04 aprile 2002

Grandi mostre, una riflessione su Officina America

 
di Marco Altavilla

Si è chiusa il 31 Marzo Officina America a cura di Renato Barilli. Sessanta gli artisti raccolti nella mostra dislocata nelle sedi di Bologna, Imola, Cesena e Rimini. Dall’arte visiva alla musica una necessità di calore e d’emozione pervade l’attuale panorama creativo...

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Tutti al di sotto dei quarant’anni, gli americani in arte si presentano attraverso molteplici espressioni: dalla pittura su tela a quella di decorazione ambientale, dalla fotografia alla scultura, dall’installazione all’oggetto; tre i principali filoni, individuati dal curatore, Per una nuova casa dell’uomo, Per una nuova sensibilità pittorica e L’iperoggetto, ad evidenziare soprattutto un’inversione di tendenza. Officina America, ci lascia in eredità una riflessione di vasta portata che delinea una diversa morfologia rispetto ad alcuni giri di boa che stanno accadendo nella vasta produzione culturale dei nostri giorni. Una produzione, che lega a filo doppio l’arte come la musica e perché no anche il design, la moda e il cinema e che ad un’attenta radiografia presenta la stessa struttura, un medesimo d.n.a.
Gran parte degli artisti presenti in Officina America, a differenza di quello che era accaduto negli anni ’90 con l’affermarsi del post-concettuale, sono pervasi da un’esigenza di calore, di voler generare impatto emotivo nel pubblico, di giocare con lo stereotipo, la merce, l’artificiale, insomma tutto quell’immaginario che all’epoca (negli anni ’60) fu messo in circolo dalla Pop-Art. Ed è questo che appunto Barilli rileva analizzando la situazione Americana: un desiderio collettivo di concretezza, d’immediatezza, di proporre un’arte user-friendly. Le ultime generazioni hanno assimilato la logica dei mass-media e non hanno più bisogno di doverla dimostrare, a vantaggio di una libertà espressiva totale: e allora, senza alcuna distinzione si avvalgono di un pc o una videocamera e così come della fotografia ed infine persino e soprattutto della pittura (genere tanto ripudiato negli anni scorsi). Lontani dalle speculazioni su mezzi e linguaggi gli artisti hanno voglia di comunicare e piacere a tutti così come accade contemporaneamente nella musica: le fredde e cerebrali composizioni strumentali post-rock, che avevano fatto piazza pulita della forma canzone, cedono il passo ad un inaspettato rientro di nuove melodie, mentre la musica elettronica si riscalda ritrovando i piaceri di una ritmica più robusta, si perde in divagazioni ambient o s’immerge in tinte dal gusto pop. Arte visiva e musica, allora, parlano un linguaggio diverso, sintomo di una nuova sensibilità capillarmente diffusa. Proviamo allora a tuffarci in un breve parallelo tra la produzione visiva e musicale partendo da alcuni degli artisti presenti in mostra.
Partiamo per esempio dalla pittrice Amy Sillman. La sua è una pittura stilizzata, lo-fi, a bassa risoluzione, quasi al limite con il disegno, in grado però di divertire ed accattivare come le melodie “chitarrose” indie-rock degli ormai disciolti Pavement, dei Gran Daddy o dei Modest Mouse. O, per altro verso, gli interni, privi di presenze umane, di Cannon Hudson si presentano come una stesura di colore piatta e bidimensionale, caratterizzata da piccole imperfezioni, delle mancanze: potremmo chiamarle “stanze delle occasioni perse” parafrasando il titolo di uno splendido album Music for a sinking occasion, dei L’altra, giovane band di Chicago che fonde incantevoli e lunghe suite a testi dal sapore minimalista. Michael Bevilacqua, erede della Pop Art, semina, invece, le sue tele di icone tipiche della musica e della pubblicità: un viaggio attraverso la cultura dell’artificio, come quella cantata da Beck nel suo ultimo album Midnite Vultures, dove l’immaginario si anima, sprigionando una forte carica di appeal emotivo.
Per la fotografia la mostra presenta esempi splendidi. Gli scenari ritratti dall’artista americana Susan Graham nei suoi Landscape fotografici: piccoli oggetti di zucchero che abitano paesaggi stranianti, senza colore. E come colonna sonora cosa potremmo metterci? Le composizioni strumentali folk, le melodie malinconiche e i testi struggenti ed ironici di una band come i Black Hearth Procession: paesaggi sonori quasi in bianco e nero, sospesi e surreali, dove il dolce è stemperato nell’amaro. E le fotografie d’ambiente di Nicolas Baier? La certezza di avere a che fare con accoglienti interni domestici è alterata da interferenze e impulsi stranianti che spostano la nostra attenzione: proprio come i Pulseprogramming, formazione americana, che attuano all’interno di strutture jazz spostamenti ottenuti tramite sensuali suoni elettronici.

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Marco Altavilla

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