18 luglio 2016

L’intervista/Theaster Gates

 
L’arte e il potere di cambiare le cose
Prima personale italiana, con un progetto inedito tra memoria e sacro. Ecco Theaster Gates da Prada

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Nell’estate del 2014 a Chicago mi sono trovata nello studio di un artista che, attraverso il suo lavoro di architetto, performer, creatore e oratore, stava riqualificando un quartiere borderline della città: Theaster Gates aveva infatti comprato – per cinque dollari – delle strutture abbandonate nella South Side per realizzare luoghi di incontro e d’arte per la comunità. Lavorava già per White Cube a Londra; aveva terminato la Biennale di architettura e stava lavorando a quella d’arte, che ha chiuso con una toccante performance. Durante le lezioni alla University of Chicago racconta agli studenti che dal “creare piccole cose” si possono cambiare quelle grandi. Lo rincontro a Milano in occasione della sua personale alla Fondazione Prada. 
Theaster, quando ci siamo conosciuti a Chicago nel 2014 e avevi appena terminato la Biennale di architettura a Venezia, e, un anno dopo saresti stato protagonista alla Biennale d’arte con un tuo video, ti ho chiesto perché non avevi ancora realizzato una mostra personale a Milano. Ora sei qui, in uno dei luoghi ormai più rappresentativi per la città per il contemporaneo, Fondazione Prada. Ti è piaciuto lavorare a Milano? Come ti sei in questo luogo privilegiato?
«Milano è una città accogliente. E Fondazione Prada è un luogo importante, dove ho potuto realizzare un progetto che funge da piattaforma per restituire vita a dei microcosmi che stanno via via scomparendo. Una piattaforma per dare voce a uomini e oggetti, come in questo caso gli attrezzi da lavoro di un negozio di fabbro storico che ho riportato qui, nel Podium, l’area centrale della Fondazione. Si tratta della realtà della famiglia Comoretto, una bottega di ferramenta che ha tutto, e che resiste in corso Como qui a Milano. I signori Ada e Roberto sono venuti qui a raccontarci la loro storia, su questa sorta di palcoscenico in legno. O ancora con dei vecchi libri, d’arte e di cultura generale [sfoglia un vecchio catalogo di Georgia O’ Keeffe, n.d.r.] che ho acquistato da una libreria di Cincinnati che stava chiudendo e messo qui a disposizione del pubblico, all’interno di una semplice struttura in legno. Anche qui: una piattaforma nuova, fruibile dal pubblico della Fondazione, recuperata e rielaborata apposta, per dare risalto a dei libri che nessuno leggeva più».
Sinistra: Theaster Gates, Cabinet Work, 2015. Destra: Theaster Gates, True Value, 2016. Photo: Delfino Sisto Legnani Studio
Visto il momento storico in cui viviamo, penso che oggi sia molto importante, forse più che in passato, il ruolo sociale dell’artista. E quello che stai realizzando per Chicago è utile e un po’ rivoluzionario. Una rivoluzione attraverso l’arte. Pensi che questo approccio si possa portare in altre città? 
«Penso che sia necessario partire dal piccolo. Per esempio, quando lavoro con la ceramica, mi piace pensare che da lì si possano realizzare grandi cose. Riattivare elementi d’uso quotidiano e creare delle comunità per condividere qualcosa è già simbolico e rivoluzionario. Per quanto riguarda quello che sta accadendo a Chicago, nella South Side, è stato un processo: il mio scopo non era quello di cambiare le città. Il mio scopo è quello di fare arte. Tutti possiamo cambiare le cose».
Parli di simboli, e mi pare che nella Cisterna tu abbia lavorato molto su quello, sull’idea del simbolo, del feticcio che rappresenta qualcos’altro
«Nella Cisterna (un’altra zona della fondazione n.d.r.), che mi piace molto come luogo perché è in contrapposizione come grandezza, estetica e, di conseguenza, contenuto rispetto al Podium, ho voluto ricreare un rito che rappresentasse quello che l’umano subisce quotidianamente. Siamo piccoli in confronto al mondo, ma tendiamo sempre al potere. Questo pavimento, ad esempio” – indica una pavimentazione di diversi parquet recuperati e assemblati da una vecchia palestra, posta nella sala centrale della Cisterna – “rappresenta tracce di lavoro e di esercizio – sport, danza, giochi magari –  che sono state fatte in passato, da qualcuno che ha dovuto seguire delle regole per realizzare qualcosa. Inserendolo qui, e potendo camminarci sopra come vogliamo, gli diamo una nuova funzione, lo viviamo in un altro modo. Questo parquet anni Settanta è visibile anche dall’alto. È una questione di punti di vista. Anche le maschere africane nella stanza di destra sono un simbolo: le originali erano in legno antico che si stava smaterializzando, e le ho ricreate in ceramica. Rappresentano l’importanza dell’oggetto che può attivare dei significati e dei valori diversi».
Theaster Gates, Boli, a Portion of the Team Lives in Heaven, 2014; Theaster Gates, A Portion of the Team Lives in the Heavens, 2016. Photo: Delfino Sisto Legnani Studio
A proposito di “valori”, una domanda per Elvira Dyangani Ose, curatrice della mostra: hai invitato Gates a realizzare un progetto appositamente per Prada. Avevate già uno schema definito, o è stato un work in progress, un confronto qui in Fondazione?
E.D.O.: «Con Theaster avevamo deciso per alcuni lavori tra gli ultimi che lui ha realizzato. Poi, come naturalmente accade, una volta qui dentro sono nate delle idee, anche in base alla ricerca che è stata effettuata da Nicola Gravina qui in Fondazione sui negozi di ferramenta storici. Ma non enfatizzerei la provenienza degli oggetti, bensì il loro valore anonimo e universale e la loro riattivazione, simbolica e pratica. Penso che la pratica di Theaster rappresenti l’eterno e il quotidiano insieme, e qui è rappresentata da elementi d’uso quotidiano, appunto, e da feticci provenienti dalla cultura black». 
Theaster Gates, Ground Rules, 2015. Photo: Delfino Sisto Legnani Studio
Dunque, Theaster, attivazione di significati, simboli che restituiscono una nuova aura alle cose, nuove piattaforme a cui pensare. Su cosa credi sarà improntata la tua prossima ricerca?
«Adesso voglio indagare il mondo immateriale. Sono curioso, perché conosco quello materiale e voglio andare oltre. La magia è importante, la spiritualità ancora di più».
La prima volta che sei stato a Milano, prima dello scorso Natale, sei rimasto colpito dalla Rinascente e da ciò che questo edificio – ricco, bellissimo, vivo – rappresenta per la città e per la sua storia. È un po’ l’idea contrapposta rispetto all’opera “True Value”, la piattaforma con gli utensili del ferramenta che hai realizzato, o sbaglio?
«Non è in contrapposizione. Sono entrambe, la Rinascente e l’opera True Value, piattaforme che restituiscono un’aura nuova. Può anche rappresentare l’unione tra materiale – gli oggetti che sono posti all’interno – e l’immateriale, ciò che simbolicamente rappresentano per ognuno di noi. Ognuno ha una chiave di lettura diversa, la gente ha il potere di cambiare le cose, e di vederle in maniere differenti. Io offro solo una piattaforma». 
Rossella Farinotti

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