10 marzo 2006

arteatro_focuson Teatrino Clandestino

 
Due diverse tappe, un anno di lavoro, un esperimento scientifico prende vita sulla scena. Il Teatrino Clandestino a confronto con le ricerche di Stanley Milgram sull'autorità. In trappola attori e pubblico...

di

Molti anni fa, in un saggio famoso, Giovanni Macchia evocò, per Pirandello, l’immagine della “stanza della tortura”. Quella metafora divenne repertorio comune, moneta vile ma sempre in corso, e infinite volte, specie con le tante rifrazioni artaudiane e beckettiane che hanno abitato il secondo Novecento, è stata spesa come fosse di nuovo conio. Crudele o povero, terzista o iconoclasta, il teatro ha così di frequente inciso i suoi ideogrammi di senso sul corpo, quando la parola era ormai considerata inabitabile o inesprimibile, che della tortura, inflitta o subita, prassi o allegoria, dovremmo averne disgusto e noia. Eppure, dinanzi all’ultimo lavoro del Teatrino Clandestino, quel Progetto Milgram che prima si è manifestato nella forma intermedia de Il fantasma dentro la macchina, e poi, compiuto, come L’alba di un torturatore, è necessario ritornarvi, e per due ottimi motivi.
Il primo è che qui la stanza della tortura c’è per davvero, squadernata davanti agli occhi dello spettatore nella gelida forma di un container dagli interni imbottiti, altare sacrificale lindo dal sangue e circondato di una panoplia di macchinari luminosi e ticchettanti, altrettante forme totemiche per una modernità non domata né incivilita da bytes e chip. Funziona, la stanza della tortura, non si limita affatto ad alludere. Un uomo vi viene sottoposto a un interrogatorio, e la sola verità che dalla sua sofferenza si evince non è altro che una verità sul suppliziante. Un altro uomo, il quale pur di obbedire si fa carnefice, boia, e pur di assolversi rimane cieco fino alla fine, cieco su come la vera inchiesta riguardi proprio lui.
Il secondo motivo è che quella stanza ci parla di qualcosa di realmente avvenuto. Tuttavia la macchina teatrale assemblata da Pietro Babina non si limita ai fatti. Troppo poco sarebbe ricostruire la genesi e il senso degli esperimenti di Stanley Milgram, lo psicologo sociale americano che nei primi anni Sessanta dimostrò –mentre il mondo cercava invano nei tratti ordinari di Adolf Eichmann una comoda spiegazione lombrosiana al male assoluto del nazismo– come, dinanzi all’autorità (qualsiasi autorità, medico-scientifica, burocratica o militare), una percentuale impressionante di persone fosse pronta a deresponsabilizzarsi completamente.
Teatrino Clandestino
Il sessantatre per cento dei soggetti, gente comunissima, eseguì ordini disumani senz’altro motivo che la mera obbedienza ad un comando.
Parlare di Milgram, è ancora poco. Quel che è realmente accaduto, invece, è che il Teatrino Clandestino ha intervistato il massimo esperto italiano delle ricerche di Milgram, il professor Adriano Zamperini, e quell’intervista, letteralmente riportata, è divenuta il testo de Il fantasma dentro la macchina. Se in Si prega di non discutere di Casa di Bambola il lavoro sul dialogo era fondamentale e totalizzante, qui siamo a uno stadio successivo. La fase spettacolare viene liquidata, la recitazione elisa, la gestualità azzerata, e dal dialogo si approda all’intervista, con Fiorenza Menni nel ruolo dell’intervistatrice. Evidenti ripercussioni dell’indagine avanzata in Madre e assassina sulla lingua dei massmedia.
Così, in quest’opera senza un classico di riferimento, senza Prosperi, Otelli né Amleti, senza Omero né Ibsen, senza nemmeno quella Medea volgarizzata, da “Porta a Porta”, che sorreggeva proprio Madre e assassina, l’impatto della messa in scena con la realtà/reality diventa un punto di non ritorno, interrogazione bruciante. Da una parte due attori a replicare l’esperimento di Milgram, domande e risposte da cui derivano dolore e morte, dall’altro l’intervistatrice e il professore, anch’essi colti in un dialogismo serrato, si rispecchiano l’un l’altro, si spiegano e si con-fondono, disturbandosi come rumore mentre obbligano a una percezione sdoppiata, strabica, bifronte. Si rinnova la poetica fantasmatica cara a Babina, il suo avvicinare e allontanare a un tempo l’oggetto della messa in scena sì da renderlo evanescente, problematico anziché banale nella sua cosalità. Il metateatro, fin dall’archetipo stratagemma del principe di Danimarca, serve a inchiodare un colpevole, non a condurre verso la vertigine intellettualistica delle scatole cinesi. Qui abbiamo, allo stesso modo, una provocazione diretta. Solo che l’usurpatore del trono siamo noi. È a noi, alla nostra connivenza con il male, che l’opera fa la punta.
44493
Raccontare un esperimento scientifico con linguaggio scientifico, e farne teatro, ossia un evento non risolutivo né risolto, era una scommessa ardimentosa. Nell’una e nell’altra versione del Progetto Milgram, nuda ed essenziale la prima, complessa e ambigua la seconda, seppur penalizzata da un eccesso di cornici, rimane la lucidità con la quale il Clandestino non ha eluso la questione di fondo: perché è così facile, e così seducente, fare del male? La risposta di Milgram è esplicita, ma solo il teatro, forse, poteva esprimerla senza accenti moralisti. È facile perché è facile mentire. È facile incasellarsi in ruoli e gerarchie a una dimensione. Lo spettacolo sdoppiato offerto dal Teatrino impone una contaminazione di due possibili che teniamo per prudenza e viltà divaricati: da un lato il pathos, la commozione, dall’altro l’analisi, la comprensione. A sinistra l’esperimento, nel suo orrore, a destra la didascalia in tempo reale, la disamina. Lo sguardo in un senso si presuppone tutto simpatetico, nell’altro tutto distanziante. Ma la vera scommessa è farli funzionare insieme, spietatamente. E allora si comprende che la finzione, quella teatrale, attinge a una più alta verità, a un disvelamento provvidenziale, in tempi come questi, in cui la menzogna e la violenza del potere sono spacciate non più per via di persuasione occulta ma per forza di slogan e di dogma.

link correlati
www.viefestivalmodena.com
www.teatridivita.it
www.teatrinoclandestino.org 

luigi weber
L’alba di un torturatore visto a Modena, Ex Manifattura Tabacchi, VIE. Scena Contemporanea Festival, 28 ottobre 2005
il fantasma dentro la macchina visto a Bologna, Teatri di Vita, 12 novembre 2005

bio:Teatrino Clandestino nasce a Bologna nell’ex Centro Sociale Occupato Fioravanti. Attualmente con sede a Bologna, è composta da Pietro Babina, regista, drammaturgo, ideatore e costruttore delle scenografie oltre che ideatore audio, Fiorenza Menni, attrice, ideatrice dei costumi, assistente alla regia e allenatrice. La vocazione principale del Teatrino Clandestino è una vocazione formalista. Ciò che spinge la compagnia verso nuovi lavori è l’inesausta necessità di indagare il linguaggio del teatro, di comprenderne le necessità, le possibilità di svilupparsi, di cambiarsi e di far cambiare il contesto contemporaneo. Non per questo ritiene l’aspetto contenutistico dell’opera qualcosa di cui non occuparsi, al contrario la sua indagine formale è tesa nel far si che i contenuti trovino il loro linguaggio che di tempo in tempo, di tipo in tipo, ha necessità diverse. Questa ricerca non sottostà a un desiderio di originalità, bensì alla sensibilità e alla percezione che il linguaggio artistico necessiti di mutamenti continui. Per fare questo il gruppo ha sviluppato un’attenzione al contemporaneo che lo porta non a rappresentarlo, ma a comprenderne le mutazioni di linguaggio all’interno del contesto disciplinare del teatro.

[exibart]

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui