20 ottobre 2010

QUANDO LA MODELLA È STATUARIA

 
Controversa, celeberrima, fra le (poche) artiste italiane note e rinomate nel mondo. È Vanessa Beecroft. L’abbiamo incontrata nel giorno della “sua” performance alla Biennale di Carrara...

di

Iniziamo dal presente: quali sono i tuoi progetti?

Per il futuro sto lavorando a un’importante opera che si
concretizzerà nel corso del 2011, a New York. Invece l’ultima performance
realizzata, VB66,
si è svolta al mercato ittico di Napoli: la ritengo importante perché, oltre ai
corpi di un gruppo di ragazze interamente dipinte di nero, ho utilizzato per la
terza volta dei frammenti di gesso, con riferimento sia a un’idea di disagio
connaturata al corpo femminile che ai ritrovamenti archeologici di Pompei.

Sembrerebbe un prologo al tuo intervento per la
Biennale di Scultura di Carrara…

In effetti è così. Soltanto che, per ovvie ragioni, a
Carrara ho scelto di utilizzare il marmo.

Non percepisci come un’opposizione, di tipo materiale o
temporale, il rapporto tra la carne dei corpi e la pietra delle sculture?

Fino ad ora sì. Sono sempre ricorsa al corpo perché
ritengo che ogni persona sia, di per sé, nell’intimità come nell’apparenza,
carica di elementi sociali e politici. La scultura invece si lega
inevitabilmente a un senso “tombale”. Eppure, aldilà di questo rapporto tra
vita e morte, l’esperienza carrarese mi ha molto divertito.

Quanta influenza hanno i luoghi sulla tua opera? Penso
a Cavallucci e alla sua scelta di utilizzare location cittadine ormai
dimenticate, in totale disuso…

Il luogo è essenziale, basti pensare che le mie
performance sono sempre site specific. Carrara non è stata un’eccezione, anzi.
Solo in un posto “sacro” diventa possibile lavorare la pietra con tale
attenzione: ricordo che durante la mia prima visita fui colpita dalla dedizione
degli operai nel seguire le indicazioni di McCarthy per la realizzazione del
grande escremento in travertino.

Quali sviluppi ha avuto la forma artistica della
performance, in questi ultimi anni?

Devo ammettere di non riuscire a guardare e valutare
l’arte in modo “storico”. Ciò che posso dire è che, rispetto agli scorsi
decenni, la performance viene ora accettata con maggiore serenità. Durante le
mie prime esperienze ero costretta a reificare tutto con foto e video; adesso
ho la libertà di sviluppare e realizzare opere effimere, di cui potrebbe anche
non restare traccia.

Ultimamente come scegli le modelle?

Generalmente cerco corpi che siano simili tra loro. Poi è
importante che ognuno di essi abbia una nota particolare, un quid che rimandi, per somiglianza,
alla mia storia e all’arte classica.

Arte classica. Che cosa ha a che fare con la moda?

Io sono cresciuta in un contesto culturale che valutava la
moda come un’arte minore, una forma espressiva da prendere in scarsa
considerazione. Rifarmi ad essa è stata una piccola ribellione contro quel
giudizio.

Quindi si tratta di una personale rivalutazione?

Sì, ma non in primo grado. Innanzitutto la moda è per me
uno strumento visivo, come potrebbe esserlo qualsiasi altra materia. Per questo
l’esito che spesso ottengo è di tipo decostruzionista.

Qual è il tuo modo di lavorare? Hai molti
collaboratori?

Non ci crederai, ma non ho neanche un vero studio! Il mio
spazio di lavoro è fatto dalla testa e da un MacBook. Ho un paio di collaboratori
che mi aiutano a rispondere al telefono, soltanto perché, se fosse per me, non
alzerei mai la cornetta…

E le tue idee sono improvvise, o sei riflessiva?

Potrei definirmi una fatalista, dato che sono in perenne
attesa del destino. Aspetto le richieste di un committente, e solo a quel punto
mi metto al lavoro. La cosa particolare è che, almeno fino ad ora, ho sempre
cercato risultati che fossero contrari o almeno deludenti rispetto alla
richiesta iniziale. Perché? Per realizzare, forse con un eccesso di idealismo,
quanto definiamo “l’arte per l’arte”. Proprio in questo periodo inizio a
convincermi della necessità di cambiare linea, cioè di interrogarmi
maggiormente sulle aspettative del pubblico.

Che differenze trovi nel lavorare in Italia e
all’estero?

L’Italia è molto importante per il riferimento continuo
alla cultura classica. Per esempio la performance VB66 è stata pienamente compresa a
Napoli e nel resto della penisola, ma non fuori d’Europa. Ciò avviene per una
dinamica tipicamente americana, e che per me risulta allo stesso modo
essenziale: negli States l’arte, prima che concetto, diventa elemento sociale.
Una donna nuda non è solo un’idea, ma un riferimento preciso alla condizione
femminile.

A questo proposito raccolgo una delle critiche che ti vengono
mosse più di frequente: le tue donne sono oggetti?

È il contrario, uso i corpi per rendere un modello forte
di personalità e bellezza femminili. Il mio linguaggio si sviluppa su una linea
di confine e per questo potrebbe apparire ambiguo, mentre in realtà è
determinato: l’uso di alcuni elementi mira a criticare la retorica femminista
più ottusa. Il ricorso a espressioni forti ha il fine, pur con mio rammarico,
di generare una reazione emotiva nei contesti che non approvo.

Quali sono gli artisti contemporanei a cui ti senti più
vicina?

Anche se mi rendo conto che è un errore, non guardo in
maniera precisa quello che mi avviene intorno. Posso dire che a livello
complessivo noto dei fattori positivi, mi pare che gli artisti stiano
abbandonando l’atteggiamento celebrale del recente passato per riavvicinarsi
alle grandi avanguardie, soprattutto alle tecniche e alla manualità ad esse
collegate.

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a cura di matteo innocenti

[exibart]

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