16 novembre 2016

La fine del curatore

 

di

Cosa fa un curatore? La domanda se la sono posta in tanti nel corso dei passati decenni. Anni in cui sembrava una figura indispensabile, non solo per la realizzazione di mostre, ma anche per libri, rassegne ed eventi di ogni tipo, tanto da spingere le migliori università ad inventare dei corsi specifici per insegnare come si fa a fare il curatore. Il vento sta cambiando, i primi segnali li abbiamo avuti quando grandi eventi come la Biennale di Berlino e l’undicesima edizione di Manifesta o l’edizione 2017 della Biennale di Istanbul è stata affidata agli artisti. 
E mentre Bonami in un’intervista su artnet annunciava la morte del curatore, definendolo (e definendosi) “personaggio delirante e del tutto irrilevante sia in relazione al mercato che la carriera degli artisti”, in molti hanno iniziato a fare i fatti, scegliendo altri nomi per definire il loro lavoro.
Ha avuto un grande impatto su questa tendenza il saggio di David Balzer del 2014 intitolato Curationism, (pubblicato in edizione italiana da Johan&Levi di cui vi abbiamo parlato nel nostro ultimo numero di Exibart-onpaper) in cui si racconta la storia di questa professione, dal sedicesimo secolo ad oggi, tempo in cui siamo ossessionati dai curatori, considerati ormai selezionatori capaci di indirizzare il gusto delle masse. Figure onnipresenti come Hans Ulrich Obrist e Klaus Biesenbach stanno per essere soppiantate dalle folle sui social, come nel caso dell’esperimento messo in atto nel 2013 dall’Essl Museum in Austria, con Like it! una mostra in cui a selezionare le opere erano i like degli utenti di Facebook. 
A dare un altro significativo impulso in questa direzione è anche l’italianissima Collezione Maramotti, qui la mostra in corso, Figurative Geometry, è stata “organizzata” da Bob Nickas, scrittore e critico. A questi segnali si aggiunge la White Cube di Londra, che ha affidato le due mostre di Jannis Kounellis e Dóra Maurer alle capacità organizzative del direttore delle vendite private della galleria Mathieu Paris prima e Katharine Kostyál, dealer e curatrice pentita, poi. C’è inoltre chi preferisce definirsi un exhibition maker, ma la sostanza cambia poco: l’appeal di queste figure professionali sta scemando, è ora di dire addio ai curatori. Siamo certi che tutti gli Hans Ulrich Obrist e aspiranti tali non rimarranno disoccupati, sapranno riciclarsi ma dovranno cambiare biglietto da visita al più presto. (RP)

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui