22 dicembre 2014

L’intervista/Adriana Rispoli e Flavio Favelli

 
Tu chiamale se vuoi figurine
Da oggi ad Ostiense c’è una nuova squadra. Composta da campioni di Roma e Lazio, appesi al muro

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Metti insieme una facciata ex industriale, un progetto di Arte Pubblica giovanissimo (SKIN TaSTE, curato da Adriana Rispoli) e Flavio Favelli. Cosa nasce? Si chiama “Campioni”, e fino a marzo vi farà compagnia all’Ostiense, a PortoFluviale. A qualcuno ricorderà la propria infanzia, ad altri l’antagonismo e il tifo sportivo, mentre ci si potranno vedere anche i cambiamenti della moda, e forse degli stipendi. Ci avete capito poco? Allora lasciamo la parola ad artista e curatrice, per raccontarci questo muro, di 150 metri quadrati, composto da una serie di figurine giganti. 

SKIN TaSTE. Come nasce il progetto? 
Adriana Rispoli: «SKIN TaSTE è un progetto annuale, oggi alla sua seconda edizione dopo Fusion Color di Mariangela Levita. Come molti dei miei recenti progetti curatoriali esce dal “white cube” e si integra nel territorio nell’ottica di un’arte diffusa. Questo progetto è nato ad hoc per un locale di nuova generazione quale PortoFluviale che espande i suoi interessi ben al di là di quelli gastronomici. La localizzazione in una zona in forte espansione anche creativa come l’Ostiense a Roma e soprattutto la conformazione architettonica dell’edificio – un’archeologia industriale degli anni ‘50 – hanno suggerito il format. Da una parte la necessità di un progetto low budget e allo stesso tempo di grosso impatto, e dall’altra la presenza di sei lacunari nella lunga facciata longitudinale hanno ispirato la commissione di lavori “effimeri”, come billboard stradali. Un’opera la cui visualizzazione mira a coinvolgere sia gli abitanti del quartiere che i frequentatori passeggeri, invitandoli a confrontarsi con un messaggio artistico e non pubblicitario, sebbene della pubblicità ne mutui la strategia. La riqualificazione estetica dell’area metropolitana e la volontà di fondare un nuovo incubatore di creatività in cui gli artisti sono invitati a reinterpretare la pelle del PortoFluviale sono gli obbiettivi di SKIN TaSTE». 

C’è un aspetto tecnico, se così possiamo definirlo, da non sottovalutare: utilizzare un muro sotto la tutela della Soprintendenza ai Beni Culturali non dev’essere impresa facile. Quali sono le difficoltà, e quanto tempo si impiega per mandare in porto un’installazione?
A.R. «Da conservatrice prima ancora che curatrice, ritengo che le Soprintendenze in generale svolgano un servizio giusto e doveroso. Certo, soprattutto in una città come Roma, spesso la burocrazia, e principalmente i suoi tempi, rischiano di rallentare troppo i progetti e a volte proprio di affondarli. In questo caso i nostri rapporti con la Soprintendenza Capitolina sono stati fino ad ora positivi, nel senso che abbiamo ottenuto le autorizzazioni necessarie in tempi relativamente brevi, anche se è proprio la compilazione e la presentazione delle pratiche l’aspetto più difficile, a cui aggiungerei, clausola fondamentale, il potere di giudizio in merito all’opera stessa». 

Chi sono i finanziatori del progetto, e su quale cifra si aggira?
A.R. «SKIN TaSTE è un progetto in sinergia tra PortoFluviale, Incontri Internazionali d’Arte e soprattutto Banca Generali | Private Banking. Lo sponsor che ci ha affiancato fin dalla prima edizione e speriamo continuerà a farlo, ha investito nel potenziale creativo e comunicativo di questo progetto d’arte soprattutto per il target giovanile a cui si rivolge. SKIN TaSTE, come dicevo prima, è un progetto low budget, e lo dimostra la tecnica stessa utilizzata nella realizzazione dell’opera, ma non per questo rinuncia a nessun aspetto fondamentale di una vera e propria mostra. La sponsorizzazione dunque è di piccola entità rispetto ad altri eventi culturali, ma per noi più che soddisfacente. In generale ritengo che investire nella cultura anche con piccoli budget dia un ritorno d’immagine, anche etico, di gran lunga superiore all’investimento finanziario».
 
Vedere le figurine di vecchi calciatori ormai “persi” nella notte dei tempi tra le antiche formazioni della Roma e della Lazio non solo ha un aspetto romantico e contraditorio, per il loro essere passati da una maglia all’altra, ma rapportati alla Roma degli scandali di oggi assumono quasi un aspetto nostalgico: di un passato e di una sana “concorrenza leale” che non c’è più, nel mondo del calcio come nella politica.
Flavio Favelli: «Passo sempre per quello che ama un recente passato, ma certo non lo idealizzo. Nel 1980 ci fu un grande scandalo, il Totonero e un’immagine fortissima: le 128 Fiat della polizia la domenica entrarono in campo a fine partita per arrestare i calciatori. Lo cerco di chiarire sempre: più che una generale nostalgia delle immagini del passato, ripropongo delle immagini legate alla mia esperienza che hanno a che fare con la mia psiche: sono investite da un potere ambiguo che mi seduce e produce in me altre immagini che ripropongono dei momenti reali e dei ricordi passati. Una specie di metastoria capace di occuparmi quotidianamente. Racconto e riscrivo quello che ho vissuto, per riviverlo meglio, più a fondo, più in profondità, ma questo crea nuove possibilità visive che si fondono con le originali. È come se fossi un portatore di una tradizione di icone (anziché orale) che arricchisco sempre di più, ma inevitabilmente il corpus più che cambiare si fonde con altro, si lega a immagini nuove e mediate: un poema infinito dove si impastano ricordi precisi e visioni inedite. Ma scavando di più direi che sono due pratiche: il cercare di emulare e seguire gli insegnamenti e i comportamenti della mia famiglia e il cercare di oppormi agli insegnamenti e ai comportamenti della stessa. In mezzo ci sta una storia, credo, emblematica, in un’Italia fra gli anni ‘60 e ‘90 che credo sia stato il Paese al centro del pianeta. Se fossi vissuto lo stesso periodo in Polonia o in Brasile, molto probabilmente non sarei diventato un artista, perché senza i segni profondi, variegati e contraddittori del mio Paese, la mia arte non si sarebbe manifestata. Nascere a Firenze, andare a messa a San Lorenzo e avere dei genitori che usano l’arte e la letteratura per dirsi che si odiano, beh tutto ciò è un assoluto capolavoro, se si riesce a sopravvivere. Dicevamo delle figurine, vero?»

Sì, come è venuta l’idea, stavolta, delle figurine? 
F.F. «Le associo a lunghi momenti di solitudine del mio passato. Collezionare da bambino vuole dire sentirsi meno solo: le immagini si animano e diventano vive. Credo nella forza degli oggetti, che sono gli oggetti degli antenati, irripetibili e non replicabili. Le figurine, soprattutto della Panini, una delle tante cose che l’Italia ha inventato, sono dei santini immortali. Da Sandokan a Beppe Savoldi. Credo che se il mondo islamico avesse avuto le figurine, non sarebbe ora in queste condizioni; se censuri l’immagine, poi tutto batte in testa. Queste figurine vanno dal 1967, da quando sono nato, al 2010 e formano una squadra immaginaria di 11 giocatori. Le maglie cambiano e anche le facce, i tagli dei capelli seguono le mode: la Roma ha i colori giallo-rossi, però il rosso è un arancio scuro. Dicevo dei santini perché tutti abbiamo le nostre Icone. E poi le immagini delle persone hanno una forza decisiva perché chi le possiede alla fine crede in qualche modo di possedere i poteri degli eroi, siano calciatori, santi o morti per la Patria. A Bologna di fronte alla fontana del Nettuno, che ha la fiocina-tridente, che poi è il simbolo della Maserati, c’è un grande vetro, il Sacrario che espone tutti i morti partigiani, più di duemila figurine, in bianco e nero, che li ricordano. A differenza dei partigiani e dei santini, i calciatori cambiano maglia. Per me era strano vedere Beppe Savoldi con il Bologna e poi col Napoli. Strano, si cambiano amanti e amori, piatti di cucina e cibi, partiti politici e ideali, religioni e dei, anche le idee sui genitori, ma mai la squadra di calcio che è composta da calciatori che cambiano sempre maglia. Non mi sono mai sentito a mio agio quando ho giocato a calcio, quando ho conosciuto dei calciatori, quando sono stato a 18 anni arbitro, eppure amo il calcio che ha una parte fortissima nel mio pantheon visivo. La prima volta che mi sono accorto in modo reale dell’Africa, come Paese, come luogo abitato, come parte del mondo è stato nel ‘74 perché avevo le figurine dei calciatori dello Zaire del Mondiale di Germania».

Che rapporto hai con il concetto di Arte Pubblica? C’è un’opera, un’installazione, un progetto di un altro artista a cui hai guardato per “Campioni”?
F.F. «L’arte è sempre pubblica e sempre privata; se si fa differenza, vuole dire che c’è un pensiero ideologico che vuole premiare un’arte con uno scopo e un fine, e che nutre sospetti verso l’opera che non prende in relazione l’altro, il contesto, la società o l’asilo di turno. A me l’Arte Pubblica non è mai piaciuta. Sono sincero, quando ho un progetto guardo solo alle mie immagini, non ho artisti di riferimento. Non lo dico per autarchia o snobismo, è che se metto insieme una squadra immaginaria che prende un periodo di 40 anni, quasi tutta la mia vita, mi basta. I calciatori sono come i militari, sono dei guerrieri che abitano il loro mondo, chiuso, stretto, banale, ma deve essere così perché in meno di vent’anni si giocano tutto. Si sacrificano per noi. Molti, una volta in congedo, come i soldati che tornano dalla guerra, non si riprendono più. Tutti ce l’hanno coi loro stipendi, ma non sono imposti, è il libero mercato e il mercato è un dio e loro sono i dei guerrieri dell’Onnipotente». 

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