12 ottobre 2004

L’ultima decostruzione

 
Di solito nei coccodrilli non si sta a guardare il capello. Il defunto deve essere compianto, ricordato per quel che di grande ed immortale ha fatto. Iscritto ad imperitura memoria per i suoi meriti. Certi di non offenderne la memoria, salutiamo invece il filosofo francese Jacques Derrida, scomparso venerdi 8 ottobre, con una serie di appunti. Ecco il nostro articolo contro, seguirà quello pro

di

Benché sia iperbolico definire Jacques Derrida “il più gran filosofo degli ultimi cinquant’anni” –epiteto che ricorre incessantemente nei tanti epitaffi e coccodrilli apparsi sui giornali in questi giorni-, non si può negare che il pensatore francese sia stato nell’ultimo mezzo secolo il più “popolare”.
A partire dal suo debutto americano, avvenuto alla John Hopkins University di Baltimora nel 1966, fino alla definitiva uscita di scena nella notte di venerdì 8 ottobre, Derrida è sempre stato acclamato e osannato come solitamente accade alle rockstar, sebbene (o forse proprio perché) comprendere il suo pensiero o le sue opinioni sia uno dei compiti più ardui per filosofi e non.
Paladino della destruktion heideggeriana, ovvero del desiderio del tedesco di “toccare la natura del linguaggio senza violarla”, Derrida ha infatti portato al limite estremo le invenzioni linguistiche del proprio padre spirituale (vedi Glas o Envois).
Fu anche per questo che nel 1992 un nutrito gruppo di filosofi tra cui il grande Willard Quine (seppellito, lui, nel silenzio più assoluto) protestò violentemente contro la decisione dell’Università di Cambridge di attribuire un dottorato honoris causa al francese, accusato di portare nel mondo accademico solamente “tricks and gimmicks similar to those of the Dadaists”. Se tale accusa potrebbe forse contribuire a rendercelo più simpatico, è pur vero però che dai dadaisti Derrida ha preso solo il peggio: l’astrusità degli obiettivi e la spettacolarizzazione della propria vita.
In questo senso Derrida è considerato per eccellenza il filosofo del postmoderno, non soltanto per gli esiti teorici del suo lavoro (primo tra tutti l’incommensurabilità del vero e delle sue diverse interpretazioni), ma anche per la nonchalance con cui ha interpretato il ruolo del “Filosofo” nel Grande Spettacolo del Mondo. In realtà, come Fredric Jameson aveva intuito dieci anni fa, Derrida fa parte piuttosto di quella schiera di filosofi che sembrano postmoderni, ma che in realtà sono gli ultimi grandi modernisti: in quest’ottica, egli rappresenterebbe il legittimo erede di Marcel Proust.

La relazione del filosofo con il territorio dell’estetica e dell’opera d’arte scorre parallela al suo lavoro decostruttivo operato sulla filosofia contemporanea: prima con La verità in pittura (1981), poi con Memorie di cieco (1990) e da ultimo con La connaissance des textes. Lecture d’un manuscrit illisible (2001), scritto con Simon Hantai e Jean-Luc Nancy.
Ma è con Spettri di Marx che la sua idea di un’estetica spettrale viene pienamente sviluppata. L’influenza di questo testo del 1993 – dal ripensamento fantasmatico delle grandi narrazioni al pensamento del fantasma come figura centrale della cultura contemporanea – non è stata ancora valutata a fondo. Probabilmente, perché il terreno che questo seme ha fecondato maggiormente non è tanto quello della filosofia, quanto quello del cinema (che poi vuol dire, “della riflessione filosofica messa sullo schermo”).
Il trattato di Derrida, oltre ad aver influenzato moltissimi film degli anni Novanta, ha persino avuto, all’inizio del nuovo secolo –in paurosa e sublime concomitanza con l’11 settembre– una trasposizione cinematografica ‘nascosta’ ma fedelissima: Ghosts of Mars di John Carpenter. A partire dal titolo infatti –ma non solo– il film di Carpenter dichiara la sua filiazione diretta dal pensiero anni Novanta di Derrida, e al tempo stesso ne esplicita la messa in pratica e lo sviluppo. In quella che va considerata l’opera seminale dell’epoca appena cominciata (seminale non solo per il cinema, ma per tutti i territori della produzione artistica), è la visione stessa a farsi fantasma. A uscire dal corpo, e al tempo stesso ad acquisire una nuova identità, completamente autonoma. Lo sguardo cinematografico si disumanizza, si sgancia dal personaggio-persona, per trasformarsi in un fantasma di personaggio. Anche per questo, nonostante tutto, Jacques Derrida ci mancherà.

mariangela priarolo e christian caliandro

[exibart]

5 Commenti

  1. Un esame, sia pure frettoloso, delle reazioni della stampa internazionale alla notizia della morte di Jacques Derrida, suggerisce qualche considerazione. Mi ha colpito, anzitutto, accanto all’approssimazione delle notizie sulla sua vita privata e la sua famiglia (effetto, credo, della grande discrezione con cui egli ha sempre protetto questa parte di sé) la presenza di non pochi articoli e commenti che vanno contro la tradizione e le caratteristiche di genere del necrologio giornalistico. Alla notizia della morte di un personaggio pubblico e noto (e in particolare di una morte crudele come quella del cancro al pancreas che ha aggredito Derrida), è buona abitudine reagire soffermandosi sulle caratteristiche positive dell’essere umano deceduto: di fronte alla morte risultiamo tutti abbastanza bravi e buoni. Non è stato così nel caso del filosofo francese: accanto a necrologi (soprattutto italiani, ma anche tedeschi e spagnoli, e ovviamente francesi) pieni di umana partecipazione, di ammirazione per le doti intellettuali, la straordinaria coerenza politica e morale del personaggio e il suo amore per la vita (così, in Italia, filosofi che gli sono stati vicini, come Maurizio Ferraris sul Sole 24 ore o Pier Aldo Rovatti su Repubblica, o seguaci e ammiratori competenti come coloro che ne hanno parlato su questo e anche su altri giornali) sono stati molti i giornali, soprattutto inglesi e americani, che hanno ritirato fuori, per l’occasione, gli aspetti controversi del personaggio, echeggiato gli attacchi mossigli da tante parti in vita e riesumato la storia delle «guerre» filosofiche da lui provocate. Molti hanno ricordato la battaglia scoppiata a Cambridge quando è stato proposto di conferirgli una laurea honoris causa, ma mentre la Süddeutsche Zeitung ha scritto che quattro professori di Cambridge si sono opposti alla decisione, accusandolo di «ciarlataneria», il Guardian ha parlato di 20 filosofi contrari, mentre il Los Angeles Times ha correttamente ricostruito l’episodio del 1992, citando le strenue obiezioni mosse rumorosamente da un gruppo di professori contro una filosofia giudicata «assurda», «perversa», «negatrice di qualsiasi importanza della scienza, della tecnologia e della medicina», ma ricordando anche che alla fine, costretti a un irrituale voto dell’intero corpo insegnante di Cambridge, i sostenitori prevalsero con 336 volti positivi contro 204.

    Pochi hanno ricordato alcuni dei momenti esistenzialmente e politicamente significativi della vita di Derrida: il fatto che nel 1940, quando aveva 10 anni, il governo collaborazionista francese in Algeria lo espulse dalla scuola in quanto ebreo e tolse alla sua famiglia sefardita, radicata in Algeria da cinque generazioni, la cittadinanza; o il fatto che nel 1982, quando si recò a Praga per sostenere la battaglia degli intellettuali dissidenti di Carta 77, trascorse alcuni giorni nelle prigioni ceche; o il fatto che si è sempre schierato a sinistra e nel 1995 ha fatto parte del comitato dei sostenitori di Lionel Jospin. In compenso i giornali hanno fatto non poca confusione, e alimentato qualche pettegolezzo, sulla sua vita privata: il rapporto con Sylvanie Agacinski, moglie attuale di Jospin e madre di un figlio di Derrida, definita «psicoanalista» da El Mundo, il matrimonio con la vera psicoanalista Marguerite Aaucouturier, sposata nel `57, da cui ha avuto due figli, Pierre e Jean, ecc. ecc.. E tutti si sono ampiamente gettati (nonostante che lui si sia a lungo rifiutato di lasciarsi fotografare e si sia tenuto il più lontano possibile dalla televisione) sui suoi molto decorativi capelli bianchi, sul suo viso mediterraneo, sui suoi vestiti sempre eleganti, sulla sua aspirazione giovanile a divenire un grande giocatore di calcio, con evidente allusione nostalgica («nostalgerica», avrebbe detto lui) a Zidane.

    Quello che colpisce è un’esplicita animosità e antipatia presente in alcuni dei giornali inglesi e americani. Il Sunday Times, per esempio, ha intitolato la notizia: «Un filosofo francese radical chic muore all’età di 74 anni», con una definizione che mi pare ingiusta, oltre che offensiva, e in stridente contrasto con quanto scrive Maurizio Ferraris sul Sole 24 ore: «Derrida ha realizzato il singolare paradosso di essere il più parigino dei filosofi ma anche il più cosmopolita, e insieme il più immune da qualsiasi atteggiamento radical chic, che poi significa semplicemente mancanza di analisi, semplicismo, dogmatismo». Il New York Times ha intitolato il necrologio firmato dal giornalista Jonathan Kandell «Jacques Derida, teorico astruso [Abstruse Theorist], muore a 74 anni», che è definizione altrettanto dura e offensiva. Viene da domandarsi? A cosa si deve tanta animosità, che quasi confina con il livore? È forse un segno della tradizionale contrapposizione tra analisti del linguaggio anglosassoni e philosophes francesi o continentali (già avvertita a suo tempo quando scomparvero Foucault o Paul De Man)? C’è addirittura da sospettare un effetto dell’ondata di odio anti-intellettualistico e anti-francese che è montata negli Usa al tempo della decisione di Bush di gettarsi nell’avventura irachena, contro il parere dell’Europa?

    Qualche spia si può cogliere dall’articolo del New York Times. Per due volte Kandell allude all’«enorme seguito» che Derrida ha avuto nel suo paese (anzi, paradossalmente, più nel suo paese che in Europa). È questo che sembra dargli particolarmente sui nervi. Egli parla delle basi «ingannevoli» e «infide» (slippery) di altre filosofie arrivate dalla Francia e divenute di moda negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Parla del linguaggio oscuro (murky) usato nei suoi libri da Derrida. E riprende la tesi, che ha molto circolato fra i critici tradizionalisti e conservatori di destra, del potenziale di corruzione che si nasconde in quei libri oscuri e allude ai tanti giovani critici ambiziosi che usarono il decostruzionismo come trampolino di lancio per ottenere posti di ruolo in dipartimenti in cui sopravvivevano professori anziani, bolsi e sfiancati dalla routine.

    Nella frase con cui conclude il necrologio si coglie un misto di ammirazione e di irritazione, oltre che di presa di posizione politica: «Per molti studenti il decostruzionismo [di Derrida] è stato un rito di passaggio per entrare nel mondo dell’intellettualità ribelle».

  2. Quando gli Architetti vogliono teorizzare le loro riflessioni
    prendono in prestito ai filosofi :
    La condizione POSTMODERNE a JEAN FRANÇOIS LYOTARD
    e la DECONSTRUCTION a JACQUES DERRIDA !
    Omaggio a quest’ultimo che ci ha appena lasciati!

  3. Complimenti bell’articolo: essenziale ma autorevole ed anche i commenti sono molto interessanti e chiarificatori.

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