03 luglio 2017

WHAT’S QUEER

 
Parla Jacopo Miliani, per una “maschera” come messa a nudo. Con una mostra frutto di una serie di coproduzioni
di Matteo Bergamini

di

Jacopo Miliani (Firenze, 1979) studi al DAMS di Bologna e al Central Saint Martins College of Art di Londra, fondatore del collettivo OuUnPo, network di artisti, curatori e ricercatori che operano attraverso workshop, incontri e seminari per attivare modalità di scambio e condivisione culturale, è stato protagonista dell’ultima mostra nello spazio milanese di via Paullo di Marsélleria. Una personale realizzata con una serie di “guest” per presentare una “mascherata”. È un termine curioso “maschera”: deriva dal latino màsca, strega, e il conseguente mascara è “spettro, essere demoniaco”. E l’universale trucco per le ciglia. In ogni epoca e tempo, ad ogni modo, la maschera è sempre stata un espediente per camuffare o sviare la percezione dell’identità. Secondo la Treccani: “Finto volto, di cartapesta, plastica, legno o altro materiale, riproducente lineamenti umani, animali o del tutto immaginarî e generalmente fornito di fori per gli occhi e la bocca; può essere indossata a scopo magico-rituale (per es., per rappresentare con efficacia antropomorfica l’essenza divina o demoniaca), bellico (per incutere terrore al nemico), di spettacolo (per comunicare con immediatezza il carattere e la funzione di un personaggio), di divertimento (come le maschere dai tratti spesso grotteschi che si usano per il carnevale), o semplicemente per non farsi riconoscere (e in questo caso potrà avere forma molto semplice)”. Un meccanismo trasversale, che Miliani racconta in questa seconda puntata della nostra nuova rubrica dedicata al queer. 
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Jacopo Miliani MALE MALE MALEN, 2017 Performance 31.05.2017, Marsèlleria ,via Paullo 12/A, Milano
“Male Male Malen” è il titolo della mostra che hai presentato poco tempo fa negli spazi di Marsélleria. Ad uno sguardo superficiale erano presenti mimi, dipinti di cocktail universali realizzati in co-produzione, “pose” di danza su attori il cui unico vestito era una bianca faccia di Pierrot. Cosa hai voluto s-velare in questo ultimo progetto?
«Questa mostra vuol esser una presentazione della “mascherata della mascolinità” (suona meglio in inglese “The masculine mascherade”) attraverso due media: la performance e la pittura. Il tema della maschera è centrale in tutta la mostra, che non ha un vero e proprio ‘autore’ e il mio ruolo figurato può esser appunto quello di ‘attore-non-autore’ che si rivela attraverso delle canzoni, dei personaggi infantili (mimo-Pierrot-geisha) e dei dipinti realizzati da mia madre. La maschera è quell’oggetto, fisico e metaforico, che ha bisogno di un corpo per esser indossato (così come ogni altro indumento), ma che riesce magicamente a mettere a nudo chi ci sta dietro. Per rispettare l’idea non autoriale, ma personale, che si percorre all’interno della mostra, ho chiesto a due coppie di critici/curatori e una critica che si occupa di semiotica di scrivere ciascuno un testo per me. La mostra si accompagna di un ‘Libretto’ che raccoglie gli interventi di Luis Silva e João Mourão, Francesco Urbano Ragazzi e Sara Giannini».
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Jacopo Miliani MALE MALE MALEN, 2017 Performance 31.05.2017, Marsèlleria ,via Paullo 12/A, Milano
Esiste, secondo te, un’estetica “queer” o si tratta di forme di elucubrazioni più raffinate rispetto alle categorie stereotipate LGBT? A volte sembra che il “queer” abbia aperto la strada a questioni “annacquate” rispetto alle tematiche ben più scomode della lotta di genere e non. Lo dico anche un po’ “colpevolmente”, visto che ho deciso di far entrare questo “segmento” sociale oltre che estetico, in una rivista che si occupa prettamente di arte contemporanea…
«Non saprei come definire l’estetica “queer”. Nel mio lavoro spesso cerco di definire una presenza tramite la sua negazione, ovvero l’assenza. Nel linguaggio verbale ci sono diverse figure retoriche che negano l’affermazione diretta di un soggetto: la metonimia, la perifrasi, la preterizione, la litote. Credo che la parola “queer” abbia un forte valore retorico, ma anche una valenza antagonista rispetto alle definizioni dominanti a livello sociale. Per questo motivo la definizione  di “queer” è di per sé contraddittoria e può essere considerata un paradosso: si dice paradosso “sia un ragionamento che appare invalido, ma che deve essere accettato, sia un ragionamento che appare corretto, ma che porta a una contraddizione.” (cito da Wikipedia, ovviamente la fonte di questa citazione può esser considerata paradossale di per sé). Non è però da escludere la valenza politica e non univoca del termine “queer”; intendendo come politica un’azione che si lega al presente e alla presenza ed è continuamente in atto. Un altro termine la cui definizione non ha mai trovato una soluzione univoca, ma che è in costante ridefinizione ed è legato alla presenza è il termine “performance”».
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Jacopo Miliani MALE MALE MALEN, 2017 Performance 31.05.2017, Marsèlleria ,via Paullo 12/A, Milano
Il corpo è un elemento fondamentale della tua ricerca, così come lo spazio. E infatti, da spettatore, penso che la tua mostra milanese fosse perfettamente calibrata. Mi ricordo però anche dei tuoi Paraventi, dopo la residenza al MACRO nel 2015. Lì, come in Marsélleria, ho trovato forte un aspetto di ri-velazione, come dicevo prima. Che rapporto hai con il ritratto e l’autoritratto, in quest’epoca di selfie perennemente tesi ad una proiezione di se completamente autoreferenziale e “dimostrativa” di caratteri post-prodotti dall’azione totale dei (post)media?
«Nel mio lavoro parto sempre dalla relazione tra lo spettatore e lo spazio. Io stesso mi considero uno spettatore all’interno del mio lavoro. Tuttavia, pur negando la mia presenza diretta, c’è una forte valenza personale all’interno delle mie opere, che si “definiscono” tramite lo sguardo dell’altro: sia attraverso i gesti degli interpreti con cui spesso collaboro, sia attraverso lo sguardo di chi osserva. Ampliando fisicamente la visione, la condivisione di un lavoro non avviene soltanto tramite il linguaggio verbale o lo sguardo, ma tramite il rispecchiamento del proprio corpo all’interno di uno spazio. Per questo motivo, il mio lavoro si pone in antagonismo verso un ruolo primario e assoluto dell’immagine che ha eliminato il soggetto. Guardando alla logica del selfie, per cui nutro un forte interesse, l’immagine si frappone all’immaginario collettivo con cui l’individuo si relaziona. Si tratta di un rapporto malinconico e ironico dell’io che si definisce tramite l’altro spesso non considerato come singolo, ma come collettività. Il mio lavoro cerca di guardare all’altro valorizzando l’identificazione del singolo spettatore, a cui mi relaziono consapevole del fallimento di poter parlare al singolo come alla massa».
 
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Jacopo Miliani MALE MALE MALEN, 2017 Performance 31.05.2017, Marsèlleria ,via Paullo 12/A, Milano
Lea Vergine nel suo vecchio saggio “Body Art e storie simili. Il corpo come linguaggio” scriveva delle pratiche dell’arte realizzata usando il corpo come di un atto sovversivo ma necessario, indice di una richiesta d’amore continua da parte dell’artista (e dunque universalmente dell’uomo); una richiesta di accettazione. Cosa pensi sia rimasto di questi messaggi?
«Credo di aver risposto a questa domanda, in totale sintonia con le parole di Lea Vergine. Vorrei solo aggiungere che accettare non significa affermare».
Jacopo Miliani artista “queer”: ti andrebbe stretta questa definizione? 
«Quello che mi va stretto è l’idea stessa di definizione, anche se sono consapevole che nel quotidiano io stesso utilizzo costantemente delle categorie e delle definizioni e tramite queste mi relaziono con gli altri. Ritorna il paradosso che principalmente è una componente del linguaggio piuttosto che del corpo e del gesto».

Matteo Bergamini

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