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Steve McQueen
Steve McQueen ha cominciato a lavorare agli inizi degli anni Novanta, affermandosi a livello internazionale per l’uso sofisticato del linguaggio cinematografico
Comunicato stampa
Segnala l'evento
La Fondazione Prada inaugura martedì 12 aprile, nello spazio di via
Fogazzaro 36 a Milano, la prima mostra personale dedicata in Italia
all’artista Steve McQueen (Londra, 1969).
Tra i più noti giovani artisti contemporanei, Steve McQueen ha
cominciato a lavorare agli inizi degli anni Novanta, affermandosi a
livello internazionale per l’uso sofisticato del linguaggio
cinematografico con riferimento diretto al cinema-verité, in particolare
a Jean Rouch, regista e documentarista d’avanguardia francese.
Rifacendosi alle tecniche di improvvisazione del Neorealismo italiano,
Rouch ruppe con la struttura del montaggio tradizionale abolendo il
lavoro di post-produzione per mettere in evidenza il potenziale
racchiuso nell’uso “libero” della camera che in questo modo doveva
riuscire a trasmettere un’esperienza diretta della percezione del reale.
Su queste basi procedurali McQueen ha sviluppato una narrativa filmica
che inevitabilmente lo ha portato ad allontanarsi dal cinema classico e
ad adottare un approccio più libero che fa della casualità e
dell’aleatorietà i suoi punti di forza. In questo contesto l’artista ha
adottato alcune tecniche che sono diventate tipiche del suo operare:
l’uso della camera tenuta a mano durante la ripresa, la trasgressione
dei confini tra immaginazione e realtà, tra lo spazio di chi osserva e
quello del film, e soprattutto l’interruzione della continuità del
racconto per cui le sequenze non si succedono l’una dopo l’altra, bensì
fanno parte di blocchi narrativi discontinui. L’osservatore si trova a
dare un significato e a confrontarsi con un linguaggio che non dà
risposte, ma si basa su dinamiche complesse nelle quali interagiscono
elementi chiave come la chiarezza espositiva, la densità pittorica e
l’equilibrio compositivo.
Nel 1992 McQueen realizza il suo primo film dal titolo Exodus, i cui due
protagonisti vengono ripresi a loro insaputa mentre camminano per le
strade di Londra portando con sé piccole palme da cocco. Nel 1993 è la
volta di Bear, un film in cui due uomini di colore nudi combattono, si
abbracciano, si guardano negli occhi e infine compiono una sorta di
atletico pas des deux che ricorda le movenze del pugilato. In Just Above
My Head del 1996 l’intero schermo è occupato dalla presenza di un cielo
bianco e nuvoloso sul cui limitare si intravede, la testa dell’artista
che cammina ballonzolando. In Deadpan del 1997 McQueen rende omaggio al
grande cinema muto, rimettendo in scena una delle gag più famose del
comico Buster Keaton, mentre in Drumroll del 1998 (opera premiata con il
Turner Prize nel 1999), la sequenza è il risultato della ripresa
effettuata con tre cineprese poste all’interno di fusti di petrolio e
fatte rotolare per le strade di New York.
Affidandosi all’intensità delle immagini e alla loro capacità di evocare
lo straordinario nell’ordinario, McQueen suscita pathos mediante
associazioni narrative non ortodosse. Episodico nella struttura, il suo
procedere non segue un’azione lineare ma àncora lo sguardo, seguendo un
percorso linguistico in cui si compenetrano immagini e memoria e il cui
scopo è trasformare la nozione comune del reale. Creando una dissonanza
di significati, l’artista mira a provocare un cortocircuito emotivo che
riesce a mettere in contatto la persona con l’indefinito, con
l’inspiegabile e soprattutto con la parte di sé più intima e
sconosciuta: “Voglio porre il pubblico – afferma McQueen – in una
situazione in cui ognuno diviene sensibile al massimo grado verso se
stesso, il proprio corpo e la propria respirazione…” (*), e ancora:
“Bisogna perdere completamente il controllo. In questo consiste
l’improvvisazione. È caos controllato…”(** ). E se la dimensione
temporale nei suoi film è determinata dalla memoria che, sollecitata, si
muove in diverse direzioni, anche i luoghi dove si svolgono le azioni
scaturiscono dalla casualità e dalla capacità di improvvisazione: “Dopo
molte ricerche – spiega l’artista – ho fatto video nelle più svariate
locations, a partire da sotto il mio letto fino alla miniera più
profonda del mondo, la cosiddetta Western Deep in Sud Africa”.
Caratterizzato da un riduttivismo visuale, da una severa monumentalità e
da immagini essenziali e distillate, il lavoro di McQueen fa della
sorpresa un elemento chiave; il suo linguaggio cambia continuamente
sintassi, passando dall’uso del bianco e nero (Stage,1996) al colore (
Catch, 1997), dal riferimento storico (Carib’s Leap, 2001) a un momento
di forte intensità (Western Deep, 2002), da scene di vita metropolitana
(Drumroll, 1998) a testimonianze più personali e coinvolgenti (7th
November, 2001).
McQueen ha sperimentato numerose altre forme espressive, tra cui la
scultura (White Elephant, 1998) e la fotografia (Barrage, 1998), che
affiancate al linguaggio cinematografico gli hanno permesso di allargare
il proprio campo di ricerca.
Dopo gli studi a Londra presso la Chelsea School of Art e il Goldsmiths
College, e a New York presso la Tisch School of the Arts, McQueen ha
vinto numerosi premi, tra cui l’ICA Futures Awards (Londra) nel 1996, e
nel 1999 il Turner Prize (Londra) e il DAAD Artist in Residence
(Berlino).
Ha presentato numerose mostre personali presso musei internazionali, tra
cui le più recenti presso l’Art Institute di Chicago nel 2002, il Musée
d’Art Moderne de la Ville de Paris e la Tate Britain a Londra nel 2003,
il Davis Museum and Cultural Center, Wellesley College (USA) nel 2004.
Attualmente Steve McQueen vive e lavora ad Amsterdam.
* Tratto da "La pulsation de l’image", par Charles-Arthur Boyer, in
Steve McQueen, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Paris 2003.
** Tratto da "Interview de Steve McQueen par Hans Ulrich Obrist et
Angeline Scharf", in Steve McQueen, Musée d’Art Moderne de la Ville de
Paris, Paris 2003.
Fogazzaro 36 a Milano, la prima mostra personale dedicata in Italia
all’artista Steve McQueen (Londra, 1969).
Tra i più noti giovani artisti contemporanei, Steve McQueen ha
cominciato a lavorare agli inizi degli anni Novanta, affermandosi a
livello internazionale per l’uso sofisticato del linguaggio
cinematografico con riferimento diretto al cinema-verité, in particolare
a Jean Rouch, regista e documentarista d’avanguardia francese.
Rifacendosi alle tecniche di improvvisazione del Neorealismo italiano,
Rouch ruppe con la struttura del montaggio tradizionale abolendo il
lavoro di post-produzione per mettere in evidenza il potenziale
racchiuso nell’uso “libero” della camera che in questo modo doveva
riuscire a trasmettere un’esperienza diretta della percezione del reale.
Su queste basi procedurali McQueen ha sviluppato una narrativa filmica
che inevitabilmente lo ha portato ad allontanarsi dal cinema classico e
ad adottare un approccio più libero che fa della casualità e
dell’aleatorietà i suoi punti di forza. In questo contesto l’artista ha
adottato alcune tecniche che sono diventate tipiche del suo operare:
l’uso della camera tenuta a mano durante la ripresa, la trasgressione
dei confini tra immaginazione e realtà, tra lo spazio di chi osserva e
quello del film, e soprattutto l’interruzione della continuità del
racconto per cui le sequenze non si succedono l’una dopo l’altra, bensì
fanno parte di blocchi narrativi discontinui. L’osservatore si trova a
dare un significato e a confrontarsi con un linguaggio che non dà
risposte, ma si basa su dinamiche complesse nelle quali interagiscono
elementi chiave come la chiarezza espositiva, la densità pittorica e
l’equilibrio compositivo.
Nel 1992 McQueen realizza il suo primo film dal titolo Exodus, i cui due
protagonisti vengono ripresi a loro insaputa mentre camminano per le
strade di Londra portando con sé piccole palme da cocco. Nel 1993 è la
volta di Bear, un film in cui due uomini di colore nudi combattono, si
abbracciano, si guardano negli occhi e infine compiono una sorta di
atletico pas des deux che ricorda le movenze del pugilato. In Just Above
My Head del 1996 l’intero schermo è occupato dalla presenza di un cielo
bianco e nuvoloso sul cui limitare si intravede, la testa dell’artista
che cammina ballonzolando. In Deadpan del 1997 McQueen rende omaggio al
grande cinema muto, rimettendo in scena una delle gag più famose del
comico Buster Keaton, mentre in Drumroll del 1998 (opera premiata con il
Turner Prize nel 1999), la sequenza è il risultato della ripresa
effettuata con tre cineprese poste all’interno di fusti di petrolio e
fatte rotolare per le strade di New York.
Affidandosi all’intensità delle immagini e alla loro capacità di evocare
lo straordinario nell’ordinario, McQueen suscita pathos mediante
associazioni narrative non ortodosse. Episodico nella struttura, il suo
procedere non segue un’azione lineare ma àncora lo sguardo, seguendo un
percorso linguistico in cui si compenetrano immagini e memoria e il cui
scopo è trasformare la nozione comune del reale. Creando una dissonanza
di significati, l’artista mira a provocare un cortocircuito emotivo che
riesce a mettere in contatto la persona con l’indefinito, con
l’inspiegabile e soprattutto con la parte di sé più intima e
sconosciuta: “Voglio porre il pubblico – afferma McQueen – in una
situazione in cui ognuno diviene sensibile al massimo grado verso se
stesso, il proprio corpo e la propria respirazione…” (*), e ancora:
“Bisogna perdere completamente il controllo. In questo consiste
l’improvvisazione. È caos controllato…”(** ). E se la dimensione
temporale nei suoi film è determinata dalla memoria che, sollecitata, si
muove in diverse direzioni, anche i luoghi dove si svolgono le azioni
scaturiscono dalla casualità e dalla capacità di improvvisazione: “Dopo
molte ricerche – spiega l’artista – ho fatto video nelle più svariate
locations, a partire da sotto il mio letto fino alla miniera più
profonda del mondo, la cosiddetta Western Deep in Sud Africa”.
Caratterizzato da un riduttivismo visuale, da una severa monumentalità e
da immagini essenziali e distillate, il lavoro di McQueen fa della
sorpresa un elemento chiave; il suo linguaggio cambia continuamente
sintassi, passando dall’uso del bianco e nero (Stage,1996) al colore (
Catch, 1997), dal riferimento storico (Carib’s Leap, 2001) a un momento
di forte intensità (Western Deep, 2002), da scene di vita metropolitana
(Drumroll, 1998) a testimonianze più personali e coinvolgenti (7th
November, 2001).
McQueen ha sperimentato numerose altre forme espressive, tra cui la
scultura (White Elephant, 1998) e la fotografia (Barrage, 1998), che
affiancate al linguaggio cinematografico gli hanno permesso di allargare
il proprio campo di ricerca.
Dopo gli studi a Londra presso la Chelsea School of Art e il Goldsmiths
College, e a New York presso la Tisch School of the Arts, McQueen ha
vinto numerosi premi, tra cui l’ICA Futures Awards (Londra) nel 1996, e
nel 1999 il Turner Prize (Londra) e il DAAD Artist in Residence
(Berlino).
Ha presentato numerose mostre personali presso musei internazionali, tra
cui le più recenti presso l’Art Institute di Chicago nel 2002, il Musée
d’Art Moderne de la Ville de Paris e la Tate Britain a Londra nel 2003,
il Davis Museum and Cultural Center, Wellesley College (USA) nel 2004.
Attualmente Steve McQueen vive e lavora ad Amsterdam.
* Tratto da "La pulsation de l’image", par Charles-Arthur Boyer, in
Steve McQueen, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Paris 2003.
** Tratto da "Interview de Steve McQueen par Hans Ulrich Obrist et
Angeline Scharf", in Steve McQueen, Musée d’Art Moderne de la Ville de
Paris, Paris 2003.
12
aprile 2005
Steve McQueen
Dal 12 aprile al 12 giugno 2005
arte contemporanea
Location
FONDAZIONE PRADA
Milano, Via Antonio Fogazzaro, 36, (Milano)
Milano, Via Antonio Fogazzaro, 36, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a domenica 10-20
Editore
PRADA
Autore
Curatore