02 ottobre 2016

Una faccia su migliaia di cartoline

 
Il progetto in corso di Andrea Bianconi è un vero work in progress che mette insieme performance, mail art, disegno e altro. Ce lo racconta in questa intervista

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C’è tempo fino al 22 Ottobre per vedere Andrea Bianconi You and Myself Performance 2006-2016 a Casa Testori (a cura di Luigi Meneghelli), una mostra, a tutti gli effetti è una retrospettiva, che raccoglie i primi dieci anni di attività dell’artista che, vive e lavora tra Vicenza e Brooklyn e di cui ricordiamo, tra altre,le recenti esposizioni al MSK di Ghent, al Centro del Carmen di Valencia, al Film Society of Lincoln Center di New York, a Palazzo Reale di Milano, Shanghai. 
Bianconi è un artista sempre al limite tra le discipline – che vivono un osmosi perfetta – e senza etichette, la poetica di Andrea Bianconi abita le forme espressive più diverse e poco importa se anche un libro, nato con la concezione di catalogo della mostra – ma libro, ci tiene a precisare Andrea – diventa il punto di arrivo e allo stesso tempo l’inizio di un nuovo lavoro Draw Me. L’anello di congiunzione tra quello che è stato – di cui la mostra e il libro sono testimonianza – e quello che sarà, è il volto dell’artista stampato su una cartolina. Andrea Bianconi chiede al pubblico di intervenire disegnandoci sopra.  
Partiamo dall’inizio, come è nato il progetto Draw me?
«Era un’idea che avevo, ma non avevo trovato il momento giusto per farla. Tutto nasce con la mostra organizzata a Casa Testori e con lo sviluppo del libro di Silvana Editoriale. C’è stato un attimo in cui ho capito che potevo aprire il libro verso il futuro facendo una performance in cui tutti potessero partecipare dando al libro stesso l’identità di protagonista e non solo di oggetto come se esso potesse essere un contenitore di tutto ciò che è il futuro. Il libro parla della mia ricerca degli ultimi 10 anni in cui l’altro è fondamentale, così ripercorrendo il mio lavoro ho pensato che fosse giusto e stimolante dare spazio all’altro…come? Con la possibilità di disegnare sulla mia faccia; in questo modo posso vedere come gli altri mi vedono, ma anche come gli altri si vedono e trovare un’altra parte di me…se c’è qualcuno che mi disegna in modo da farmi scoprire lati nuovi che prima non avevo mai visto. Il titolo stesso Draw Me è diretto perché penso che il disegno sia la parte primordiale di tutto, quindi Draw Me sta per inizio e ho voluto associarlo a un libro che racconta i 10 anni, un punto, per dare un nuovo inizio».
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Parliamo del tempo perché questo lavoro, iniziato il 24 maggio con l’inaugurazione della mostra, prevede una partecipazione collettiva a lungo termine?
«Non mi sono dato un limite di tempo definito, al massimo pensavo di raccogliere le cartoline per un anno perché è un arco di tempo in cui succedono molte cose e quindi, cambiano le visioni delle persone, passano le stagioni, i fatti, ci sono avvenimenti che possono cambiare il disegno. Il tempo lungo non è legato ad un’esigenza quantistica di raccolta delle cartoline bensì alla necessità di prendere in esame un ciclo temporale compiuto. In realtà questo progetto potrebbe finire anche tra sei mesi, se io lo ritengo sufficiente, oppure può continuare per due anni. Voglio lasciare che il fattore di chiusura del progetto arrivi da solo».
Ci sarà poi un’esposizione? Quando?
«Ci sarà un catalogo, naturalmente sempre edito da Silvana e una mostra dove verranno esposte tutte le cartoline-opere che sono arrivate a Casa Testori o via email (questo l’indirizzo drawme@andreabianconi.com) o condivise sull’apposito account Instagram draw.me.project, hashtag #drawmedrawmedrawme».
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Dove si può trovare la cartolina?
«La cartolina è nel libro Andrea Bianconi You and Myself Performance 2006-2016,  ma la si può trovare sfusa nei bookstore dei musei. Ora il progetto si sta allargando e voglio che diventi un World Drawing Project, il mio obiettivo è che diventi un progetto di tutto il mondo, per questo sto coinvolgendo vari stati (Russia, Cina, America, Sud America, Giappone, Australia) così potrà emergere anche un fattore sociale e culturale ed è come se venisse ripensata la mappa del  mondo attraverso il disegno». 
Un lavoro quasi antropologico…
«Si, perché si vedono le culture diverse, gli approcci dei vari popoli, c’è un aspetto sociale e culturale molto importante, non è solo disegnare sulla faccia. La persona che disegna non ha nessun vincolo: può strapparmi, può elogiarmi, camuffarmi, offendermi, può fare quello che vuole… in quel momento io divento solo un oggetto e come tale un supporto in cui le culture si possono manifestare». 
Diventi un oggetto…infatti in questo progetto il corpo, inteso come entità fisica, svanisce pero allo stesso tempo rimane e l’azione non la fai tu ma la fanno gli altri, quasi un happening. Cosa è per te la performance?
«Io penso che la performance oggi debba, ma come ieri, rispettare il tempo che si sta vivendo e cercare di dialogare. La performance, come tutte le altre forme d’arte, deve essere legata al momento…Performance è una parola “stra-usata”, io cerco solo di parlale al momento; penso che la performance sia legata ad un tempo e a uno spazio e il mio modo di fare tiene in considerazione più l’altro che me stesso, quindi l’altro – inteso come altro io-altra persona-altro ambiente e altra natura – ne diventa il protagonista assoluto…io ci sono, ma posso fare tutto ciò nella relazione con l’altro. Per esempio nella performance Time is Timing, le sveglie sono installazione e che ci sia io o non ci sia io è relativo quindi è al di là del corpo. La performance è anche un’idea del corpo che non c’è. La performance è per me emozione, sensazione, più che gesti sono momenti». 
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Performance tradotto in italiano cosa sarebbe?
«Azione. Secondo me la performance è un dialogo istantaneo che l’artista cerca di instaurare con lo spettatore e con se stesso, anzi è una continua ricerca di una forma di dialogo. E nell’essere se stesso l’artista è duale: è attore e spettatore. In un’azione di durata di 5 minuti la performance può durare 5 secondi: è quel momento in cui non sono più come me stesso, non sono più con gli altri, non riesco più a vedermi, è un attimo e quell’attimo non torna più». 
Nella cartolina c’è la tua faccia del 2011. Cosa è successo 5 anni fa?
«Per la prima volta mi sono visto veramente allo specchio».
E cosa hai visto?
«Ah non mi conoscevo, in quel momento ho cominciato veramente a fissarmi nello specchio. Quella foto l’ho usata anche nella performance Trap for the mind (in cui indossavo maschere una sopra all’altra e l’ultima era quella foto lì). Il senso del lavoro  stava nella domanda: ma come mi vedo io? Quante maschere ha una persona? Quante maschere danno le altre persone all’individuo? Io immaginavo le maschere come trappole per la mente e quella faccia l’ho usata lì. Ogni persona è affezionata a una faccia che ha avuto…ci sono facce di me che non mi piacciono. Quel momento è stato talmente forte che ancor ora mi sento quella faccia».
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L’epifania di questa performance è stata quindi la consapevolezza di avere più identità, non ti parlo in senso patologico ma relazionale, io per esempio sono consapevole, pur essendo sempre me stessa, di avere facce diverse in base al contesto…
«Mah… più che di mia identità il lavoro è rivolto all’altro. Oggi c’è l’esasperazione di sapere come l’altro ti vede, ma anche di come tu ti vedi. E anche quando si parla di come tu ti vedi entra in campo l’altro. In questo caso per esempio mi metto a nudo, metto la faccia e proprio l’altro che incide…se non c’è l’altro noi non esistiamo. L’altro ci deve essere…prendi i social media…tutto è rivolto verso l’altro anche se parliamo continuamente di noi».
Si, mostriamo quello che vogliamo gli altri vedano di noi 
«Ci si prepara di più per una foto da mettere su Instagram. L’altro è dominante e secondo me Draw Me parla di questo: quanta importanza ha l’altro nella nostra vita? Che poi non aspettiamo un giudizio dell’altro…ma ci vogliamo far vedere per l’altro. Non è una frustrazione o un senso di sottomissione ma è solo dare importanza all’altro».
Alice Zannoni

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