03 novembre 2006

exibinterviste – la giovane arte Matteo Montani

 
A caccia di altri alfabeti. Dai vapori di trielina allo studio di Alfredo Pirri. Dall’amore per Munch all’Attico di Fabio Sargentini. Ritratto dell’artista che lavora in campagna. Ma con le finestre ben chiuse...

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Che razza di artista sei?
Sono di quelli che cercano di allargare il cerchio dall’interno della tradizione. Ci sono ancora molti sentieri inesplorati. Hai presente “Ho visto cose che voi umani…”, il monologo finale dell’androide di Blade Runner?

Direi di sì. Che facciamo, la buttiamo sul messianico?
Naa… Più semplicemente, sono stati determinanti i vapori di trielina. Ero ancora in braccio a mio padre e giù la usavo per dei trasferimenti di immagini da riviste a colori. Poi intervenivo con matite e pennarelli. Ancora più importante, a dodici anni, l’antologica di Edvard Munch a Palazzo Braschi (1986). Ricordo che in quella occasione uscii di casa dopo tre mesi di degenza a seguito di una grave patologia polmonare.

Una folgorazione…
Puoi solo immaginarlo cosa abbia significato per me quella mostra! La scelta dell’arte la feci due o tre anni più tardi. Nell’intimità, leggendo il pavimento a lastroni di marmo anni ’70 della mia camera, così ricco di scritture e forme nascoste. Da allora qualcosa è rimasto così, nel senso che spesso è come se fossi ancora sotto quel letto a decifrare segni, a esultare di altri alfabeti.
Matteo Montani, FOSTER, olio su carta abrasiva su tela, cm 200x300, 2006
La tua formazione?
Tante mostre e musei, appunto. Fin da piccolo. È stata importante una stampa di El Greco che conservava mio nonno in una cartella piena di ritagli. In generale direi che ho sempre dipinto molto. Abbandonai anche il liceo classico, all’ultimo anno, per incompatibilità con la pittura. Poi la maturità improvvisata al liceo artistico (un successone!). Infine l’accademia a Urbino. Anni opachi, in realtà. Nel frattempo, a bottega da Alfredo Pirri dove mi ingrigivo le unghie assaporando il lavoro avidamente.

Altri artisti che hai amato, a parte Munch?
Tutti quelli che sono riusciti a fare una rivoluzione dall’interno. Tutti quelli che hanno saputo accordare gli strumenti con lo spirito del proprio tempo, mettendo in discussione tutto senza per questo rimuovere o distruggere.

E le persone? Chi conta davvero, a questo punto del tuo percorso?
Fabio Sargentini. Un incontro umano e professionale che ha portato nuova luce. Stiamo facendo entrambi una scommessa avvincente. E’ anche divertente lavorare con lui: se sei bravo ad acchiappare certi suoi flussi ci guadagna anche il lavoro.

E poi?
Valentina e Marilena Bonomo. Con loro ho avuto ed ho un bel rapporto, fatto anche di ascolto e dialogo: c’è rispetto per l’opera e per la persona, c’è il prendersi cura e una disponibilità affettiva senza secondi fini che ho molto apprezzato.
Matteo Montani, Particolare dal ciclo FOSTER, olio su carta abrasiva su tela, 2006
Un tuo pregio?
L’assenteismo ai cerimoniali. Se ne pagano ovviamente le conseguenze, ma se ne assaporano anche i benefici. Poi, la capacità di ripartire. Mi viene in mente una frase del mio amico Nicola Bragantini, anche lui pittore: “Il Montani è imbattibile, quando rialza la testa”.

Cosa è stato scritto su di te?
Ancora troppo poco. E molto genericamente. Col pubblico è sempre andata molto bene, specie ultimamente… I critici invece li trovo molto pigri: cercano formule, spesso si limitano al compitino.

Parlaci del tuo studio…
Saranno un centinaio di metri quadri. È in campagna. E ti dirò: da quando ho messo la velina bianca sui vetri lavoro meglio.

Vuoi dirmi che a distrarti è la tranquillità?
Proprio così: il paradosso è che la campagna è molto più dispersiva della città. È tutto sempre in movimento. Saranno le foglie, sarà l’orizzonte verde che oscilla… Per fortuna ho un buon apparato di luci artificiali. Cerco anche di mantenere un minimo di ordine. Anche se è bello raggiungere quel punto di non ritorno, arrivati al quale diventa bello stare due giorni a ramazzare. L’unico difetto del mio studio sono i soli tre metri di altezza. Ma Sargentini dice che porta fortuna: era alto tre metri –dice– anche il garage dove stavano i celebri cavalli…
Matteo Montani, Particolare dal ciclo FOSTER, olio su carta abrasiva su tela, 2006
La ami Roma?
Sì. Perché è generosa, nutre in continuazione: se ti fai una passeggiata e indugi su tutto, con lentezza, poi lavorerai certamente meglio, qualsiasi cosa tu faccia. Più passa il tempo e più ne sono sicuro. Quell’atmosfera te la porti dentro, ti basta averci camminato.

La mostra più bella che hai fatto?
La personale a Bari da Marilena Bonomo: ho avuto la possibilità di realizzare un’opera direttamente sul muro. Poi, la collettiva recente all’Attico (Pittori al muro). Perché era chiaro che quel quadro lì poteva dare la stoccata.

Un artista su cui sei pronto a scommettere?
Faccio il tifo per Giuseppe Capitano. Gli auguro una bella personale all’Attico in autunno. Così mi tira anche la volata!

exibinterviste – la giovane arte è un progetto a cura di pericle guaglianone

bio: Matteo Montani (1972) è nato a Roma, dove vive. Personali: Galleria Marilena Bonomo, Bari (2005); Studio Visconti, Milano; Valentina Bonomo arte contemporanea, Roma (2004); L. I. A. R. T., Roma (2003); ERGON, Università degli Studi Roma Tre, Roma (2002). Tra le collettive: Pittori al muro (Bragantini, Di Silvestre, Montani, Padroni, Picozza), L’Attico, Roma; Premio Mantero per l’arte giovane, Como (2006); Sotto la superficie…, Fabbrica del Vapore, Milano (2005); Match. Critici a confronto, Galleria F. Russo, Roma (2004).

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