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independents
Dipingere “nel” paesaggio italiano: un atto di resistenza dalle idee dell’eccesso di Angelo Bellobono
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icone allo specchio #12
di Roberto Ago
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danza
Alla Scala di Milano il coreografo Angelin Preljocaj evoca, sulla musica di Schubert, il percorso di un viaggiatore verso la fine di Giuseppe Distefano
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reading room
La radicalità dell’avanguardia di Ernesto Jannini
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iperteatro
Il CollettivO CineticO di Francesca Pennini. Tra coinvolgimento del pubblico e rigore. di Giulia Alonzo
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| fino all'8.VIII.2010 Berlin Biennale 2010 Berlin, sedi varie | | | |
| Quanto conta la realtà nella nostra vita? Che senso ha parlare di fatti e cose vere quando tutti sanno che le bugie e l’intrattenimento sono il pane quotidiano con cui vengono alimentati gli individui? Questi gli interrogativi che pone criticamente la Biennale di Berlino. Le risposte, però, sono a senso unico... | | daniele capra | |
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pubblicato venerdì 30 luglio 2010
È un tema complesso e
intellettualmente seducente quello pensato da Kathrin Rhomberg per la sesta
edizione della Biennale di Berlino. Un argomento che può essere posto
essenzialmente in forma interrogativa, date le smisurate difficoltà a
rispondere univocamente: qual è il valore della realtà, di tutto ciò che
onestamente può essere considerato vero? È soprattutto, come scrive nel suo
saggio in catalogo, un’analisi mirata a chiederci " perché l’autoinganno
abbia smesso di essere considerato esclusivamente come un fenomeno di
psicopatologia individuale e sia diventato invece - nella nostra corsa
frenetica cui ci induce la nostra società basata su modalità competitive - un
prerequisito accettato, giustificato e tollerato dai più tanto per la
sopravvivenza quanto per il perseguimento del successo”.
Giustamente, come osserva
Rhomberg, " non esiste un criterio uniforme che ci permetta di orientarci in
questo mondo che sembra dicotomico” (in realtà le due componenti più spesso di quanto si
pensi si mescolano) senza aver sviluppato reti di conoscenza che ci permettono
di decifrare le informazioni, di leggere gli eventi. Conviene quindi basarsi
sulla molteplicità, sul prefisso ‘multi’ che evidenzia i gradi di complessità
della nostra società, data la nostra sostanziale inettitudine a riconoscere a
prima vista e a percepire i confini tra reale, fiction e bugia.  Dispiace però
che le risposte messe in essere nelle mostre berlinesi siano invece troppo
orientate al realismo politically correct da occidentali che si mettono gli occhiali per
riflettere sui propri drammi, senza proporre - oltre alla critica
socio-politica - altre forme e dinamiche di smascheramento. L’effetto è così quello
che le opere sono accessorie e servono a descrivere e a fare analisi più che a
proporre e a veicolare pensieri, utopie e quant’altro. Sono cioè diventate
simili a sistemi che producono solo informazione.
Non è un caso che le opere più
interessanti siano quelle in cui lo spettatore partecipa, senza essere oggetto finale di
un sistema (pur legittimo) di controinformazione. È il caso dell’installazione
monumentale di Petrit Halilaj che occupa la sala centrale dei KW, una sorta di palazzo
in legno abitato da polli. Chi guarda vede e può interagire con gli animali da
cortile e avvertire la puzza dei loro escrementi. I polli esistono, mentre la
pur encomiabile installazione di Mark Boulos - che proietta su due video alle
estremità della stanza un reportage sui guerriglieri del delta del Niger
contrapposto alla borsa delle materie prime - finisce per dire allo spettatore
proprio quello che catarticamente si aspetta di vedere per lavarsi la
coscienza.
È un errore in cui non cade Marxism
Today di Phil
Colllins
(commissionato proprio dalla Biennale), lunga intervista a varie donne che
hanno vissuto il Muro e la propaganda, benché l’esito sia abbastanza scontato:
stavamo meglio quando stavamo peggio. Nella troppo lunga sequenza di video (per
la sola sede di Kreuzberg ci vogliono cinque ore!) i lavori più interessanti
sono però quelli performativi, antididascalici, come il caso dell’israeliano Avi
Mograbi, che
chiede ai soldati la ragione dei loro comportamenti antipalestinesi, o Ferhat
Özgür, che mostra
due donne turche che decidono di scambiarsi gli abiti, o ancora Sebastian
Stumpf, che si
intrufola nei garage che si stanno chiudendo come un novello Arsenio Lupin.

Se si esclude la bella
installazione multitappeto di Hans Schabus e i lavori video di Armando Lulaj, tutto il resto è davvero noia
ammantata da una continuata e spiacevole mancanza di oggettualità, con
un’estetica uniforme e una visione troppo engagé. Manca proprio uno dei valore più
eversivi che l’arte e le opere possono fornire come riscontro della realtà,
contro l’essere solo destinatario finale di contenuti: l’esperienza
individuale.
articoli correlati
Una
riflessione sulla scorsa Biennale di Berlino e del Withney
daniele capra
mostre visitata il 22-23 luglio
2010
dall’undici giugno all’otto
agosto 2010
VI Berlin Biennale
for Contemporary Art - What Is Waiting Out There
a cura di Kathring Rhomberg
Sedi
varie - Berlino
Orario: da martedì a domenica
ore 10-19; giovedì ore 11-22
Ingresso: intero € 14; ridotto
€ 7
Catalogo DuMont Buchverlag
Info: tel. +49 302434590; fax +49 3024345999; office@berlinbiennale.de; www.berlinbiennale.de
[exibart]
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