20 giugno 2016

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La cultura visuale non è molto frequentata in Italia. Un recente volume accende il dibattito
di Serena Carbone

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È uscito recentemente Cultura Visuale. Immagini sguardi media dispositivi di Andrea Pinotti e Antonio Somaini (Einaudi 2016), il volume può essere considerato il primo manuale completo e agevole di Cultura Visuale pubblicato in Italia. Mentre altrove (penso ai visual culture studies in aria anglofona o alla Bildwissenschaft tedesca) il dibattito infuoca da un bel po’, nel Belpaese, arroccato alla solida tradizione di memoria vasariana, fa un po’ fatica a prender piede, soprattutto al di fuori delle aule universitarie per incontrare quei territori che producono, frequentano e vivono quotidianamente l’arte. E di quest’analisi esauriente di un panorama lungo un secolo (dalle origini del concetto di culturale visuale al “profluvio narcisistico di autorappresentazioni condivise”, ovvero la pratica dei selfies) ne diamo il merito agli autori che da anni esplorano il campo dell’immagine da un punto di vista differente rispetto a quello che siamo abituati a recepire come storico-artistico. 
Iniziamo a fare un po’ di chiarezza sulla terminologia e il campo di studio della cultura visuale, in particolar modo in riferimento alla storia dell’arte. Negli studi visuali al centro dell’analisi è l’immagine, senza distinzione tra artistica o meno, e la visione, intesa come storicamente orientata ovvero connessa alla “storicità delle tecnologie ottiche che definiscono le coordinate del visibile, dei dispositivi che inquadrano il nostro rapporto con le immagini e promuovono determinate abitudini visive piuttosto che altre, così come delle dinamiche culturali e sociali che accompagnano l’atto di guardare e di essere guardati”. Cosa si intende per tecnologie ottiche e dinamiche che accompagno la visione? Si intendono tutti quei fattori da cui dipende la visibilità di un’immagine, ovvero gli elementi che fanno sì che l’image diventi picture, dunque supporti, media e dispositivi. Senza cadere nella complessità del dibattito su questi termini (di cui la bibliografia fa ampio riferimento), potremmo dire che in sostanza per supporto possono essere intesi la tela, la parete, la carta, ma anche lo schermo di un monitor o di una sala cinematografica; per medium sia l’insieme dei supporti che delle tecniche esercitate su tali supporti (i pigmenti di colore o il dripping per medium della pittura, la lastra di rame piuttosto che la celluloide per il medium della fotografia, pellicola o schermi per il medium cinema), sia l’ambiente/atmosfera in cui avviene la percezione; per dispositivo, infine, “tutto ciò che concorre a disporre nello spazio l’immagine stessa ed ad organizzare il suo rapporto con lo spettatore configurandone lo sguardo”, considerando le forme di articolazione del visibile come pratiche di soggettivazione e de-soggettivazione dell’individuo (per Foucault il Panopticon di Bentham era un esempio di dispositivo, nell’arte potremmo considerare dispositivo una sala e il modo in cui sono disposte le opere e l’insieme di apparati che ne permettono la visualizzazione, come monitor, schermi, pannelli). 
La copertina del libro
Nonostante il libro si faccia leggere e sia nutrito di molti esempi che esplicano questi concetti, qui ci limiteremmo a citarne due, Michael Baxandall e Rosalind Krauss, anche per comprendere quali siano le convergenze e le divergenze con la storia e la critica d’arte. Quando Baxandall negli anni Ottanta utilizza il concetto di cultura visuale intende significare la correlazione tra lo stile pittorico del Quattrocento italiano con le capacità visive che si sviluppano e si consolidano nella vita quotidiana di quella determinata epoca; pertanto un’immagine nata come sacra e vernacolare, solo oggi – fuori dalla casa e dalla chiesa ma dentro il museo – ha acquisito lo statuto di opera d’arte, condizione che ne ha cambiato radicalmente il tipo di visione. Ma passiamo allo spinoso confronto con la critica militante del postmoderno americano, Rosalind Krauss, spesso annoverata tra l’altro nei libri di visuals studies. Parafrasando un’intervista del 1997, essa dice che l’approccio proposto dalla cultura visuale nello spostare l’attenzione dall’oggetto al contesto in maniera così fondativa, non ha senso per lo studio dell’arte che ha il suo centro nel medium visivo. Questa affermazione incuriosisce sia perché l’approccio di October, giornale di cui lei stessa è redattrice, non è mai stato ortodosso nei confronti della tradizione, sia perché sembra una disputa sul concetto di medium. Riprendendo il suo ultimo libro, Sotto la tazza blu, uscito nel 2011, e comparando i vari argomenti, balza all’occhio come i soggetti coincidono: medium, supporti, ma anche talune pratiche artistiche analizzate (quella di Harun Farocki per esempio), la divergenza sta appunto nel trattamento del medium che per Krauss deve essere ridefinito sulla base di una sua specificità (sembra quasi ritorni sui passi del suo maestro Greenberg piuttosto che proseguire sulla strada del postmediale), mentre per gli studi di cultura visuale acquisisce un senso più ampio e articolato, come prima specificato. Detto questo che è cronaca per chi sguazza in questo campo, allora quale l’apporto della cultura visuale alla storia dell’arte? Due discipline parallele o due discipline che si intersecano, prefigurando un principio osmotico se non addirittura di sopraffazione dell’una (la prima) nei confronti dell’altra (la seconda)? Personalmente protenderei verso una sana osmosi soprattutto nell’ambito della contemporaneità che necessita di un approccio più complesso rispetto a quello tradizionale non solo nei confronti delle vite e delle opere degli artisti, ma anche e soprattutto in relazione ai supporti, ai medium e ai dispositivi che vengono utilizzati e alle modalità “orientate” in cui lo sguardo si situa all’interno di un’esposizione (dentro o fuori il museo). Inoltre, sembra  palese – con una lettura a posteriori – che anche nella stessa Krauss, di cui non possiamo dimenticare nel 1977 la definizione di scultura in “passaggio”, i due sguardi si siano già incontrati in tempi non sospetti. 
Ma nello specifico italiano, per non soccombere ad un ingenuo assorbimento ma piuttosto ad un consapevole convivio, dal momento che esiste una solida tradizione di studi storico artistici, passando per le esperienze significative del Gruppo 63 e di autori come Renato Barilli che hanno parlato accanto ad una fenomenologia degli stili di una scienza della cultura negli anni Settanta, non sarebbe il caso di riappropriarci di una nostra “critica” della visione in cui l’oggetto/opera (un po’ quello che rivendica Krauss) è stato esplorato in modo attento e con metodo? E forse (invito alla critica militante – esistente?) soffermarci non solo sulle modalità di produzione, presentazione e ricezione dell’opera, ma anche e soprattutto sull’opera stessa, con il suo linguaggio, la sua grammatica e il suo modo di occupare lo spazio, reinventando un modo di fare di critica?
Titolo: Cultura Visuale. Immagini sguardi media dispositivi 
Autori: Andrea Pinotti e Antonio Somaini 
Casa editrice: Einaudi
Anno di pubblicazione: 2016
Pagine: 320
28 Euro

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