molto lunga, ma messi insieme fornivano un approfondimento che nessun quotidiano, rivista o servizio giornalistico tv è stato in grado di dare.

  6. BIZ, non puoi applicare i criteri di oggi al passato. Si rischia non solo di essere superficiali ma di giungere a delle conseguenze assurde. Dobbiamo restituire la Stele perchè ci sono degli obblighi internazionali o perchè SCALFARONE è tanto buono?
    Obblighi non ci sono più, sarebbe solo un gesto simbolico!
    Sta cedendo un pezzo della nostra storia, una storia lontana, ma che bene o male fa parte di noi. il punto è che ci sono INGLESI che finanziano una campagna pubblicitaria contro l’italia, quando il loro paese è stracolmo di opere d’arte di tutti i paesi del mondo.
    Che la polemica non assuma argomenti e toni capziosi.

  7. Caro Biz quest’argomento vedo che è molto sentito da voi uomini, tu metti tutto il tuo sprint. Mi fa piacere che ognuno esprima il suo parere. Gli scambi di opinione, sentiti ed intelligenti, sono costruttivi e creano stima quando fatti con educazione come te, Giulio, Antonio, ecc. Giusto quando dici : ” Le ragioni dell’arte sono le ragioni dell’intelletto.” Confermo anche quanto dice Giulio che questi commenti, messi insieme, forniscono un approfondimento che nessun quotidiano, rivista o servizio giornalistico tv è stato in grado di dare. Complimenti e cari saluti. Maria

  8. la stele giaceva a pezzi in terra, come molte altre, non capisco questo accanimento da restituzione. Il riportarla in Abissinia può essere dannoso per la sua integrità e non migliorerà le condizioni del parco delle steli ad Axum; è meglio che resti dov’è.
    Marco

  9. Una pagina di storia gia’ scritta NON si puo’ riscrivere e nel bene o nel male DEVE rimanere come ‘memento’ per tutti.
    Perche’ il governo italiano non provvede a recuperare i tesori dell’arte italiana trafugati in tutto il mondo? Esistono richieste ufficiali per la restituzione di opera d’arte fatte ad altri governi?

  10. Noi siamo andati a prenderla, perchè loro non se la possono venire a riprendere, oppure dobbiamo essere sempre noi italiani a rimetterci.
    Saluti.

  11. Trovo semplicemente assurdo che vengano pensate operazioni del genere , dalla dubbia riuscita tecnica , e per di più a spese dei contribuenti ! Sarebbe meglio un risarcimento costruendo in Etiopia un’opera pubblica , forse più utile .
    Ma noi italiani che dovremmo fare per tutte le opere d’arte che sono state portate all’estero o trafugate come bottino di guerra nel corso dei secoli ?

  12. L’USO POLITICO DEL MONUMENTO DI AXUM TRA ETIOPIA E ITALIA

    Claudio Moffa TUTTA colpa dell’Italia, se l’obelisco di Axum non è stato ancora restituito ai suoi legittimi proprietari? L’«anticolonialismo facile» così legge la storia, che tuttavia, ancora una volta, è forse più complessa. Forse lo stesso Haile Selassié non ne gradiva il ritorno. Forse non fu solo per le resistenze veterocolonialiste nell’Italia postbellica, né per i costi del trasporto o la donazione di un’ospedale italiano, che il vecchio combattente antifascista evitò di richiederne con fermezza la restituzione. C’è in effetti un’altra probabile verità da indagare: il negus non reclamò più di tanto l’obelisco trafugato nel 1937, sia per debolezza, sia perché quel monumento-simbolo – a differenza dell’altro, il Leone di Giuda, effettivamente restituito dall’Italia nel 1970 – andava a rafforzare non tanto la dinastia scioana discendente da Menelik quanto due storici «alleati conflittuali»interni, che in Axum avevano plurisecolari radici: la Chiesa copta e la nobiltà tigrina. La prima era stata colpita dalla pur incerta modernizzazione di Haile Selassié in campo scolastico, che aveva spezzato il monopolio religioso sull’istruzione. La seconda aveva manifestato ripetutamente la sua opposizione: aveva coperto l’ex re fuggiasco Ligg Jasu, tanto che il futuro negus neghesti aveva destituito il potente ras Mangascià dalla carica di governatore di Adua; si era opposta alle riforme del nuovo sovrano, che spingevano verso una riduzione delle antiche autonomie regionali; aveva contrasta to la stessa Costituzione del 1931. Ancora negli anni Sessanta i signorotti feudali tigrini costituivano una sorte di «contropotere» al regime imperiale, dotati di propri eserciti feudali e forti di quei «legami verticali» con la popolazione locale sottolineati da Marina Ottoway e John Markakis. In queste condizioni, riportare indietro l’obelisco di Axum, avrebbe significato trasformare la città santa di Axum in un luogo di rivalsa e di prestigio accresciuto per l’elite concorrente. È un ipotesi, ben suffragata sia dal carattere sospettoso e machiavellico di Hailé Selassié, sia, in particolare, dalla sua corrispondenza con l’ex ambasciatore a Roma Ato Emmanuel, emarginato dalle trattative con Roma – così risulta da un carteggio studiato da Pankhurst – forse proprio perché troppo insistente sulla questione dell’obelisco. Quel che è certo è che un retroterra politico della vicenda storica c’è stato, e c’è tuttora anche da parte degli altri protagonisti della «battaglia dell’obelisco». Il primo è l’attuale presidente etiopico Meles Zenawi, succeduto a Menghistu nel 1991. Meles è appunto un tigrino; il suo Fronte di liberazione «marxista leninista» sostituì sul campo quello – ovviamente non così etichettato – del vecchio ras Mangascia, spaventato dalla riforma agraria radicale del nuovo potere rivoluzionario di Addis Abeba. Divergenze ideologiche (oggi rientrate, Meles si è convertito al libero mercato), convergenze etniche: così è talvolta l’Africa. Il fatto comunque che il nuovo preside nte etiopico spinga adesso per la restituzione, dipende anche da questo fattore «regionale». Ma c’è di più: il regime di Addis Abeba è oggi nell’occhio del ciclone, sottoposto ad una contestazione interna durissima. Gli etiopici avevano vinto sul campo la guerra con l’Eritrea, ma con la pace del 12 dicembre scorso l’hanno persa. Ecco dunque la rivolta di aprile: 53 studenti uccisi dalla polizia, centinaia di feriti, migliaia di arresti, ivi compresi prestigiosi intellettuali come Mesfin Wolde Mariam, guard a caso uno dei firmatari della petizione dei 500 del 1992 per il ritorno dell’obelisco. La stampa internazionale ha sorvolato sulla strage, ma Meles ha dovuto correre ai ripari, tanto più che l’opposizione gli viene ormai non solo dalla tendenza «panetiopica» contraria alla pace, ma anche dai suoi vecchi alleati del Fronte di liberazione. Una spaccatura nel partito di regime, proprio perché Meles, mentre «svende» l’Eritrea, è costretto a riequilibrare il «federalismo etnico» della nuova Costituzione in fav ore delle etnie e regioni non tigrine. Per risolvere tutte queste contraddizioni, cosa di meglio che recuperare la vecchia tradizione antiitaliana, da una parte denunciando la scoperta di depositi di gas irritanti un paio di mesi fa, ad Amba Alagi, e dall’altra reclamando con forza la restituzione dell’obelisco? Anche a Roma, tuttavia, non si è da meno quanto ad uso politico della vicenda: l’Ulivo oggi protesta contro le resistenze del governo di centrodestra, ma non si capisce perché abbia ritardato esso stesso la restituzione del monumento; e poi, suona un po’ caricaturale questo ritorno di «anticolonialismo» rispetto a certe scelte recenti dell’ex centrosinistra. I ponti del Danubio, la distruzione del patrimonio artistico dell’Irak, non possono esser forse letti quali simboli ed eventi del nuovo colonialismo p ostbipolare? Il centrodestra in questo è tutto sommato più coerente: se non fosse che dietro la polemica contro il ritorno del monumento, potrebbero nascondersi rinunce ad altri punti fondanti dell’ «identità nazionale». È facile fare gli «italiani» con gli etiopici; meno facile, è difendere la sovranità nazionale e l’italofonia nei confronti delle direttive presunte europee che per esempio, negli anni passati, hanno imposto all’Università italiana un modello di trasmissione del Sapere estraneo alla tradizione accademi ca nazionale, condito peraltro di un «Novecentismo» estremistico che riduce il peso delle radici antiche e moderne della civiltà europea. Perché dunque il no ad Addis Abeba? Il monumento di Axum – questo è per me chiaro, ad evitare che il relativismo politicistico faccia perder di vista i principi di fondo – deve essere restituito agli etiopici. Per una questione di elementare rispetto della sovranità nazionale: gli etiopici hanno diritto alla loro, come noi alla nostra.

  13. Ma insomma quante questioni di lana caprina che si fanno in Italia …
    Se proprio non interessa agli Africani questa benedetta stele fatemi sapere quanto costa che me la porto in Australia!!!
    Lì si che farebbe il suo effetto!!!

  14. MA POSSIBILE CHE A NOI ANCHE L ETIOPIA VENGA A RECLAMARE PER UN PEZZO DI PIETRA E ALCUNI POLITICI GAREGGINNO IN SOLIDARIETA SENZA CHE MAI GLI STESSI SI SIANI INTRERESSATI A RECRIMINARE PER LE OPERE CHE CI SONO STATE SACCHEGGIATE SOLO FINO A 2 SECOLI FA!!!!

  15. dal «Secolo d’Italia» del 17 gennaio 2002

    Si riaccende, ancora una volta, la polemica sulla restituzione della stele di Axum. Il governo etiopico non demorde dalla sua posizione di intransigenza assoluta, lasciando sistematicamente cadere tutte le ipotesi alternative di compensazione e – alcuni giorni or sono – ha investito del problema l’Unesco, l’organizzazione internazionale per la cooperazione tra i popoli e per la promozione e il sostegno degli scambi scientifici e culturali.
    Sembra un passo falso, a prima vista, l’iniziativa etiopica, considerato che lo smantellamento della stele, in vista del trasferimento, condurrebbe con ogni probabilità alla sua perdita totale, come è stato da più parti adombrato. Ne consegue che l’Unesco dovrebbe, semmai, suggerire il mantenimento dello status quo, unica soluzione atta alla salvaguardia del monolite. Non è infatti fracassando un’opera d’arte che si contribuisce a una migliore comprensione fra i popoli e a un fruttifero approccio alle rispettive, peculiari esperienze.
    Ma la questione, come sappiamo, è anche politica. Non a caso Tullia Carettoni, presidente della Commissione nazionale italiana dell’Unesco, sorvolando con disinvoltura sulla necessità di tutela dell’integrità dell’opera – e quindi assumendo un atteggiamento che appare in contrasto con lo spirito dell’organizzazione cui appartiene – ha recentemente dichiarato: “La restituzione è un problema politico: esiste una lunga serie di impegni ufficiali per la riconsegna e questi impegni vanno rispettati”.
    Ci si è messo anche il ministro per i Beni culturali Giuliano Urbani che, da tempo in rotta di collisione con il sottosegretario Vittorio Sgarbi – assolutamente contrario alla restituzione per ragioni di salvaguardia della valenza artistica del monumento funerario – ha candidamente dichiarato: “Il governo ha deciso di restituirla ai proprietari per i quali ha un valore religioso. I rischi di sgretolamento della stele vanno assunti dall’Etiopia. Ma, lì tornerà”. Queste le sorprendenti e per tanti versi inopportune affermazioni dell’ormai “rimpastabile” ministro.
    Che il monolite abbia per l’Etiopia un valore religioso è un’affermazione pretestuosa destituita di ogni fondamento. Le grandi stele inalzate forse nel III o IV secolo d. C. non hanno alcuna valenza cristiana e rimandano a concezioni religiose pagane. Lo provano, tra l’altro, le grandi lastre sacrificali di pietra presenti ai piedi delle stele che erano destinate ad accogliere le vittime designate, uomini o animali che fossero, e, munite di apposite scanalature, ne convogliavano il sangue sparso durante il sacrificio. A proposito, che fine ha fatto la lastra della stele di Porta Capena portata anch’essa in Italia nel 1937? Si trova forse in qualche dimenticato deposito del Comune di Roma? Sarebbe opportuno verificarlo, visto che, da tempo, nessuno ne parla più.
    L’Etiopia fu cristianizzata da Frumenzio nel IV secolo e dopo tale avvenimento nessuna stele gigante venne più eretta. Sarebbe come dire che il Vaticano attribuisce valenza religiosa all’obelisco egizio di Piazza San Pietro, fatto portare a Roma da Caligola nel 37 d.C., o che tale valenza è riconosciuta dallo Stato italiano ai ruderi del tempio di Vesta o ai frammenti dell’Ara pacis augustae. La religione dominante in Etiopia è la cristiano-copta, monofisita, conseguenza dello scisma condannato nel Concilio di Calcedonia del 451d.C. Minoritaria è la religione islamica, presente in maniera consistente in Dancalia e nei territori meridionali del Paese attorno al distretto di Haràr, mentre della presenza giudaica testimonia un minuscolo insediamento, nelle vicinanze del Lago Tana, quello dei Falascià, tra l’altro ora assai ridotto a causa del trasferimento in massa di tale comunità in Israele, per motivi di sicurezza, operato alcuni anni or sono dalle autorità di quel Paese.
    Ai tempi del massimo splendore dell’impero axumita, caratterizzato dalla presenza nella capitale di vasti e sontuosi palazzi e dallo svettare delle grandi stele, erano le divinità di origine sabea o minea a essere adorate. Le popolazioni sudarabiche che, varcato il Mar Rosso, provenienti dall’attuale Yemen, avevano occupato e assoggettato l’altopiano etiopico, oltre alle loro consuetudini e alla tecnica delle costruzioni avevano portato con sé anche il proprio pántheon.
    Nell’universo numinoso axumita, una Triade pare avesse la prevalenza su tutti. Athtar, identificato con l’astro del mattino, era il figlio e deteneva il primo posto nel culto. La madre divina era Sams, il sole, che aveva culto e onori limitati, mentre il padre, Uadd, il dio dell’amore, della generazione, e dell’amicizia, era identificato con la luna.
    Con tutta probabilità doveva essere la simbologia metallica di queste divinità a essere rappresenta-
    ta nello slargo a forma semicircolare che caratterizza la sommità delle stele giganti. E doveva essere molto suggestivo vedere all’alba, nelle giornate limpide, i primi raggi del sole nascente colpire l’oro del disco solare, l’argento di Athtar e della luna falcata, ed esplodere in un tripudio di luce.
    L’ipotesi della restituzione all’Etiopia della stele romana è veramente insensata. In molti hanno prefigurato le conseguenze nefaste di un simile gesto. Si verrebbe a creare un precedente assai grave. Si darebbe inizio a una resa dei conti generalizzata. Ma la Storia non si cancella. Chi in Italia è favorevole alla restituzione dovrebbe riflettere a lungo. La Gran Bretagna si troverebbe a dover restituire i fregi del Partenone richiesti dalla Grecia, e riconsegnare all’Etiopia le antiche miniature e i codici sottratti da sir Robert Napier nell’aprile del 1868 a Magdala, al tempo della campagna contro l’Imperatore Teodoro, voluta dalla Regina Vittoria. La Russia dovrebbe restituire alla Germania la Camera d’Ambra e alla Turchia il tesoro di Priamo, e via discorrendo.
    Roma possiede ben dodici obelischi egizi. Se al governo del Cairo venisse il ticchio fare la voce grossa e di pretenderne l’immediata restituzione, il sindaco “buonista” Walter Veltroni dovrebbe correre a smontarli, impacchettarli e restituirli ai legittimi proprietari con tante scuse e con la solenne promessa di non ricadere più in cotanto errore. Saremmo al grottesco, come se ne può arguire.
    Ritornando alla stele di Porta Capena, a parte i rischi di una sua totale frantumazione, molto probabile in caso di una disarticolazione forzosa sulla scorta delle fratture originarie, il suo trasporto ad Axum per via aerea è talmente rischioso da farne ipotizzare il fallimento drammatico. L’aeroporto di Axum, nonostante le affermazioni del governo etiopico, è inadatto ad accogliere un aeromobile delle dimensioni di un Galaxy americano o di un Antonov Mirja russo, che sono gli aerei da trasporto più grandi e potenti del mondo. Far atterrare un aereo del genere con nella stiva il carico della stele sarebbe molto rischioso già all’aeroporto di Fiumicino. Figurarsi ad Axum, a 2.118 metri di altitudine, su di una ridotta striscia di terreno.
    Non è necessario essere degli esperti per comprendere che l’aria rarefatta di tale quota e la costante presenza di forti venti in zona può creare vuoti e turbolenze. Ne consegue che l’aereo per evitare di “stallare” e cadere sulla pista come un sasso, dovrebbe perdere quota avvicinandosi a velocità sostenuta, ma, se la pista è corta, l’atterraggio finirebbe inevitabilmente col portarlo a fracassarsi fuori di essa. Questo può anche risultare ininfluente per il governo etiopico al quale – mi par di capire – non interessa tanto l’integrità della stele, quanto – per motivi tutti suoi – che essa non rimanga più in Italia. Stando così le cose, vorrei sapere quali piloti siano disposti a correre un rischio del genere.
    Ma non è questo il punto. La dottoressa Marisa Laurenzi Tabasso, coordinatrice scientifica dello studio di fattibilità del nuovo trasporto affidato dall’Iccrom ad apposita commissione, ha rilasciato alla rivista «Archeologia viva», in edicola in questi giorni, informazioni illuminanti in proposito.
    Esistono forti perplessità in merito alla fattibilità dello stivaggio dei tronconi della stele nel mezzo di trasporto scelto alla bisogna. Si renderebbe infatti necessario saldare la gabbia metallica di contenimento della stele alle pareti interne dell’aereo con tutte le conseguenze – al momento completamente inesplorate – che da tale fatto potrebbero derivare al velivolo. Le strutture, rese in tal modo estremamente rigide, potrebbero interagire con la carlinga e con le altre componenti del mezzo, in maniera del tutto imprevedibile, e comprometterne la stabilità.
    L’ipotesi di una restituzione via mare sino a Massaua, per poi procedere via terra sino ad Asmara e Axum, è altrettanto peregrina, in quanto, la condizione delle strade, dei ponti e dei viadotti è, oggi, stante le distruzioni conseguenti a una guerra ultraventennale tra Etiopia ed Eritrea, peggiore di quella del 1937. E soprattutto mancherebbe un elemento fondamentale: la volontà incrollabile di superare tutti gli ostacoli e le avversità che galvanizzava gli uomini della Fratelli Gondrand di Milano, l’impresa di trasporti internazionali che fu l’anima autentica dell’ “impossibile” impresa, del “miracolo”, al quale ormai più non credeva neppure Ugo Monneret de Villard, l’archeologo milanese incaricato di curare il trasferimento della stele: portare in Italia il monolite nei tempi strettissimi assegnati dal ministero delle Colonie, in modo che potesse essere posto in opera, a Roma, per l’inaugurazione prevista alla fine di ottobre del 1937.
    Il motivo di tale abnegazione c’era. Per la Gondrand il trasporto della stele non era soltanto un modo come un altro di servire l’Italia. Era un adempiere a un tacito voto. Era la necessità, fortemente sentita, di onorare con il felice compimento della missione il ricordo dei settantaquattro lavoratori civili della Società sorpresi nel sonno, disarmati e inermi, a Mai Lahlà, nelle retrovie del fronte eritreo, all’alba del 13 febbraio 1936, durante la campagna d’Abissinia, e trucidati da una banda di etiopi irregolari dopo essere stati seviziati e mutilati secondo le consuete barbare usanze di quelle terre. Erano operai che con l’avanzata delle truppe provvedevano alla sistemazione delle piste e alla costruzione delle strade. Fra essi il responsabile del cantiere ing. Cesare Rocca, la moglie Lidia Maffioli, e l’ing. Roberto Colloredo Mels. Il furore epico con cui si lavorò al trasporto della stele in Italia fu il modo migliore per rendere loro giustizia.
    Rimane il problema della diplomazia, dei patti sottoscritti, e delle promesse fatte da chi ritenendosi, a torto, autorizzato a parlare in nome della maggioranza degl’italiani si arroga il diritto di poter impunemente cancellare un pezzo della nostra Storia recente. Siamo ancora in tempo a porvi rimedio. Chi scrive è convinto che la decisione di restituire la stele, per le passioni che tale vicenda suscita, e per la rilevanza che tale gesto comporta, non possa essere affidata alla competenza di un sottosegretario, di un ministro, e neppure di un capo del Governo. Dev’essere il popolo italiano a pronunciarsi, con apposito referendum, in un senso o nell’altro. E siccome il costo di tale iniziativa non è indifferente, è opportuno tenerlo in concomitanza con le prossime elezioni politiche generali. Fermiamo tutto, nel frattempo. Chiamiamo a decidere, della questione, l’intero corpo elettorale alla fine della legislatura. Alla sua naturale scadenza, beninteso.

  16. Axum e “New-global”: pani non pietre e armi per Etiopia.
    “No-global” o “new-global”: pani o pietre e armi per Etiopia? Cultura o stupidaggine?
    http://berlusconi-prodi.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=469979
    Pietre a chi certe culture attribuiscono valore culturale costano mille volte più del pane che salverebbe milione di vite umane, forze più d’oro: sono stati trasportati dell’Etiopia come simbolo del ritardato imperialismo italiano, sono costato anni di lavoro politico, di discussione nei mas media, di lavoro per smantellare, trasporto speziale degli specializzati nel trasporto d’armi per Africa, … E la Fao annuncia la morte di 5 milione di bambine l’anno per fame…
    Immagino che la politica usata per il trasporto delle pietre in Etiopia era usato per la collaborazione cultural, economica e social fra Italia ed Etiopia.
    Immagino che i mesi d’informazione occupati nelle polemiche delle pietre si occuperà di pane per chi muore di fame, di cultura per dare più valore alle persone che alle pietre, più al presente e futuro che al passato, più alla collaborazione che allo scontro, più alla pace che alla guerra, più al pane per Africa che pietre e armi.
    Immagino che Italia domandava scuse officiale per errore del passato come ha fatto il Papa per la chiesa, con quelle pietre costruiva un centro culturale d’amistà Italia-Etiopia, alloggiava qualcuno dei 300.000 che vivano per strada e non hanno casa, dando preferenze a quelli d’Etiopia o africani, una biblioteca per un’altra cultura, borse di studio per un futuro governatore dell’Etiopia e per elite culturale africane che creassero una cultura di collaborazione alla volta di cultura di pietre, armi, imperialismi e stupidaggine culturale…
    Immagino intelligenti “no-global” che alla volta di distruggere Napoli per evitare le nuove tecnologie nella funzione pubblica o distruggere Genova per distruggere Berlusconi impedivano la spesa dei più onesti contribuenti per queste stupidaggini, cagavano nell’Axum di Roma fino alla rimozione per costruire il centro culturale d’amistà Itlaia-Etiopia. Immagino che nuovi “new-global” eviteranno lo spreco delle risorse dei più onesti contribuenti per stupidaggine “culturale” e inventano nuove culture…

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