15 gennaio 2004

architettura_progetti Il museo trasgressivo

 
Il rifacimento dell’ex Birra Peroni a Roma entra nel mese di febbraio nella fase operativa. Tra due anni sarà pronto. L’esperienza di un architetto interventista tutto vetro e acciaio nella città più storica che c'è. L'architetto Odile Decq sfida la storia e il concetto di patrimonio lasciando una traccia forte, pulsante, tagliente. Soprattutto “evidente”. Impresa che dichiara quantomeno determinazione. Con un tocco di spregiudicatezza. Non necessariamente gradito…

di

Le idee chiare Odile Decq ha dimostrato di averle se ha ritenuto possibile dichiarare, in un’intervista rilasciata a floornature.com a proposito del rifacimento dell’ex stabilimento Peroni, “(…) bisognava mantenere entrambe le facciate, e noi ne abbiamo tolto un pezzettino in angolo per far vedere che esistevamo”.
Ma un architetto deve sempre far vedere che “esiste”? Ci sono le formule garbate e quelle trasgressive per presentarsi e, come un comportamento da tenere, dipendono dal contesto. E “garbato” non vuol dire “neutrale”, termine che la francese detesta, piuttosto “misurato, equilibrato, consapevole e ragionato”. A Roma l’architetto francese ha osato.Macro
” (…) a volte è necessario demolire, a volte bisogna togliere”, ha dichiarato recentemente. E ha tolto un “pezzettino” dal prospetto storico e con una soluzione d’angolo a vetri si è esibita.  Ha fatto centro. Il risultato è interessante, e spiega due delle idee portanti di Odile Decq Studio: la progettazione come atto che trasgredisce la “lezione della storia” e il concetto di “hyper-tension”, secondo il quale l’architettura prende forma sulla traccia dei movimenti dei suoi fruitori che al tempo stesso li sollecita al dinamismo e alla tensione.
Le cortine dell’edificio Peroni rimangono intatte, ad eccezione del  famoso angolo. Le novità sono al suo interno. Eppure già da fuori si avvertono i segni premonitori della sorprendente interpretazione degli interni: lo annunciano l’ardita struttura del tetto e lo sprone vitreo in angolo. Segni di qualcosa che cambia, punti di conflitto e di rottura, “la trasgressione dei confini”.
Il concetto di hyper-tension trova una sua giustificazione nelle idee di Paul Vérilleux, tanto care a Odile Decq, secondo le quali l’arte contemporanea per il grande pubblico è sempre più qualcosa di particolarmente criptico. Il messaggio dell’artista è Macro estremamente complesso. Un panorama che spesso destabilizza e disorienta il visitatore conducendolo ad una dimensione spirituale nella quale il verbo tattile del corpo svanisce.
Il progetto di Odile Decq muove da queste riflessioni sull’arte contemporanea e intende “tornare al corpo”, recuperarne le sue sensazioni attraverso il movimento. Spostarsi, muoversi, procedere diventano gli ingredienti per poter accedere alle opere in svariati modi, all’altezza degli occhi, guardandole da sopra o da sotto. I percorsi all’interno dello spazio museale sono concepiti in modo da permettere la percezione del proprio corpo attraverso lo spostamento.
È quello che accade anche sul tetto, concepito come una piazza pubblica, una “terrazza romana” accessibile sia ai visitatori del museo che ai cittadini del quartiere. La Decq lo definisce un “giardino panoramico astratto”, nel quale domina l’intenzione di sollecitare il corpo a prendere coscienza di sé attraverso texture mutevoli e complessi giochi di rampe. Lo Macro scopo è quello di ottenere “anziché una superficie piatta, una superficie articolata e dalla quale, camminando, si scoprano visuali nascoste sullo spazio espositivo sottostante”.
Aleggia in tutto il progetto l’idea della trasgressione spaziale, l’intenzione di trovare l’equilibrio attraverso la rottura, di rintracciare il messaggio dell’arte contemporanea, in continuo divenire, attraverso una dimensione dinamica dello spazio e una percezione consapevole del proprio corpo in movimento.

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francesca oddo

[exibart]

9 Commenti

  1. così, a occhio, sembra davvero un bel progetto, coraggioso ed innovativo come raramente si vede in Italia, imbrigliati come siamo nella retorica della conservazione e del restauro “fedele”.Mi pare poi un ulteriore segno del recupero di Roma nei confronti di Milano e del nord in generale per quanto riguarda arte contemporanea ed istituzioni.Se ripartono anche le gallerie private ed il collezionismo dovremo presto rivedere le nostre gerarchie geografico-artistiche.
    Sergio Tossi

  2. a vedersi sembra debole. come faccia a sembrare una cosa tanto degna di nota, è un mistero. non sento nessuna vertigine, nessuna vibrazione. un angolo di mattoni è stato asportato e sostituito con un angolo vetrato. sai che trasgressione. mi viene da chiedere come l’architetto giustifica questa infantile volontà di fare un dispettino immotivato, per il gusto di farlo, ma senza offrire niente di eccezionale in cambio della deroga. ma proprio niente. dispettino a chi? all’architettura preesistente? a noi ebeti che non sappiamo distinguere soluzioni favolose da capricci barocchi? l’angolino travestito da soluzione hitech è in realtà un’intenzione barocca, uno scherzo barocco. il lavoretto sull’angolino del palazzo non mi dice niente di niente, eppure sembra che tutto verta su quello. non che un’architettura debba parlare, ma se gli autori gridano tanto, poi devono darcelo, questo tanto, e non annegare in un bicchier d’acqua, non ridursi a rodere la gamba di un tavolo, che sembra essere il loro vanto.
    questo “famoso angolo” sul quale si sprecano parole esagerate… “tagliente”, “spregiudicatezza”, “trasgressivo”… ma stiamo sempre parlando di due vetrate?
    “Eppure già da fuori si avvertono i segni premonitori della sorprendente interpretazione degli interni: lo annunciano l’ardita struttura del tetto e lo sprone vitreo in angolo. Segni di qualcosa che cambia, punti di conflitto e di rottura, la trasgressione dei confini”: e ancora con questo angolo. nessun accenno riguardo a questa “arditezza del tetto”; la trasgressione dei confini, la rottura, sembrano parole ricliclate da riviste di architettura di 40 anni fa, ma senza arrivare a dire qualcosa di concreto. questo qualcosa che cambia è tanto vago quanto esagerato, almeno in mancanza di altri elementi concreti per conoscere il progetto. il concetto di “hypertension” non viene spiegato.

    “bisognava mantenere entrambe le facciate, e noi ne abbiamo tolto un pezzettino in angolo per far vedere che esistevamo”: beh, complimenti. discorso che normalemnte fanno i vandali, e infatti ci si inca..a; ora non è il caso di inchinarsi a questa dimostrazione di esistenza. è un bel discorso. se spacco qualcosa, la mia esistenza viene notata. edificio: adesso ti faccio vedere io.

    insomma, che recensione è? invece di riportarci i contenuti che l’architetto aveva in mente (e già rinunciamo a toccare con mano), si limita a dire “Il messaggio dell’artista è estremamente complesso”, senza spiegare nè descrivere l’architettura, e neppure il messaggio stesso, a meno che questo non sia ridotto al dare al visitatore la consapevolezza del proprio corpo attraverso il movimento, perchè qui saremmo non all’asilo, ma alla glaciazione della ricerca architettonica. e riattacca con questo progetto che, dice, destabilizza e disorienta il visitatore. l’apice della recensione e l’orgoglio del progetto dovrebbe essere il fatto che ci sono dei passagi a quote diverse. ahhhhhh

    cosa dobbiamo berci? boh, forse è un progetto quasi decente (peccato però per il frastuono sulla rottura e la soluzione facile del distruggere un pezzo solo per partito preso), ma mancano elementi per saperlo.
    di sicuro non sembra coraggioso, da qui. e tanto meno trasgressivo o ardito. anzi, è noioso, accompagnato da una retorica tanto sciorinata quanto debole.

    forzatamente limato al fine di avere passaggi a quote diverse e frammentati
    chiunque sia in grado, non dico di andare in bicicletta o in deltaplano… ma di camminare, sa che questo non porta assolutamente alla mente il prodigio del corpo e del volo, ma, nel peggiore dei casi, rendendo inutilmente più scomoda la fruizione dell’edificio, fa domandare: perchè? mentre nel migliore dei casi, permettendo una migliore visione delle opere esposte, è semplicemente logico. stupido sarebbe fare diversamente. tutto qui.
    comunque l’articolo non descrive l’edificio ed è pieno di enfasi senza concretezza, quindi non abbiamo niente in mano se non due balle sulla meraviglia del movimento nello spazio: grazie, lo sapevamo dalla nascita.

    ancora una cosa: il prospetto manca totalmente di sensibilità architettonica e di creatività. Sembra uno scimmiottamento di fuksas, ma senza un centesimo della sua energia.
    anche come intervento distruttivo, è tutto quello di cui il gruppo è stato capace di fare? da esamino del primo anno di architettura.
    tetsuoii@interfree.it

  3. Tra i dettami evergreen sull’architettura di Luois Kahn e un richiamo alla Fagus di Mies, complimenti per il progetto di Decq.
    La semplicità nell’espressione architettonica rimane (a mio avviso) quanto di meglio si possa presentare ai fruitori dell’opus edilizio, senza per questo perdere di significato e di riconoscimento. Riconoscimento simbolico dell’edificio, dialettico degli elementi funzionali e del risultato d’insieme in dialogo tra le parti (il vecchio e il contemporaneo) senza interrogativi inquietanti.
    La capacità di coniugare, dalla strada alla copertura, l’uso e la funzionalità di quest’area nell’urbe romana, merita un garbato encomio. Domanda: com’è che queste idee provengono da architetti non italiani?

    Angelo Errico

  4. Un invito rivolto al signor (o signora?)tetsuoii.
    Ci può spiegare sinteticamente e analiticamente, cosa ritiene inquietante nell’intervento disgregativo di Decq più di quanto non lo potrebbe essere un intervento conservativo tout court?
    Si lascino stare i riferimenti alle “cifre stilistiche” degli “universi creativi” dal gruppo Site a Hadid a Gehry e quant’altri se ne possono citare.
    Si lasci anche da parte il richiamo alle dizioni stilistiche del passato.
    In aggiunta e in conclusione, cosa avrebbe di meglio (forse è giusto dire, di alternativo) proposto tetsuoii?

    Grazie, Angelo Errico

    P.S.
    Potrebbe darsi un nome e un cognome tetsouii? quanto meno, se non ha realizzato una facciata come progettista in vita sua, che abbia una faccia più “visibile” per quello che dice.

  5. messaggio per “molto bene”
    in questo momento non ho molto tempo per scrivere ciò che penso, ma lo farò presto perché questo progetto è l’ennesima vergogna.
    Tante parole per spiegare ciò che non ha nulla da dire … Basta con l’arroganza degli pseudo-architetti depositari della cultura architettonica, basta con i politici che promuovono sè stessi a discapito delle città.
    VERGOGNA!
    PS
    l’immagine non mostra la Birreria Peroni ma un angolo del macello di Testaccio … chi ha progettato e scritto sa di cosa si sta parlando oppure, preso dall’orgasmo dell’ennesima masturbazione cerebrale non si è accorto di cosa stesse facendo?

  6. C’è qualcuno in grado di credere che un orco possa fare il baby-sitter?

    Non sto scherzando, purtroppo sono molto serio!
    Chiunque abbia avuto modo di vedere o di ascoltare Odile Decq si è potuto rendere conto che aveva a che fare con una persona affetta da disturbi della personalità, oppure con una persona che, molto intelligentemente, avendo compreso che gli intellettualoidi amano farsi prendere per i fondelli, ha deciso di recitare una parte a discapito della sua reale essenza: se non l’avete ancora vista (cosa che vi auguro!) sappiate che usa agghindarsi come Morticia della Famiglia Adams, con un look preso dal video di Thriller di Michael Jackson … una persona così non può avere tutte le rotelle a posto, infatti il suo intervento a favore del progetto di Meier per l’Ara Pacis (documentario “Ara sine Pacis” trasmesso su Rai Sat Art) ne è la conferma.
    A questo punto urge riflettere su una frase del grande comico Marcello Marchesi che disse: “l’uomo è nato per soffrire … e ci è riuscito benissimo!”
    Penso che questa riflessione sia calzante se pensiamo alla “mente superiore” che ha deciso di affidare un progetto del genere a questa intellettualoide francese che non ha nulla a che fare, nè vuole averne, con la città di Roma: uno che l’ha conosciuta, o che l’ha semplicemente vista, non può immaginare che lei sarà carina con Roma o con l’edificio su cui ha deciso di farle mettere le mani. Ci sono dunque due sole possibilità su chi le ha commissionato l’incarico: o sapeva benissimo a cosa andava incontro oppure era una persona “nata per soffrire ma che non era ancora riuscita nel suo scopo!”
    Fare l’architetto è una grande responsabilità, dall’opera dell’architetto può dipendere il destino degli uomini … non sto scherzando, se si analizzassero tutti gli studi di Sociologia Urbana ci si renderebbe conto che quegli individui che impongono delle realtà disumane alla gente sono i responsabili del suo disagio sociale!
    A questo punto diviene inammissibile che un architetto, (perchè purtroppo le è stato dato il titolo) sfacciatamente si permetta di dire: “(…) bisognava mantenere entrambe le facciate, e noi ne abbiamo tolto un pezzettino in angolo per far vedere che esistevamo!”.
    La nostra Decq ha bisogno di distinguersi dalla massa, così si dipinge delle orrende occhiaie e si veste con un look sadomaso in modo che la gente possa accorgersi di lei, non importa se con disgusto, l’importante è far vedere che esiste! La sua pseudo-architettura è esattamente lo specchio del suo modo distorto (o falso) di vivere la vita.
    In ogni modo gli idioti siamo noi: noi che le diamo la possibilità di fare ciò che crede a discapito di tutti noi. I nostri amministratori le stendono il tappeto rosso sotto i piedi per farsi spiaccicare una torta (guasta) in faccia … già ma “l’uomo è nato per soffrire” … e fa di tutto per riuscirci! … Ma allora chiediamoci: chi amministra le nostre città e il nostro Paese? Siamo per caso governati da un gruppo di Sado Masochisti?
    La gente comune ne ha le scatole piene di tutto ciò e quindi, ogni qualvolta si apra un cantiere di nuova costruzione, sentendosi in pericolo si ribella e manifesta per bloccare l’ennesimo stupro.
    Questo aspetto della nostra società è una cosa totalmente nuova, che trova le sue origini nelle porcate edilizie del XX secolo: prima degli anni ’30 infatti, la gente aspettava con grande entusiasmo ciò che gli architetti le avrebbero costruito, oggi invece è tutto l’inverso…
    Non è possibile che gli architetti non se ne rendano conto … non è una cosa di cui poter andare fieri!
    Il problema di molti architetti italiani, la mia categoria, è che essi stessi sono delle vittime, il problema nasce infatti all’interno delle Scuole di Architettura: ci hanno fatto crescere con il senso di colpa e con un complesso di inferiorità culturale.
    Quante volte ci siamo sentiti dire la frase “in Francia si costruisce! Solo da noi non si muove un chiodo!”
    Non è vero! Da noi infatti si è costruito molto di più di quanto non fosse necessario, ma lo si è fatto male. L’unica cosa che probabilmente non è stata consentita, ma anche questo non sempre è vero, è stata la costruzione all’interno dei centri storici. Non mi voglio dilungare su questo aspetto per il quale rimando alla mia lunga “raccolta epistolare” on-line sull’Ara Pacis (notizia 2999 di exibart).
    Così non c’è da meravigliarsi se, vittime del senso d’inferiorità coloniale, qualcuno tra gli architetti inneggi al successo di proposte come questa schifezza, oppure si chieda “com’è che queste idee provengono da architetti non italiani?”
    Sarei tentato di rispondergli: PERCHÉ GLI ITALIANI SANNO FARE MEGLIO! Perché l’Italia è il Paese più esterofilo del Mondo, dove la gente è stata fatta crescere con l’idea che “l’erba del vicino è sempre la più verde” (non fa niente se quelche volta il vicino sembra che se la sia fumata!).
    Questa è la ragione per cui poi non dobbiamo meravigliarci se in Italia, invidiosi degli INSUCCESSI della Grandheure di Mitterand o delle follie di Blair (quasi tutti i progetti realizzati si sono rivelati dei fiaschi economici ed artistici), oggi si assiste ad un proliferare di incarichi diretti come il Museo per Ara Pacis a Roma, la devastazione della Scala di Milano, il massacro degli Uffizi di Firenze, l’idea ancora sconosciuta ma immaginabile del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, ecc.
    Penso che i nostri politici siano dei “criminali” che si avvalgono dell’opera dei “sicari” (gli architetti, spesso stranieri) per ammazzare le nostre città, e tutto questo per colpa di uno stupido ed inutile complesso di inferiorità che ci impedisce di leggere dentro noi stessi.
    Bisognerebbe che tutti sapessero che alla fine degli anni ’20 erano gli altri ad essere invidiosi di noi e, semplicemente perché gli interessi in gioco erano altissimi, le riviste specializzate già “controllate” dalla lobby dell’edilizia che investiva nella costruzione delle nostre città (a Roma e Milano per esempio operavano molte imprese e banche austriache, francesi, svizzere, belghe, tedesche, ecc.) ci accusavano di essere degli imbecilli – una lettura dei numeri di quegli anni della rivista Der Modern Bauformen può essere d’aiuto – così abbiamo imparato che “dovevamo adeguarci” alle schifezze straniere … non voglio sembrare un fondamentalista nazionalista, voglio semplicemente far riflettere che quando è troppo è troppo!
    La stessa Decq non è che stia portando chissà quali novità, anzi, sta cercando di scopiazzare ciò che già a mio modo di vedere fa malissimo il nostro Fuksas .. che bisogno ce n’è?
    Tra l’altro nella descrizione di questo edificio e del suo modo di operare si parla di dinamismo … cosa ci sarebbe di dinamico in un cubo di vetro? Scusatemi ma non riesco a cogliere il messaggio!
    La verità è che qui si parla tanto, troppo, per convincere il “popolino” ignorante che l’architetto, “depositario del Verbo”, ha fatto chissà quale opera.
    Mi si consenta di citare l’aneddoto volgare del mitico film comico Compagni di scuola di Carlo Verdone quando Christian De Sica, disperato economicamente cercava di vendere al “troglodita macellaro” un orribile quadro d’autore dicendogli: “guarda che un quadro di questi ti risolve na serata!” l’apoteosi della scena era in ogni modo nella splendida risposta, frutto della grande saggezza popolare del troglodita: “ahò, ma che me voi fà crede che a merda è bona da magnà?”
    L’opera di molti critici ed architetti oggi è esattamente questa, far credere all’ignobile popolino che le porcherie siano belle, anzi MODERNE: questa è esattamente la sottile differenza tra la Modernità e il Modernismo che, come tutti gli “ISMI” è solo un’aberrazione del Moderno, una forzatura.
    Per concludere, penso un risultato positivo nel Museo della Decq ci potrà essere: se esso verrà realizzato (spero fortemente di no), grazie alla trasparenza delle sue pareti, la gente sarà “obbligata” a vedere anche dall’esterno le orribili opere di Arte Contemporanea che non avrebbe mai voluto vedere pagando un inutile biglietto … ecco, si! Credo di aver compreso il messaggio nascosto di questo edificio … “se la montagna non va da Maometto Maometto va dalla montagna!”
    Domanda: ma se alla montagna non frega niente di Maometto, perché questo rompiscatole deve andarla a disturbare?
    La grande sfida degli architetti deve essere quella di produrre il nuovo in armonia con ciò che lo circonda, così come è sempre stato prima dell’avvento del Modernismo e di tutte le sue distorte interpretazioni … non è essolutamente vero ciò che ha detto la nostra “francesina dark”:”(…) a volte è necessario demolire, a volte bisogna togliere” … ciò che è necessario è infatti aggiungere, ma con rispetto. Se lei non ha rispetto di se stessa (torno sul suo look), come si pretende che possa averne di Roma?
    Se ha problemi di hyper-tension architettonica, che se li curi a casa sua poiché qui in Italia c’è già tanta gente che ha problemi di colesterolo e per la quale arrabbiarsi per questa violenza urbanistico-architettonica potrebbe aumentarne letalmente l’ipertensione arteriosa! Mi si scusi il cinismo.
    Penso che quanto ha avuto modo di scrivere il signor “molto bene” di Torino esprima il pensiero della maggior parte di tutti noi, ho apprezzato molto la sua ironia …
    Mi auguro che tutti i critici, gli architetti, i politici e gli studenti di architettura che abitualmente leggono questo forum possano riflettere sulle parole del signor “molto bene” e sulle mie e possano, finalmente, iniziare ad apprezzare maggiormente la nostra tradizione.

    Ettore Maria Mazzola

  7. risposta al signor angelo errico.

    il mio cognome, soprannome, nome e hobby non hanno nulla ache vedere con quello che ho detto, e ancora meno con il progetto in esame.
    sono stufo di sentir chiedere, ogni volta che uno si esprime, “ma lei come si chiama?”
    io non sono nessuno. le parole parlano. la provenienza è irrilevante.
    facciamo così: sono un cane e mi chiamo pippo. toh, se interessa, adesso indosso una maglietta in maglietta. se non basta, pazienza.
    altre cose fuori tema?

    come cosiderare una frase del tipo: “chi non ha mai rubato non ha il diritto di giudicare un ladro”: follia, che altro?

    che io abbia o non abbia mai progettato una facciata simile a quella oggetto d’esame, non ha nulla a che vedere con la giustezza o meno di quello che ho detto.
    è ora di finirla di uscire dai discorsi e fare diventare tutto una questione personale.
    io non ho faccia, non ho corpo, sono morto, non esisto, dico qualcosa ogni tanto ma non esisto. sono un fantasma. guardate l’edificio, non me. io non c’entro niente coll’edificio, e mi rivolgevo chiaramente al modo di condurre la recensione, quindi al giornalista, e, per quel poco che se ne poteva capire, e partendo da quelle affermazioni dell’architetto, anche a lui. punto e basta. se ho scritto qualcosa di poco chiaro o troppo strano, chieda pure, sarei felice di riuscire a spiegarmi meglio. ma, parlare d’altro, non lo faccio in questa pagina. anzi, non lo faccio proprio.

  8. rispondo ad Angelo Errico.

    cominciamo colle rettifiche (auuuuuhhhwww, sbadiglio, ci risiamo).
    se uno dice bau, c’è sempre qualcuno che gli attribuisce un miao o un coccodè. ma perchè dovete sempre cambiare le parole che uno dice, nel rinfacciargli qualcosa? forse perchè altrimenti non sapete cosa rinfacciargli, quando per qualche motivo insondabile sentite di doverlo criticare? io mi sono attenuto alle cose dette nell’articolo e basta.

    1
    sfido chi ne avesse voglia a trovare nel mio intervento la parola “inquietante” o un qualcosa di simile. perchè dici che ho trovato inquietante il progetto, se non l’ho detto?

    perchè?
    perchè?

    ho scritto casomai il contrario, cioè che non ci trovavo nulla di coraggioso. e non perchè un progetto debba per forza essere coraggioso (anche se preferisco un progetto coraggioso a un progetto al di sotto delle possibilità o, peggio, a un progetto meschino); ma semplicemente perchè la recensione lo ha ricoperto di complimenti esultanti e di retorica tanto esagerata quanto vaga senza giustificare tali lodi e senza approfondire alcunchè del nuovo edificio. veniva allora particolarmente naturale mettere le cose alla prova, confrontare l’arditezza decantata nell’articolo con l’oggetto. tanto è vero che, al contrario, la primissima frase che ho scritto è “il progetto, a vedersi, sembra debole”.
    cosa centra la parola “inquietante” con la parola “debole”? le due cose stanno semmai agli antipodi. una cosa inquitante fa paura. una cosa debole, al massimo fa ridere.
    ho perfino ridicolizzato il modo in cui l’articolista ha definito il museo “trasgressivo”, non trovandoci proprio nulla di trasgressivo; ma di arbitrario e ancora da giustificare, si. e poi mi dà sempre fastidio la pomposità del tono in generale. bastava semplicemente descrivere questo museo, raccontarci come è fatto. ed è invece la cosa di cui si ha parlato di meno. il maggior numero di parole è stato impiegato per elogiarlo senza dare dei motivi. e non si fa così un articolo, almeno per me. poi tu fai come vuoi.

    2
    perchè mi attribuisci una presa di posizione fra intervento ditruttivo e intervento conservativo? quando mai? esattamente ho criticato il criterio affermato dall’architetto secondo il quale hanno asportato un pezzo dell’edificio “per affermare la nostra esistenza”. è l’architetto che ha fatto questo azzardo, non io. il fatto di avere una giustificazione valida piuttosto che un capriccio da bambino che rompe un oggetto per farsi notare – ed è esattamente quello che ha affermato l’architetto, tranne che per il paragone coi piagnistei di bimbo – non ha nulla a che vedere con la questione se sia meglio conservare o cambiare l’esistente. questione che poi, di per se, non ha neppure senso porre in modo così astratto. discutere sui principi dei principi è la cosa più idiota e inutile si sempre. ci si massacra in continuazione per dei principi totalmente astratti.
    qui la questione era di avere un buon motivo per prendere una direzione piuttosto che una direzione opposta. o usare un capriccio demente. è questo quello che ho criticato. se affermare la presenza dell’architetto viene accettato come criterio sufficente per distruggere pezzi di edifici, siamo a posto. per me potevano anche raderlo al suolo quell’edificio preesistente. ma avrei voluto sentire un motivo coi controcoglioni, prima. e non che l’architetto Decq voleva “dimostrare di esistere”!!! Ao!

    3
    riguardo alla terza falsità scritta nelle stesse 10 righe, e cioè:

    “Si lascino stare i riferimenti alle “cifre stilistiche” degli “universi creativi” dal gruppo Site a Hadid a Gehry e quant’altri se ne possono citare.
    Si lasci anche da parte il richiamo alle dizioni stilistiche del passato.
    In aggiunta e in conclusione, cosa avrebbe di meglio (forse è giusto dire, di alternativo) proposto tetsuoii?”

    rispondo semplicemte così: vorrei sapere dove hai sognato che io abbia parlato di Site, nonchè di gehry, nonchè di quei quantaltri che mi attribuisci, e vorrei anche sapere quando nel mio interventino avrei parlato degli stili del passato. quello che ho detto esattamente – e mi chiedo a cosa serve riscrivere le stesse cose che ho già scritto una volta tali e quali – è che il pretesto del “dimostrare l’esistenza” dell’architetto e il suo gruppo, nell’intento, retorico, barocco. nel senso di aleatorio. e non c’entrano nulla gli stili e non ho assolutamente parlato di stili.

    quindi, non posso rispondere di cose che non ho detto. in effetti, non accetto nemmeno che mi si mettano in bocca. perchè dovrei accettarlo?
    parlare più chiaro di così non sono riuscito.
    grazie.

    cordialmente,
    Molto Bene.

    tetsuoii@infinito.it

  9. rispondo ancora ad Angelo Errico.
    perchè ho dimenticato questa cosa.

    “In aggiunta e in conclusione, cosa avrebbe di meglio (forse è giusto dire, di alternativo) proposto tetsuoii?”

    al momento non lo so, perchè o mi metto a studiare un progetto “migliore o alternativo” con impegno o non ha senso conbatere un progetto finito con uno schizzo. è come far competere un maratoneta con un velocista: che si fa? ma penso che sarebbe molto diverso l’approccio: prima di tutto lascerei stare tutti discorsini retorici e anche le sterili scemenze a fior di pelle che vedono da una parte gente che sputa su tutto ciò che in superficie porta scritta la frase “sembrerebbe moderno” e dall’altra gente che sputa su tutto ciò che in superficie porta la scritta “sembrerebbe antico”. mi concentrerei sull’architettura, che è spazio organizzato, e cercherei di organizzarlo nel modo migliore sotto tutti gli aspetti: della sicurezza, dell’ambiente, della comodità, ecc, poi userei materiali di ottima qualità, e cercherei di fare in modo che non abbia bisogno di manutenzione e possibilmente sia autosufficente dal punto di vista energetico, e certamente sia ben isolato, quindi o i vetri sono almeno doppi o saranno ben limitati, e poi farei molte ricerche su tutto, su cosa offre il mercato, sulle novità, ecc. e poi mi ammazzerei pur di fare il migliore progetto di cui sono capace, e se non ne sono capace, preferisco farmi aiutare che fare una cosa approssimativa. e poi, valorizzerei al massimo ciò che rimane, anche se dovessi trovarmi costretto a distruggere il 99per cento del preesistente. al contrario di chi distrugge teoricamente solo un 1 per cento, ma poi sacrifica ciò che rimane umiliandolo con vistosi interventi grossolani. potrei lavorare con cemento, vetro, legno, plastica, merda, e magari anche ricoprire tutto di lava, ma mi inchinerei comunque al luogo dell’intevento anche nel devastarlo ne porteri rispetto. preferisco soffrire io nel progettare che far compromessi insoddisfacenti.
    paragona il progetto di odile con il progetto di 20 anni fa al castello di rivoli: sono stati impiegati acciaio corten, vetro, cemento, piombo, rame e le parti nuove sono incontrovertibilmente forti di uno spirito fortemente moderno, cazzuto e gagliardo. eppure, sono stati talmente delicati consapevoli che le noti appena. li distingui, certo, ma sono molto raffinati. il cubo di odile più la stricia dal quale parte, è infantile, è un compromesso, è rozzo, e schiaccia la parte in muratura. se uno non vede che il corpo di vetro è troppo voluminoso ed è privo di sensibilità, non ha più diottrie negli occhi. prendi una qualunque architettura importante degli ultimi cento anni, e non ci troverai, per quanto buona o cattiva, un errore così evidente. il brutalismo casomai si fa col cemento, non col vetro. non c’è niente, nell’intervento di odile. solo chiacchiere. forse l’interno ha più senso, ma il fuori è compromesso.
    mi meraviglio come faccia fuksas a difendere odile. forse è anche lui, costretto a difendere una nullità a fin di bene, e cioè per difendere un principio sacrosanto, il principio che non è tutto antico quello che luccica. ma così fa un errore. se uno sbaglia, sbaglia, e non si dovrebbe avere paura che ciò comprometta la fiducia in un principio sano.
    evidentemente anche fuksas sa meglio di noi che in italia la gente si ferma alla pelle delle cose e di più non ha voglia di pensare, di distinguere. e quindi, l’italia è infestata da ideologie formali e stilistiche come in tutti gli altri campi e fa mai il passo successivo, quello di sporcarsi le mani con verità precise, con la tecnica, con organizzazioni logiche, con modalità dirette e sane, e invece tutto diventa in men che non si dica un macello, una confusione, e tutto si riduce alla pelle della pelle, come le discussioni. e tutto è arroccato. poi ogni tanto arriva un niente e gli diamo carta bianca così intanto possiamo continuare a picchiarci sulla base della superficie delle cose più superficiali senza mai approfondire nulla. piuttosto, se proprio bisogna darsi da fare, si preferisce complicare. ma approfondire, no. o si complica tutto, o si rimane nella rozzezza. la strada della semplice risoluzione dei problemi attraverso lo studio e il lavoro ci fa paura, e cerchiamo sempre altre soluzioni. non sempre, ma troppo spesso.

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