21 novembre 2005

fino all’8.I.2006 Guardami. Percezione del video Siena, Palazzo delle Papesse

 
Come percepiamo le immagini in movimento oggi? Una mostra tenta di fare il punto. Tra picchi di fascino ai piani alti e qualche pecca di contenuto nelle fondamenta. A Siena, tuttavia, almeno ci provano...

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Uno degli equivoci più comuni e disastrosi per la critica e per la teoria artistica, oggi, è quello di cercare in ogni modo di separare rigidamente i territori del video e del cinema.
Questa operazione ha origini lontane, che datano alla nascita stessa della videoarte. Ma, per i primi due decenni di vita della nuova forma espressiva (per la sua infanzia), tale distinzione trovava una qualche ragione d’essere nella specificità del medium. La natura elettronica, nuova del mezzo espressivo, e la sua vocazione documentativa ed eminentemente non-narrativa giustificavano in larga parte la definizione e la ricerca di autonomia del video.
A partire dalla metà degli anni Novanta, però, la faccenda si complica. Innanzitutto, annunciata dalla pratica dell’installazione, la videoproiezione pare sostituire ovunque lo schermo televisivo (che verrà ripescato solo molto dopo in chiave vintage, un po’ come la diapositiva), dilatando la forma-video e conferendole una qualità proto-cinematografica. In secondo luogo, il ‘racconto’ rientra, per così dire, dalla finestra, non solo con la partenza (1994) del Cremaster Cycle di Matthew Barney, ma anche con le opere di Stan Douglas, Tacita Dean e Steve McQueen. Inoltre, con la sostituzione progressiva del VHS per mezzo del DVD e con l’introduzione nell’area della videoarte di mezzi specificamente ‘cinematografici’ (macchina da presa, pellicole, luci, costumi), i confini tra i due linguaggi tendono a farsi sempre più labili e sfocati.
Oggi, si può dire tranquillamente che essi siano quasi scomparsi. La vecchia distinzione tra cinema e video, che non ha più ragion d’essere, continua a sopravvivere grazie alla proverbiale pigrizia mentale dei critici e degli storici dell’arte.
Janet Cardiff & George Bures Miller, Playhouse, 1997 - still da video - Courtesy Galerie Barbara Weiss, Berlin
Pare molto più sensato, perciò, annullare qualsiasi differenziazione, e riunire la videoarte e la cinematografia sotto l’unica definizione di immagini in movimento, come del resto implicitamente osserva Lorenzo Fusi nel testo del catalogo di questa mostra (anche se il ragionamento rimane ancora troppo legato alle qualità del mezzo): “L’intento è quello di illustrare a grandi linee i diversi tipi di sollecitazione sensoriale, cui gli artisti ci hanno abituato e ci stanno abituando, attraverso l’uso dell’immagine in movimento, sia essa ritratta in video o in pellicola”.
Che siano invece stati “i tempi e gli spazi a disposizione” a non permettere al Palazzo delle Papesse di includere nella collettiva “nomi come Doug Aitken e Kutlug Ataman o, ancora, Douglas Gordon oppure Paul Pfeiffer, per citarne solo alcuni” appare quantomeno dubbio. Anche perché, almeno nel caso di Gordon e Pfeiffer, si tratta di autori recenti ma imprescindibili -insieme ad altri illustri assenti- come punti di riferimento all’interno di una ricognizione sul video.
A parte questo, la mostra va analizzata in profondità, nei suoi pregi e nelle sue pecche. Dal momento, soprattutto, che dichiara di possedere un impianto teorico degno di questo nome (una vera rarità in questo momento). Se questo intento c’è, non lo si percepisce in maniera chiara. Il discorso sulla percezione del video può davvero limitarsi ad una descrizione delle “molteplici possibilità di percepire un’opera in movimento”? E in che modo s’identificano le varie opzioni, “i diversi tipi di sollecitazione sensoriale”? Non ci sono, o meglio: sono talmente frammentati e disintegrati da rischiare di essere identificati con i singoli artisti.
Lodevole è l’idea di affidare il saggio introduttivo a Pietro Montani, sicuramente il più preparato studioso italiano di montaggio cinematografico e di immagini in movimento: le sue osservazioni sull’eredità di Dziga Vertov (e del suo Kinoglaz-Cineocchio, 1924), sull’interattività e sulla valenza politica del fuoricampo sono importanti e pertinenti. Ma perché, allora, questi spunti non vengono integrati, fusi più strettamente nel concept della mostra? L’introduzione ha tutta l’aria di un corpo estraneo rispetto all’impianto generale: è esibita come un’elegante coccarda.
Tuttavia, la mostra è godibile e ben allestita, fatta salva qualche sbavatura (come nel caso dell’opera di Studio Azzurro). Snodandosi tra la nascita del video (Bruce Nauman, Bouncing in the Corner No.1 e Walk With Contrapposto, 1968) e la stretta attualità (Jessica Bronson, Landing, grounding, finding, founding, 2004; David Cotterrell, Latitude, 2005), presenta lavori interessanti e complessi, anche se per la maggior parte visti e stravisti sul suolo nazionale, in Toscana o addirittura nello stesso museo.
Mark Leckey, Made in ‘Eaven’, 2004 - still da video - Courtesy Gavin Brown’s enterprise, New York
Non mancano, ad ogni buon conto, delle sorprese. Made in ‘Eaven (2004) di Mark Leckey regala allo spettatore uno sguardo invisibile che volteggia attorno al famoso Rabbit di Jeff Koons; Janet Cardiff & Georges Bures Miller costruiscono con la loro Playhouse (1997), in tempi non sospetti, un ambiente che fonde in maniera magistrale potenzialità visive, sonore e narrative; il Diorama (Dubrovnik Version, 2002) dell’inflazionata Candice Breitz vale da solo il biglietto: i personaggi di Dallas, posti in un interno seventies-psicotico, compongono un’installazione sottilmente ossessiva ed ipnotica. Spiace, invece, per la coppia Migliora-Sighicelli, che firma un lavoro (Pitfall, 2004) di rara inutilità.
Basta intendersi su scopi ed obiettivi di questo tipo di mostre. Se Guardami è concepita per avvicinare un pubblico sparagnino ad un linguaggio ancora percepito come nuovo (a quasi quarant’anni dalla sua nascita!), assolve perfettamente al suo scopo. Se invece la kermesse senese si pone l’obiettivo d’impostare una riflessione critica sull’identità e sulla problematicità del video (o meglio, dell’immagine in movimento), il tiro va ancora aggiustato. E di parecchio.

christian caliandro
mostra visitata il 15 ottobre 2005


Guardami. Percezione del video – Dal 15 ottobre 2005 all’otto gennaio 2006
Palazzo delle Papesse – Centro Arte Contemporanea, Via Di Città 126, +39057722071 (info), +39057722071 (fax)
info@papesse.org  – www.papesse.org  – martedì-domenica (chiuso il lunedì), 12-19 (chiusura biglietteria ore 18:30)
(possono variare, verificare sempre via telefono)


[exibart]

2 Commenti

  1. Ho visitato anch’io la mostra, anche io ho recensito l’evento per la stampa locale e guarda caso proprio per quel Corriere di Siena che poche settimane fa ha sparato a zero, cosa che per la verità fa frequentemente sulle sue pagine, sull’operato delle Papesse. Spunto per le invettive del caporedattore Bisi, la risposta di Politi al curatore delle Papesse Fusi sulle pagine di Flash Art.
    Tutti se la prendono con le Papesse, da ogni dove fioccano invettive e critiche negative a questo centro di arte contemporanea, accusato di usare fondi di magazzino ( testuali parole di Politi), di essere incapace di proporre novità e di esporre al pubblico cose fritte e rifritte. Vero, verissimo, ma come tralasciare che l’Amministrazione Comunale da anni, anzi da decenni, è intenta solo a finanziare lautamente, soprattutto grazie al “babbone” Monte dei Paschi, esclusivamente eventi riguardanti l’arte medioevale o al massimo seicentesca? Come mai Siena che vanta ( vantava?) un’ottima cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea ( v. Enrico Crispolti), nonche un’altrettanto valida Scuola di Specializzazione in tale materia, nonostante abbia presenti sul territorio molti spazi da sfruttare per allestire esposizioni di opere contemporanee non ha attenzione per l’arte contemporanea? Come mai sembra che dopo Duccio, i Martini, i Lorenzetti e tuttalpiù Domenico Beccafumi a Siena artisticamente non sia succeso più nulla? Come mai i senesi non ne sanno niente di arte contemporanea e passano schifati di fronte alle Papesse? Perchè a Siena non si investono soldi per l’arte contemporanea e la sua diffusione invece che sulle solite e altrettanto fritte e rifritte mummie dell’arte?
    Sarà triste doversi accontentare, ma meglio i fondi di magazzino che niente, lo dice chi tra l’altro di videoarte non ne conosceva una cicca prima di vedere la mostra alle Papesse.
    A qualcosa pur serve questo benedetto centro….basterebbe soltanto un po’ più di attenzione da parte della Pubblica Amministrazione e delle persone.

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