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Giacomo Carnesecchi – Un giorno di primavera mi sono immerso in un prato
Spesso la giovane pittura è in grado di proporci questa volontà di non accettare schemi e formule ereditate dalla tradizione; è nel DNA degli artisti “spregiudicati” che radicalmente divergono dal conoscibile e sperimentano fino alla dissonanza e al paradosso – nel nostro caso – quello compositivo.
Comunicato stampa
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Secondo gli artefici della Gestalttheorie (orientamento della psicologia moderna teorizzato nel 1912 da Wertheimer, Koffka e Koheler) le forme che regolano la percezione sono innate e i meccanismi che sottendono alla fruizione delle stesse è supportato dalle Leggi di pregnanza (pregnante; che ha maggiore capacità di farsi vedere) e la terza, delle cinque ipotizzate, la Legge della forma chiusa dice: “Le forme chiuse sono più pregnanti di quelle aperte e quanto più sono semplici tanto più sono pregnanti” per cui, affermano che un cerchio lo è più di un quadrato, questo più di un rettangolo...e via dicendo. Da ciò si desume che il cerchio è la forma più semplice e quindi più idonea ad essere “prescelta” da chi la fruisca. Questo perché non ha interruzioni perimetrali e dà luogo a uno spazio in continuo divenire. Come mai questa premessa? Un giorno di primavera mi sono immerso in un prato (titolo che l'artista Giacomo Carnesecchi ha voluto dare all'attuale mostra) è il riscontro di una duplice installazione composta da 7 e 5 dischi dipinti, ciascuno di 80 cm di diametro. Ebbene, in questa occasione, è proprio il cerchio ad essere il “segno” dominante dello spazio espositivo e, come ci dice Jacob Burckhardt (1818/1897) nel suo saggio: La civiltà del rinascimento in Italia (1860) esso è “Il più difficile e il pù bello dei formati”. Per di più Rudolph Arnheim (1904/2007) in: Il potere del centro - Psicologia della composizione nelle arti visive- (1982) esplicitamente afferma: “La rotondità costituisce la configurazione più opportuna per gli oggetti che non appartengono a nessun luogo ed appartengono a tutti” e più avanti: “La circolarità evoca un mondo fluttuante non gravato dal peso”. Detto questo allora si potrà meglio comprendere come i 12 “sguardi” sul prato che Giacomo ci propone rientrano, a pieno titolo, in quello storico confronto che gli artisti, dai Della Robbia, passando per Botticelli, Raffaello, Michelangelo...su su fino ai “segnali” di Frank Stella e al bilico di cerchi di Emilio Vedova (vedi installazione a Celle), hanno sempre avuto con quel magnetico formato. Il comporvi al suo interno è davvero arduo, a meno che non si seguano pedissequamente gli espedienti canonici facendo ricorso alla cornice racchiudente la scena (ceramica dipinta del periodo greco) oppure, si strutturi l'insieme secondo la concentricità che proietta verso il “potere del centro” (vedi esempi rinascimentali); altrimenti il ricorso alla modernità ci conduce verso la sintesi geometrica di Stella (l'artista americano evidenzia le linee di forza del formato, ovvero lo scheletro strutturale che supportava gli esempi già citati del XV° e XVI° sec.) e alla lotta informe dell'energia segnico/materica presente nelle opere menzionate di Vedova: frammenti cinetici destrutturati.
In cosa consiste allora la sfida di Giacomo Carnesecchi? Azzerare tutte queste memorie e ripartire da capo. Spesso la giovane pittura è in grado di proporci questa volontà di non accettare schemi e formule ereditate dalla tradizione; è nel DNA degli artisti “spregiudicati” che radicalmente divergono dal conoscibile e sperimentano fino alla dissonanza e al paradosso - nel nostro caso - quello compositivo. Ma loro se lo possono permettere.
Venendo allo specifico, le 12 opere dipinte da Giacomo si affidano appunto alla dissonanza e al paradosso, come? Egli suddivide lo spazio circolare di ciascun formato in topografie conflittuali e instabili caratterizzate da varianti che possono andare da un numero minimo di 4 ripartizioni fino a un massimo di 18 e, inoltre, limita l'uso dei pigmenti di fondo (per adesso non consideriamo il nero dei graffiti) da 1 a 4. Ebbene, questa sua scelta di campo ha lo scopo di assecondare quanto dicevo a proposito dell'azzeramento; in effetti i 12 dischi presentano altrettante variabili compositive e tutte di una “sonorità” (mi sia concesso il riferimento cinestesico) atonale, energica, a volte stridula che, a mio avviso sottolinea induttivamente quanto i pittogrammi, sovrapposti alla composizione dello sfondo, ci “narrano”.
Dunque questi 12 accordi si configurano come due sequenze spazio/temporali in opposizione, che accolgono il visitatore e lo inducono all'osservazione di metaforici oblò o di altrettante lenti d'ingrandimento. Ed ecco dunque ciò che ci mostra il nostro artista di quanto ha visto immergendosi in un prato: annotazioni a volte arcane come tracce di memorie rupestri altre, fioriture primaverili e ancora, figure di animali come l'elefante (simbolo, nel medioevo, della sapienza) o il maiale (emblema dei desideri impuri, ma anche della fortuna come il quadrifoglio. L'animale non se ne sta in un prato?) o gli insetti (abbinabili alla moltitudine). Però, nella sua peregrinazione l'oculare si è anche posato sull'immagine di un uomo (in alchimia l'uomo simboleggia lo zolfo-stadio dell'evoluzione della materia e della psiche- e la donna il mercurio -la trasmutazione-), di una spada (nel medioevo era considerata simbolo dello spirito o della parola di Dio), di un'ascia (simbolo del potere della luce), di un cancello (sta a indicare una fase di passaggio), ma anche di un Cristo crocifisso (la passione), e di cinque uomini impiccati (simbolo di giusta o ingiusta pena, ma curiosamente anche del fatto che ogni sospensione nello spazio partecipa dell'isolamento mistico, collegato con l'idea di levitazione o di volo onirico. Interessante no?) e di quant'altro ancora Giacomo ha lasciato impresso nella catena di risonanze cromatiche, compositive e semantiche, sui tondi del nostro tempo? Molto!
L'arte è immagine e pensiero, è rito dell'estetica e della spiritualità ma, soprattutto, è rivelazione e gli archetipi dell'immaginario collettivo, nelle opere di Giacomo Carnesecchi, la fanno da padrone. Dunque lui lo sa bene, come partendo dal lascito di Jung si possa risalire dal “profondo” con maggiore consapevolezza e affidare alla psicologia dell'arte il compito di decodificare ogni evento creativo di natura “sciamanica”.
Siliano Simoncini
Pistoia, 28 aprile 2011
In cosa consiste allora la sfida di Giacomo Carnesecchi? Azzerare tutte queste memorie e ripartire da capo. Spesso la giovane pittura è in grado di proporci questa volontà di non accettare schemi e formule ereditate dalla tradizione; è nel DNA degli artisti “spregiudicati” che radicalmente divergono dal conoscibile e sperimentano fino alla dissonanza e al paradosso - nel nostro caso - quello compositivo. Ma loro se lo possono permettere.
Venendo allo specifico, le 12 opere dipinte da Giacomo si affidano appunto alla dissonanza e al paradosso, come? Egli suddivide lo spazio circolare di ciascun formato in topografie conflittuali e instabili caratterizzate da varianti che possono andare da un numero minimo di 4 ripartizioni fino a un massimo di 18 e, inoltre, limita l'uso dei pigmenti di fondo (per adesso non consideriamo il nero dei graffiti) da 1 a 4. Ebbene, questa sua scelta di campo ha lo scopo di assecondare quanto dicevo a proposito dell'azzeramento; in effetti i 12 dischi presentano altrettante variabili compositive e tutte di una “sonorità” (mi sia concesso il riferimento cinestesico) atonale, energica, a volte stridula che, a mio avviso sottolinea induttivamente quanto i pittogrammi, sovrapposti alla composizione dello sfondo, ci “narrano”.
Dunque questi 12 accordi si configurano come due sequenze spazio/temporali in opposizione, che accolgono il visitatore e lo inducono all'osservazione di metaforici oblò o di altrettante lenti d'ingrandimento. Ed ecco dunque ciò che ci mostra il nostro artista di quanto ha visto immergendosi in un prato: annotazioni a volte arcane come tracce di memorie rupestri altre, fioriture primaverili e ancora, figure di animali come l'elefante (simbolo, nel medioevo, della sapienza) o il maiale (emblema dei desideri impuri, ma anche della fortuna come il quadrifoglio. L'animale non se ne sta in un prato?) o gli insetti (abbinabili alla moltitudine). Però, nella sua peregrinazione l'oculare si è anche posato sull'immagine di un uomo (in alchimia l'uomo simboleggia lo zolfo-stadio dell'evoluzione della materia e della psiche- e la donna il mercurio -la trasmutazione-), di una spada (nel medioevo era considerata simbolo dello spirito o della parola di Dio), di un'ascia (simbolo del potere della luce), di un cancello (sta a indicare una fase di passaggio), ma anche di un Cristo crocifisso (la passione), e di cinque uomini impiccati (simbolo di giusta o ingiusta pena, ma curiosamente anche del fatto che ogni sospensione nello spazio partecipa dell'isolamento mistico, collegato con l'idea di levitazione o di volo onirico. Interessante no?) e di quant'altro ancora Giacomo ha lasciato impresso nella catena di risonanze cromatiche, compositive e semantiche, sui tondi del nostro tempo? Molto!
L'arte è immagine e pensiero, è rito dell'estetica e della spiritualità ma, soprattutto, è rivelazione e gli archetipi dell'immaginario collettivo, nelle opere di Giacomo Carnesecchi, la fanno da padrone. Dunque lui lo sa bene, come partendo dal lascito di Jung si possa risalire dal “profondo” con maggiore consapevolezza e affidare alla psicologia dell'arte il compito di decodificare ogni evento creativo di natura “sciamanica”.
Siliano Simoncini
Pistoia, 28 aprile 2011
08
maggio 2011
Giacomo Carnesecchi – Un giorno di primavera mi sono immerso in un prato
Dall'otto maggio all'undici giugno 2011
arte contemporanea
Location
LO SPAZIO DI VIA DELL’OSPIZIO
Pistoia, Via Dell'ospizio, 26, (Pistoia)
Pistoia, Via Dell'ospizio, 26, (Pistoia)
Orario di apertura
da lunedì a domenica ore 9.30-13 e 16-20, chiuso lunedì e domenica mattina
Vernissage
8 Maggio 2011, ore 18.00
Autore
Curatore