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Isanti Ala – Il doppio senso delle origini
Ala attraverso il colore–in molti casi virato su nuance di viola, di ocra e di bruni, di neri e di blu—cerca di restituirci le vibrazioni della luce, un’atmosfera densa, uno spazio sfarinato come uno schermo televisivo guasto, tutto però giocato su un’idea di astrazione capace di smaterializzare la materia pittorica, che sembra provenire da un monitor irraggiante
Comunicato stampa
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ALA:frammenti di quotidiana esistenza.
Amo i colori,tempi di un anelito
Inquieto, irremovibile, vitale,
spiegazione umilissima e sovrana
dei cosmici “perché” del mio respiro.
A.Merini
Oggi ci si può domandare se i cambiamenti nella nostra cultura contemporanea confermino la validità del modello della nevrosi, del malessere, che domina la cultura del nostro tempo abbia prodotto altre configurazioni nella psiche degli uomini. Secondo questa prospettiva, al di là dei rapporti della cultura del mondo moderno con i problemi esistenziali del presente, abbiamo a che fare col capovolgimento della stessa concezione del nostro modo di pensare, della sua genesi, dei suoi limiti, e del suo funzionamento.
La compresenza contraddittoria di un nuovo spazio di libertà e della riduzione del soggetto ad un individuo parziale, unidimesionale, non è senza conseguenze nella strutturazione della psiche e specialmente sull’attività creativa, oggi sempre più complessa. Tale attività è essenziale se si concede che essa consente di elaborare la dispersione del nostro vivere quotidiano, la sua eterogeneità, e lo scarto fra esperienza del mondo interno e quella del mondo circostante. La cultura dell’urgenza e dell’immediatezza interroga lo statuto della temporalità nel chiaro disagio del mondo postmoderno. Il rapporto con il tempo privilegia il qui e ora:il tempo breve prevale sul tempo lungo, come lo zapping e il nomadismo prevalgono sulla continuità. Tutto vive di attualità, quindi di moda e di omologazione, perché la certezza che l’avvenire sia in decidibile è l’unica certezza. Molti nostri progetti oggi non sono progetti, ma scenari di uscita dal marasma, nell’immaginario.
L’artista deve quindi chiamare a raccolta tutte le forze in grado di contenere tali minacce, in particolare relazionandosi agli altri e cercando di portare all’esterno le sue pulsioni più intime. Quando quest’opera di contenimento fallisce esce allo scoperto l’aggressività che sta dentro ciascun individuo. Sappiamo bene che la passione per la verità, per l’etica, per il sapere, per l’arte sono una guida preziosa all’integrità e al rispetto di sé stessi, e quindi sana in sé, in quanto mitigatrice del disagio della civiltà, positiva nell’avvicinarci il più possibile all’enigmatica realtà che ci circonda. Per sfuggire agli orizzonti ristretti in cui sarebbe confinata la nostra vita, per renderla più complessa e salda, dobbiamo intrecciarla e ricombinarla con quella di altri, servirci dell’immaginazione quale antidoto alla povertà di ogni esperienza singola. Quindi sono i colori, le emozioni, la poesia, che ci stanano dalla chiusura in noi stessi, attivano germi che sono in noi in forma latente, spalancano nuovi mondi, inoculano idee, passioni, sensazioni, che altrimenti resterebbero precluse, e da cui amiamo lasciarci contagiare.
E’ questo certamente il caso di Ala. Questa artista sa che a differenza delle banali reveries, la forza creatrice plasma figure che non rappresentano il mero rovescio egoistico delle nostre carenze e neppure i pallidi fantasmi di altre vite desiderabili, evocati dalla vanità ferita, o dal rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato. La necessità di portare se stessi su una superficie è una realtà non sempre consolatoria, anzi lascia spesso degli ematomi, tende a portare fuori dal mondo, ma forma invece il contrappunto di tutto questo, riconfigura attraverso più alternative i piani della vita, procura altre vite parallele. Certo ora il transito dai desideri biografici alla realtà appare più praticabile e le vite immaginate più facili da ricondurre nella creatività. La salvezza per l’artista non consiste nel rifiutare l’esperienza dell’irrealtà, o nel cercare l’immunità dalla fantasia o dai mezzi di comunicazione di massa.
Ala porta in scena dunque la sua diversità, che non consiste in attributi antichi, quai silenzio, fisicità, passività concettuale e immaginativa, ma consiste in valori che devono ora essere riconosciuti:la sua immagine dionisiaca, che è stata figura sensibile dell’alterità in gran parte dell’iconografia del passato, ma che oggi produce “segni” aderenti alla propria verità intima e creativa. Se si volesse fermare sulla carta la storia della creatività femminile, potrebbe in fondo risultare la storia di una “resistenza”, che non si dà solo come rivendicazione di una presenza che nel presente la donna può affermare per sé e per le “altre”.
Ala parte con la sua ricerca, agli albori degli anni Novanta, con una pittura di memoria lirica e divisionista, luminista, infatti essa costruisce il quadro con segni, virgole, puntini, macchie strutturate a grappolo, tocchi fitti e delicati, che si muovono in tutte le direzioni, creando luci che sfarinano la consistenza cromatica e creando emozioni di estrazione romantica, cariche di lirica nostalgia.
Gli artisti futuristi, alla ricerca di una realtà e di una verità dinamica, tipica dell’uomo nato dal progresso del mondo, si sono posti il problema di cercare nel cuore segreto e luminoso delle apparenze, una rete di corrispondenze sconosciute, in grado di determinare un diverso e nuovo orizzonte di senso.
Ala attraverso il colore--in molti casi virato su nuance di viola, di ocra e di bruni, di neri e di blu—cerca di restituirci le vibrazioni della luce, un’atmosfera densa, uno spazio sfarinato come uno schermo televisivo guasto, tutto però giocato su un’idea di astrazione capace di smaterializzare la materia pittorica, che sembra provenire da un monitor irraggiante ( “Preghiera” acrilico e olio su tela 1990; “La nube di Giove” acrilico su tela, 1990;“Natura grande “ acrilico su tela, 1991 ).
La natura quantistica della luce assume ora particolare rilievo, soprattutto quando si cerca di spiegare l’abilità dell’occhio nel distinguere i più minuti particolari ( si veda: “Luce del giorno dopo”, acrilico su tela 1991, “Luce e pietre”, acrilico su tela 1990; “Prima di sera, acrilico e olio su tela, 1991; “Cielo gremito grande” acrilico su tela, 1990). In gran parte di questi primi lavori è difficile stabilire con esattezza se un certo effetto visivo è dovuto a fattori fisici o psicologici. Dall’ala cromatico- luminista di Balla si è anche arrivati a Fontana, Castellani, a Newman, a Manzoni, a Tuttle. Infatti nel proseguo della sua ricerca Ala sente vicino l’impegno emotivo dell’espressionismo astratto, ponendosi così in posizione critica rispetto ai fattori dominanti dell’espressionismo, eliminando i significa ti simbolici, per riportare in superficie, adoperando tele applicate su supporti rigidi, e indicando soprattutto la presenza del vuoto, del non colore, e sottolineando il valore anche mistico della pittura (“ Verde” 1991-92; “Rosso” 1991-92 )
Ma da questa sorta di tabula rasa Ala è tornata a sentire le pulsioni di una luce vibrante realizzata attraverso una sorta di “scrittura automatica”, di estrazione surrealista, infatti in questo caso la mano,obbedendo ad un impulso prepotente, procede a gran velocità nello spazio, e attraverso questo magma di sismogrammi si porta alla superficie contenuti inconsci, rimossi , o dimenticati, liberandosi anche da tutta un’estetica del passato, mostrando che le possibilità espressive sono illimitate. In questi quadri l’artista ci fa sentire che l’Io è qualcosa di provvisorio, che muta quando si imbatte in un opposto che fa muro, alla ricerca di una posizione di equilibrio fra le mille certamente possibili. Così viene disegnata da Ala una vita che per lei diventa una somma di distruzioni, di rancori, degli altri Io spossessati, o di estenuazioni nello sforzo di conservare un Io. In questi lavori ( “Portacenere”1991- 1992;”Quattro” 1991-1992; “Legno” 1992) viene colto qualcosa, o meglio i frammenti, delle innumerevoli vie che in essi confluiscono: al posto della forma e della figura l’artista rende visibile nel suo disegno convulso la linea di forza delle cose, il loro animiamo, il loro movimento, il loro essere sfuggevoli e instabili, per disfarsi alla fine di ogni materialità, e immergersi in quel tormentato e fluido movimento che è stato tipico del barocco. La sensazione che proviamo è di trovarci di fronte a uno spazio di parole non scritte, e a un tempo fatto di un’infinità di battiti cardiaci. Si tratta di registrazioni di dati sensoriali, quasi un diario giorno per giorno delle proprie idee e anche dell’assenza di idee.
In tutto il lavoro di Ala troviamo almeno tre stadi, tre momenti di una poetica: il simbolismo, il pittoricismo, il materismo, che si muovono come tre ipotesi ben distinte.
A seguire i quadri “scritti”essa attiva una ricerca delicata e poetica sulla tela bianca, o grezza, o scura ( “Legno” 1992; “Specchio” 1992; “Casa” 1993; “tovaglia” 1993), cucita, arricciata, tesa, fessurata, o fermata da pezzi di corda. Si tratta di lavori che ci ricordano i rapporti tra l’architettura e le arti visive , soprattutto per le partiture che si scompongono e si ricompongono, dando vita a meccanismi formali e matrici, che tentano di catturare gli stimoli della vita per legarli allo spazio. La luce—che si avvicina e si allontana, si contrae e si dilata-- è catturata da queste strutture trappole, ma per manifestarsi ha bisogno di cose terrene, quindi gli schermi di stoffa—ovviamente trovata, riusata, e vissuta, infatti porta i segni del tempo, o della citazione poetica—moltiplicano i giochi di queste strutture che si allineano in orizzontale o verticale.
Un momento di grande efficacia espressiva, e congeniale ad Ala, è indubbiamente quello in cui l’uso delle stoffe a tramatura larga, griglie di fili, reti a maglia stretta, lacci di cotone o spago, di paglia, d’elastico, corde grandi o piccole, vecchi telai a vista, antichi mobili avvolti in fili come ragnatele inespugnabili, finestre aperte sul nulla, che ci chiudono in una tesa inquietudine, indicano il suo bisogno impellente di indagare la materia, una materia che non finge la pittura, ma spazializza gli eventi personali e collettivi.
Nella costante tensione a mediare una concezione dell’arte quale possibile referente di un modello ideale , ma sempre aderente a una situazione esistenziale autoreferente, Ala tende a definire il suo lavoro in maniera materiale e simbolica, certo non avulso alle vicende del tempo. Le sue tele verso il 2000-2001 si ricoprono di abrasioni di strappi, di tagli di buchi a scacchiera, di pezze che nascondono, e di corde che evidenziano. Niente di levigato, di astratto, di innaturale, tutto è vissuto e intenso, e partecipa all’esistenza delle cose, e delle materie consunte e piagate, comprendente l’arco dalla vita alla morte di un vedere quale segno e simbolo di disagio, di gioia e insieme di cultura . E’ la “parola” della materia a contare sul silenzio dolente dell’essere umano, essa è un processo continuo, reificante e pieno di effetti, essa è una forza segreta, la cui energia sopravvive all’anonimato. Mettendo la materia in scena sulla superficie pittorica Ala sottolinea la necessità di conoscerla, di farla parlare senza riserve. Le tele provenienti da camion, o le lenzuola, sono materiale degradato e svalutato, privo di valore, un “niente” che poi l’artista fa diventare “tutto”, un’esperienza dentro un pianeta inesplorato, la cui struttura non è rassicurante perché consumata e legata ( “Pelle”2002; “Fiori” 2002; “Nido”2002 ). In questo senso la tela non è una materia extra-artistica, ne una supermateria pittorica, piuttosto è ciò che è, passa e perisce nel suo essere, come un’esistenza qualunque. Direi che l’artista ama lanciarsi nella passione, come unica via d’uscita dalla scomparsa totale, sceglie lo spazio delle sue possibilità, là dove i fatti succedono fra le cose.
Quando guardiamo invece le opere dove escono in primo piano le griglie di corda, le gabbie di fili, i percorsi intorcinati delle corde grezze, colorate, bianche, allora ci accorgiamo che esistono due facce che si guardano, con la forza oscura e labirintica della vita sino all’esplosione dei colori,alle loro forme svagate d’arcobaleno, semplici ma inquietantemente simboliche.
Tele come ( “Blu”, “Nero”, “Terra”, “Bianco”, “Nebbia”, “Trasparente”, “Luce” ) ci dicono che il segno ( doppiato dalla materia) è tutto e tutto è il segno, ma tutto è anche relativo, perché conta l’associazione dei segni, un nuovo ordine spaziale irrazionale, che accoglie in sé la pregnanza dello spazio: dove le rette sono i piani di visione e le curve il segno dell’orizzonte, questo per studiare tutti gli spazi possibili, per cercare un equilibrio che non sempre è presente nella realtà. In fondo ci troviamo davanti a un flusso, ovvero a un movimento portato in moltissime direzioni, con percorsi articolati e disarticolati, per far scorrere un’energia ad alta velocità.
Se invece guardiamo a tutto questo in senso metaforico, o mitico, allora non possiamo fare a meno di pensare al labirinto (quindi anche la metropoli), a un groviglio, un viluppo caotico invivibile, un dedalo, un archetipo continuamente riprodotto e rinnovato, che ci ricorda anche il nostro cervello e quindi il pensiero, talora esso è la condizione necessaria affinché la mente e la mano siano produttive. In fondo il mito col tema del labirinto ci ha detto che il vivere è sempre stato difficile, problematico, complesso. Come avviene per Pollock , qualche decennio dopo, Ala, con i suoi nastri e le sue corde ci propone un caotico groviglio di linee e di colori ( “Musolo”, “Corallo””Argento” ) simili a sciabolate lanciate nello spazio. L’artista crea dedali che esistono nella loro forma di intrigo ingarbugliato, alchimie colorate che prescindono da qualsiasi legame con la realtà. Il delirio emerge dunque con forza grafica, sembra di assistere alla frantumazione dello spazio realistico in mille frammenti primari. Il labirinto si identifica con il puro caos di una entropia dipinta. Era Calvino che parlava del fascino del labirinto in quanto tale, e della tentazione di rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Ma potremmo aggiunger che anche quando si scopre l’uscita quest’ultima non è altro che l’ingresso in cui si entra in un nuovo labirinto, ancora più ampio e complesso del precedente. E’ Borges invece che nel racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano inventa un labirinto del tempo anzicchè dello spazio. Ma a ben guardare queste opere non può sfuggire la morfologia dei nodi, dei vincoli, che possono ricordare i lacci magici rivolti contro gli avversari, la corda simbolo si sventura, ma anche mezzo di prevenzione, di guarigione, di difesa, di conservazione della forza magico-vitale, i nodi diventano amuleti, le reti e i nodi stregano, ma pure premuniscono, la “legatura” porta in sé l’idea di forza di difesa e di attacco.
Dopo questo nutrito gruppo di opere la materia subisce una metamorfosi, si alleggerisce, diventa eterea, infatti entra in gioco l’uso, da parte di Ala, delle calze femminili si seta, di licra, naylon, che strappate, tagliate e ricomposte diventano la vera materia-pittura del suo ultimo e protratto lavoro.
In questo caso è fondante e cruciale il darsi in uno di forma e materia ( calza-forma) che produce un’eco nel linguaggio che ne dà conto Molto singolare e caratterizzante si presenta, nel lavoro di Ala, questa coestensione si dà come sostanza stessa del visibile e si dona allo sguardo in termini di passività Ma la sostanza del visibile è la materia e l’artista ne dipinge poi il battito, la grana , il colore, raffigurandola però allusivamente. La trama trasparente delle calze è istituita in “tempo reale” come pittura, e quindi quest’ultima viene mostrata, fenomenologicamente nella sua fase di inscrivibilità di un segno, di una traccia, di una vampa di colore. Ala, dunque, come ogni altro artista, mette al mondo il mondo come evento, fa di nuovo accadere il mondo riproponendo l’origine sensibile della sua visibilità, e lo fa in modo da farci sentire che questa decisione ha sconfito la possibilità del nulla. Gli strappi, i tagli, gli accidenti cui l’artista propone la sua materia, valgono in quanto apparizioni epifanie, primordiali manifestazioni del visibile, comunque ancora “in fieri”, come fosse permanentemente in via di farsi. Le calze, materia calda e spugnosa, morbida alla vista e al tatto, intese come objéts trouvés, scarto messo in scena, appaiono avvampate da una fiamma che lascia traccia di rossori, traccia di abbrutimenti che lasciano bagliori sulfurei (“Sottile”,”Marte”) sembrano secernere la propria forma. Lo scaglionamento degli spazi come colore e luminosità non intervengono in un secondo momento, non devono pensarsi come aggiuntivi e supplementari rispetto a qualcosa di già dato. L’impianto formale non è mai dato una volta per tutte, ma è sempre revocabile, la materia risulta quindi “sospesa” e sempre dialetticamente aperta. L’uso di questo materiali porta all’esito sorprendente dei colori aderenti, anzi intrisi, nel supporto che risultano falsi, perché virano o stingono, dichiarando la loro caducità, per quanto il colore sia in effetti una vibrazione psichica che emette sensazioni e stupori, anche quando è vicino al suo annientamento come avviene anche nel cinema (“Deserto rosso” di Antonioni). Le nuove iridi cromatiche di Ala ci avvolgono come un’aria liquefatta (“Spugna”, “Cristallo”, “Piume”), che è, e ha, un colore, perché comincia là dove finisce ogni colore naturale, e consuma la forma. Ala tratta le calze come una metafora del corpo, della sua carnalità, quindi rianima i materiali morti con cui lavora, li fa vivere , li intreccia, li sovrappone, li riduce a quinte di un palcoscenico invisibile, li fa sanguinare, disegna vele che stentano a prendere il vento, rivelando una sensibilità impressionista, che ci fa ricordare le “rose” di Renoir. Ciò significa mettere in primo piano il discorso sulla sessualità, una sessualità vissuta dai più puritanamente, in silenzio e in modo ipocrita. In questo caso l’artista non libera soltanto l’indumento in questione dai lacci del nascondimento, o del non nascondimento, infatti esso non veste più il corpo, ma è lui stesso vestito di sessualità. Lo strip-tease infatti mantiene sempre il suo fascino, che è quello di non arrivare mai a scoprire quel niente che resta dietro le vesti e dietro i veli. Questo linguaggio pittorico corrode le formule stereotipe dell’astrattismo e dell’arte figurativa per immettervi la poetizzazione, ed esaltazione, del residuo e dello scarto. Facendoli apparire come protagonisti l’artista li rende protagonisti di un rituale che rivendica valore e profondità alla materia, affrancandola dall’uso mimetico e figurale. Un altro problema consustanziale al lavoro della nostra artista è quello di attirare l’attenzione sull’”opacità” delle cose. La nostra sensibilità percettiva sembra attratta da ciò che oggi respinge la luce o l’assorbe, piuttosto che dalla trasparenza, certo ci interessa il colore che nasce dalla materia stessa per emersione, il colore che si adagia sulle cose o meglio sulle forme. L’irruzione del televisore e del computer ha cambiato il gusto cromatico, si preferisconoe i colori elettrici ed immateriali, quelli che sono luce essi stessi, ed esercitano seduzioni atmosferiche.
D’altra parte la luce è stata una delle grandi ossessioni della pittura, un traguardo, o un incubo,un’aspirazione o un tormento, comunque un enigma entro il quale fantasticare e perdersi.
Questi ultimi lavori di Ala che hanno radicalizzato ulteriormente la sperimentazione linguistica pur approdando a materiali inusuali come le fibre sintetiche, riesce ugualmente a conservare il valore pulviscolare dei pigmenti, la loro sensualità, ma aggiungendo alla composizione un sentore di maggior accennata trasparenza, maggior leggerezza, maggior assorbimento, ma soprattutto, in definitiva, maggiore luminosità.
In quadri come: “ Grano”2005, “ “Solo” 2005, “Marrone” 2004, “Rosso” 2005,lo spettro cromatico è aperto sia dal lato del rosso che da quello del violetto, e quest’ultimo è un colore invisibile,”magico”, che apre una prospettiva nel seno dell’oscurità, ma anche paurose penombre cosmiche azzurre e violette in eterna gestazione di nuovi mondi.
L’antica sapienza gnostica ci ha insegnato—e in queste opere si sente a pelle—che la luce bianca è quella degli dei, la rossa dei demoni, la gialla dei lemuri, mentre l’azzurra è degli uomini e quella nera degli esseri infernali, secondo un progressivo “oscurarsi” materico e spirituale. A questa “simbolizzazione di genere” si affianca quella degli elementi per cui alla luce bianca sta la purificazione dell’elemento acqua, a quella rossa del fuoco, a quella gialla della terra, a quella verde del vento, mentre quella turchina , la prima ad apparire nell’arcobaleno, indicherebbe la conoscenza sublimata dall’esistenzialità. Tutte insieme evocherebbero i gradi successivi della conoscenza. L’arcobaleno diventa così metafora significante dell’armonia tra generare e concepire, simbolo dell’unità interiore, tra cielo e terra, tra maschile e femminile. A questi dobbiamo aggiunger alcuni quadri creati con calze bianche, monacali, che dilagano per tutta la superficie ( “Rossetto” e “Maschile”) che esasperano il materiale, immettendovi un’esaltazione sacrale, in senso laico, quindi portando il molteplice del quotidiano a rimarginare le ferite, donando al lavoro una sensibilità e una delicatezza d’espressione immaginale al di là del reale, un nitore che echeggia gli antichi conflitti delle materie passate dalla nigredo all’albedo, dalla morte alla vita.
Questa nuova idea di iride annuncia fra chi sale e chi cade, essa ci avvolge come un’aria liquefatta, poiché il colore comincia là dove finisce ogni colore naturale e alla consumazione di ogni forma.
Marisa Vescovo
PS. Il lettore troverà che in molti casi i titoli dei lavori non corrispondono a ciò che si vede sulla superficie, l’autrice infatti considera questo un modo per annettere alla sua opera un valore aggiunto che nasce dalla sua emotività istantanea.
Amo i colori,tempi di un anelito
Inquieto, irremovibile, vitale,
spiegazione umilissima e sovrana
dei cosmici “perché” del mio respiro.
A.Merini
Oggi ci si può domandare se i cambiamenti nella nostra cultura contemporanea confermino la validità del modello della nevrosi, del malessere, che domina la cultura del nostro tempo abbia prodotto altre configurazioni nella psiche degli uomini. Secondo questa prospettiva, al di là dei rapporti della cultura del mondo moderno con i problemi esistenziali del presente, abbiamo a che fare col capovolgimento della stessa concezione del nostro modo di pensare, della sua genesi, dei suoi limiti, e del suo funzionamento.
La compresenza contraddittoria di un nuovo spazio di libertà e della riduzione del soggetto ad un individuo parziale, unidimesionale, non è senza conseguenze nella strutturazione della psiche e specialmente sull’attività creativa, oggi sempre più complessa. Tale attività è essenziale se si concede che essa consente di elaborare la dispersione del nostro vivere quotidiano, la sua eterogeneità, e lo scarto fra esperienza del mondo interno e quella del mondo circostante. La cultura dell’urgenza e dell’immediatezza interroga lo statuto della temporalità nel chiaro disagio del mondo postmoderno. Il rapporto con il tempo privilegia il qui e ora:il tempo breve prevale sul tempo lungo, come lo zapping e il nomadismo prevalgono sulla continuità. Tutto vive di attualità, quindi di moda e di omologazione, perché la certezza che l’avvenire sia in decidibile è l’unica certezza. Molti nostri progetti oggi non sono progetti, ma scenari di uscita dal marasma, nell’immaginario.
L’artista deve quindi chiamare a raccolta tutte le forze in grado di contenere tali minacce, in particolare relazionandosi agli altri e cercando di portare all’esterno le sue pulsioni più intime. Quando quest’opera di contenimento fallisce esce allo scoperto l’aggressività che sta dentro ciascun individuo. Sappiamo bene che la passione per la verità, per l’etica, per il sapere, per l’arte sono una guida preziosa all’integrità e al rispetto di sé stessi, e quindi sana in sé, in quanto mitigatrice del disagio della civiltà, positiva nell’avvicinarci il più possibile all’enigmatica realtà che ci circonda. Per sfuggire agli orizzonti ristretti in cui sarebbe confinata la nostra vita, per renderla più complessa e salda, dobbiamo intrecciarla e ricombinarla con quella di altri, servirci dell’immaginazione quale antidoto alla povertà di ogni esperienza singola. Quindi sono i colori, le emozioni, la poesia, che ci stanano dalla chiusura in noi stessi, attivano germi che sono in noi in forma latente, spalancano nuovi mondi, inoculano idee, passioni, sensazioni, che altrimenti resterebbero precluse, e da cui amiamo lasciarci contagiare.
E’ questo certamente il caso di Ala. Questa artista sa che a differenza delle banali reveries, la forza creatrice plasma figure che non rappresentano il mero rovescio egoistico delle nostre carenze e neppure i pallidi fantasmi di altre vite desiderabili, evocati dalla vanità ferita, o dal rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato. La necessità di portare se stessi su una superficie è una realtà non sempre consolatoria, anzi lascia spesso degli ematomi, tende a portare fuori dal mondo, ma forma invece il contrappunto di tutto questo, riconfigura attraverso più alternative i piani della vita, procura altre vite parallele. Certo ora il transito dai desideri biografici alla realtà appare più praticabile e le vite immaginate più facili da ricondurre nella creatività. La salvezza per l’artista non consiste nel rifiutare l’esperienza dell’irrealtà, o nel cercare l’immunità dalla fantasia o dai mezzi di comunicazione di massa.
Ala porta in scena dunque la sua diversità, che non consiste in attributi antichi, quai silenzio, fisicità, passività concettuale e immaginativa, ma consiste in valori che devono ora essere riconosciuti:la sua immagine dionisiaca, che è stata figura sensibile dell’alterità in gran parte dell’iconografia del passato, ma che oggi produce “segni” aderenti alla propria verità intima e creativa. Se si volesse fermare sulla carta la storia della creatività femminile, potrebbe in fondo risultare la storia di una “resistenza”, che non si dà solo come rivendicazione di una presenza che nel presente la donna può affermare per sé e per le “altre”.
Ala parte con la sua ricerca, agli albori degli anni Novanta, con una pittura di memoria lirica e divisionista, luminista, infatti essa costruisce il quadro con segni, virgole, puntini, macchie strutturate a grappolo, tocchi fitti e delicati, che si muovono in tutte le direzioni, creando luci che sfarinano la consistenza cromatica e creando emozioni di estrazione romantica, cariche di lirica nostalgia.
Gli artisti futuristi, alla ricerca di una realtà e di una verità dinamica, tipica dell’uomo nato dal progresso del mondo, si sono posti il problema di cercare nel cuore segreto e luminoso delle apparenze, una rete di corrispondenze sconosciute, in grado di determinare un diverso e nuovo orizzonte di senso.
Ala attraverso il colore--in molti casi virato su nuance di viola, di ocra e di bruni, di neri e di blu—cerca di restituirci le vibrazioni della luce, un’atmosfera densa, uno spazio sfarinato come uno schermo televisivo guasto, tutto però giocato su un’idea di astrazione capace di smaterializzare la materia pittorica, che sembra provenire da un monitor irraggiante ( “Preghiera” acrilico e olio su tela 1990; “La nube di Giove” acrilico su tela, 1990;“Natura grande “ acrilico su tela, 1991 ).
La natura quantistica della luce assume ora particolare rilievo, soprattutto quando si cerca di spiegare l’abilità dell’occhio nel distinguere i più minuti particolari ( si veda: “Luce del giorno dopo”, acrilico su tela 1991, “Luce e pietre”, acrilico su tela 1990; “Prima di sera, acrilico e olio su tela, 1991; “Cielo gremito grande” acrilico su tela, 1990). In gran parte di questi primi lavori è difficile stabilire con esattezza se un certo effetto visivo è dovuto a fattori fisici o psicologici. Dall’ala cromatico- luminista di Balla si è anche arrivati a Fontana, Castellani, a Newman, a Manzoni, a Tuttle. Infatti nel proseguo della sua ricerca Ala sente vicino l’impegno emotivo dell’espressionismo astratto, ponendosi così in posizione critica rispetto ai fattori dominanti dell’espressionismo, eliminando i significa ti simbolici, per riportare in superficie, adoperando tele applicate su supporti rigidi, e indicando soprattutto la presenza del vuoto, del non colore, e sottolineando il valore anche mistico della pittura (“ Verde” 1991-92; “Rosso” 1991-92 )
Ma da questa sorta di tabula rasa Ala è tornata a sentire le pulsioni di una luce vibrante realizzata attraverso una sorta di “scrittura automatica”, di estrazione surrealista, infatti in questo caso la mano,obbedendo ad un impulso prepotente, procede a gran velocità nello spazio, e attraverso questo magma di sismogrammi si porta alla superficie contenuti inconsci, rimossi , o dimenticati, liberandosi anche da tutta un’estetica del passato, mostrando che le possibilità espressive sono illimitate. In questi quadri l’artista ci fa sentire che l’Io è qualcosa di provvisorio, che muta quando si imbatte in un opposto che fa muro, alla ricerca di una posizione di equilibrio fra le mille certamente possibili. Così viene disegnata da Ala una vita che per lei diventa una somma di distruzioni, di rancori, degli altri Io spossessati, o di estenuazioni nello sforzo di conservare un Io. In questi lavori ( “Portacenere”1991- 1992;”Quattro” 1991-1992; “Legno” 1992) viene colto qualcosa, o meglio i frammenti, delle innumerevoli vie che in essi confluiscono: al posto della forma e della figura l’artista rende visibile nel suo disegno convulso la linea di forza delle cose, il loro animiamo, il loro movimento, il loro essere sfuggevoli e instabili, per disfarsi alla fine di ogni materialità, e immergersi in quel tormentato e fluido movimento che è stato tipico del barocco. La sensazione che proviamo è di trovarci di fronte a uno spazio di parole non scritte, e a un tempo fatto di un’infinità di battiti cardiaci. Si tratta di registrazioni di dati sensoriali, quasi un diario giorno per giorno delle proprie idee e anche dell’assenza di idee.
In tutto il lavoro di Ala troviamo almeno tre stadi, tre momenti di una poetica: il simbolismo, il pittoricismo, il materismo, che si muovono come tre ipotesi ben distinte.
A seguire i quadri “scritti”essa attiva una ricerca delicata e poetica sulla tela bianca, o grezza, o scura ( “Legno” 1992; “Specchio” 1992; “Casa” 1993; “tovaglia” 1993), cucita, arricciata, tesa, fessurata, o fermata da pezzi di corda. Si tratta di lavori che ci ricordano i rapporti tra l’architettura e le arti visive , soprattutto per le partiture che si scompongono e si ricompongono, dando vita a meccanismi formali e matrici, che tentano di catturare gli stimoli della vita per legarli allo spazio. La luce—che si avvicina e si allontana, si contrae e si dilata-- è catturata da queste strutture trappole, ma per manifestarsi ha bisogno di cose terrene, quindi gli schermi di stoffa—ovviamente trovata, riusata, e vissuta, infatti porta i segni del tempo, o della citazione poetica—moltiplicano i giochi di queste strutture che si allineano in orizzontale o verticale.
Un momento di grande efficacia espressiva, e congeniale ad Ala, è indubbiamente quello in cui l’uso delle stoffe a tramatura larga, griglie di fili, reti a maglia stretta, lacci di cotone o spago, di paglia, d’elastico, corde grandi o piccole, vecchi telai a vista, antichi mobili avvolti in fili come ragnatele inespugnabili, finestre aperte sul nulla, che ci chiudono in una tesa inquietudine, indicano il suo bisogno impellente di indagare la materia, una materia che non finge la pittura, ma spazializza gli eventi personali e collettivi.
Nella costante tensione a mediare una concezione dell’arte quale possibile referente di un modello ideale , ma sempre aderente a una situazione esistenziale autoreferente, Ala tende a definire il suo lavoro in maniera materiale e simbolica, certo non avulso alle vicende del tempo. Le sue tele verso il 2000-2001 si ricoprono di abrasioni di strappi, di tagli di buchi a scacchiera, di pezze che nascondono, e di corde che evidenziano. Niente di levigato, di astratto, di innaturale, tutto è vissuto e intenso, e partecipa all’esistenza delle cose, e delle materie consunte e piagate, comprendente l’arco dalla vita alla morte di un vedere quale segno e simbolo di disagio, di gioia e insieme di cultura . E’ la “parola” della materia a contare sul silenzio dolente dell’essere umano, essa è un processo continuo, reificante e pieno di effetti, essa è una forza segreta, la cui energia sopravvive all’anonimato. Mettendo la materia in scena sulla superficie pittorica Ala sottolinea la necessità di conoscerla, di farla parlare senza riserve. Le tele provenienti da camion, o le lenzuola, sono materiale degradato e svalutato, privo di valore, un “niente” che poi l’artista fa diventare “tutto”, un’esperienza dentro un pianeta inesplorato, la cui struttura non è rassicurante perché consumata e legata ( “Pelle”2002; “Fiori” 2002; “Nido”2002 ). In questo senso la tela non è una materia extra-artistica, ne una supermateria pittorica, piuttosto è ciò che è, passa e perisce nel suo essere, come un’esistenza qualunque. Direi che l’artista ama lanciarsi nella passione, come unica via d’uscita dalla scomparsa totale, sceglie lo spazio delle sue possibilità, là dove i fatti succedono fra le cose.
Quando guardiamo invece le opere dove escono in primo piano le griglie di corda, le gabbie di fili, i percorsi intorcinati delle corde grezze, colorate, bianche, allora ci accorgiamo che esistono due facce che si guardano, con la forza oscura e labirintica della vita sino all’esplosione dei colori,alle loro forme svagate d’arcobaleno, semplici ma inquietantemente simboliche.
Tele come ( “Blu”, “Nero”, “Terra”, “Bianco”, “Nebbia”, “Trasparente”, “Luce” ) ci dicono che il segno ( doppiato dalla materia) è tutto e tutto è il segno, ma tutto è anche relativo, perché conta l’associazione dei segni, un nuovo ordine spaziale irrazionale, che accoglie in sé la pregnanza dello spazio: dove le rette sono i piani di visione e le curve il segno dell’orizzonte, questo per studiare tutti gli spazi possibili, per cercare un equilibrio che non sempre è presente nella realtà. In fondo ci troviamo davanti a un flusso, ovvero a un movimento portato in moltissime direzioni, con percorsi articolati e disarticolati, per far scorrere un’energia ad alta velocità.
Se invece guardiamo a tutto questo in senso metaforico, o mitico, allora non possiamo fare a meno di pensare al labirinto (quindi anche la metropoli), a un groviglio, un viluppo caotico invivibile, un dedalo, un archetipo continuamente riprodotto e rinnovato, che ci ricorda anche il nostro cervello e quindi il pensiero, talora esso è la condizione necessaria affinché la mente e la mano siano produttive. In fondo il mito col tema del labirinto ci ha detto che il vivere è sempre stato difficile, problematico, complesso. Come avviene per Pollock , qualche decennio dopo, Ala, con i suoi nastri e le sue corde ci propone un caotico groviglio di linee e di colori ( “Musolo”, “Corallo””Argento” ) simili a sciabolate lanciate nello spazio. L’artista crea dedali che esistono nella loro forma di intrigo ingarbugliato, alchimie colorate che prescindono da qualsiasi legame con la realtà. Il delirio emerge dunque con forza grafica, sembra di assistere alla frantumazione dello spazio realistico in mille frammenti primari. Il labirinto si identifica con il puro caos di una entropia dipinta. Era Calvino che parlava del fascino del labirinto in quanto tale, e della tentazione di rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Ma potremmo aggiunger che anche quando si scopre l’uscita quest’ultima non è altro che l’ingresso in cui si entra in un nuovo labirinto, ancora più ampio e complesso del precedente. E’ Borges invece che nel racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano inventa un labirinto del tempo anzicchè dello spazio. Ma a ben guardare queste opere non può sfuggire la morfologia dei nodi, dei vincoli, che possono ricordare i lacci magici rivolti contro gli avversari, la corda simbolo si sventura, ma anche mezzo di prevenzione, di guarigione, di difesa, di conservazione della forza magico-vitale, i nodi diventano amuleti, le reti e i nodi stregano, ma pure premuniscono, la “legatura” porta in sé l’idea di forza di difesa e di attacco.
Dopo questo nutrito gruppo di opere la materia subisce una metamorfosi, si alleggerisce, diventa eterea, infatti entra in gioco l’uso, da parte di Ala, delle calze femminili si seta, di licra, naylon, che strappate, tagliate e ricomposte diventano la vera materia-pittura del suo ultimo e protratto lavoro.
In questo caso è fondante e cruciale il darsi in uno di forma e materia ( calza-forma) che produce un’eco nel linguaggio che ne dà conto Molto singolare e caratterizzante si presenta, nel lavoro di Ala, questa coestensione si dà come sostanza stessa del visibile e si dona allo sguardo in termini di passività Ma la sostanza del visibile è la materia e l’artista ne dipinge poi il battito, la grana , il colore, raffigurandola però allusivamente. La trama trasparente delle calze è istituita in “tempo reale” come pittura, e quindi quest’ultima viene mostrata, fenomenologicamente nella sua fase di inscrivibilità di un segno, di una traccia, di una vampa di colore. Ala, dunque, come ogni altro artista, mette al mondo il mondo come evento, fa di nuovo accadere il mondo riproponendo l’origine sensibile della sua visibilità, e lo fa in modo da farci sentire che questa decisione ha sconfito la possibilità del nulla. Gli strappi, i tagli, gli accidenti cui l’artista propone la sua materia, valgono in quanto apparizioni epifanie, primordiali manifestazioni del visibile, comunque ancora “in fieri”, come fosse permanentemente in via di farsi. Le calze, materia calda e spugnosa, morbida alla vista e al tatto, intese come objéts trouvés, scarto messo in scena, appaiono avvampate da una fiamma che lascia traccia di rossori, traccia di abbrutimenti che lasciano bagliori sulfurei (“Sottile”,”Marte”) sembrano secernere la propria forma. Lo scaglionamento degli spazi come colore e luminosità non intervengono in un secondo momento, non devono pensarsi come aggiuntivi e supplementari rispetto a qualcosa di già dato. L’impianto formale non è mai dato una volta per tutte, ma è sempre revocabile, la materia risulta quindi “sospesa” e sempre dialetticamente aperta. L’uso di questo materiali porta all’esito sorprendente dei colori aderenti, anzi intrisi, nel supporto che risultano falsi, perché virano o stingono, dichiarando la loro caducità, per quanto il colore sia in effetti una vibrazione psichica che emette sensazioni e stupori, anche quando è vicino al suo annientamento come avviene anche nel cinema (“Deserto rosso” di Antonioni). Le nuove iridi cromatiche di Ala ci avvolgono come un’aria liquefatta (“Spugna”, “Cristallo”, “Piume”), che è, e ha, un colore, perché comincia là dove finisce ogni colore naturale, e consuma la forma. Ala tratta le calze come una metafora del corpo, della sua carnalità, quindi rianima i materiali morti con cui lavora, li fa vivere , li intreccia, li sovrappone, li riduce a quinte di un palcoscenico invisibile, li fa sanguinare, disegna vele che stentano a prendere il vento, rivelando una sensibilità impressionista, che ci fa ricordare le “rose” di Renoir. Ciò significa mettere in primo piano il discorso sulla sessualità, una sessualità vissuta dai più puritanamente, in silenzio e in modo ipocrita. In questo caso l’artista non libera soltanto l’indumento in questione dai lacci del nascondimento, o del non nascondimento, infatti esso non veste più il corpo, ma è lui stesso vestito di sessualità. Lo strip-tease infatti mantiene sempre il suo fascino, che è quello di non arrivare mai a scoprire quel niente che resta dietro le vesti e dietro i veli. Questo linguaggio pittorico corrode le formule stereotipe dell’astrattismo e dell’arte figurativa per immettervi la poetizzazione, ed esaltazione, del residuo e dello scarto. Facendoli apparire come protagonisti l’artista li rende protagonisti di un rituale che rivendica valore e profondità alla materia, affrancandola dall’uso mimetico e figurale. Un altro problema consustanziale al lavoro della nostra artista è quello di attirare l’attenzione sull’”opacità” delle cose. La nostra sensibilità percettiva sembra attratta da ciò che oggi respinge la luce o l’assorbe, piuttosto che dalla trasparenza, certo ci interessa il colore che nasce dalla materia stessa per emersione, il colore che si adagia sulle cose o meglio sulle forme. L’irruzione del televisore e del computer ha cambiato il gusto cromatico, si preferisconoe i colori elettrici ed immateriali, quelli che sono luce essi stessi, ed esercitano seduzioni atmosferiche.
D’altra parte la luce è stata una delle grandi ossessioni della pittura, un traguardo, o un incubo,un’aspirazione o un tormento, comunque un enigma entro il quale fantasticare e perdersi.
Questi ultimi lavori di Ala che hanno radicalizzato ulteriormente la sperimentazione linguistica pur approdando a materiali inusuali come le fibre sintetiche, riesce ugualmente a conservare il valore pulviscolare dei pigmenti, la loro sensualità, ma aggiungendo alla composizione un sentore di maggior accennata trasparenza, maggior leggerezza, maggior assorbimento, ma soprattutto, in definitiva, maggiore luminosità.
In quadri come: “ Grano”2005, “ “Solo” 2005, “Marrone” 2004, “Rosso” 2005,lo spettro cromatico è aperto sia dal lato del rosso che da quello del violetto, e quest’ultimo è un colore invisibile,”magico”, che apre una prospettiva nel seno dell’oscurità, ma anche paurose penombre cosmiche azzurre e violette in eterna gestazione di nuovi mondi.
L’antica sapienza gnostica ci ha insegnato—e in queste opere si sente a pelle—che la luce bianca è quella degli dei, la rossa dei demoni, la gialla dei lemuri, mentre l’azzurra è degli uomini e quella nera degli esseri infernali, secondo un progressivo “oscurarsi” materico e spirituale. A questa “simbolizzazione di genere” si affianca quella degli elementi per cui alla luce bianca sta la purificazione dell’elemento acqua, a quella rossa del fuoco, a quella gialla della terra, a quella verde del vento, mentre quella turchina , la prima ad apparire nell’arcobaleno, indicherebbe la conoscenza sublimata dall’esistenzialità. Tutte insieme evocherebbero i gradi successivi della conoscenza. L’arcobaleno diventa così metafora significante dell’armonia tra generare e concepire, simbolo dell’unità interiore, tra cielo e terra, tra maschile e femminile. A questi dobbiamo aggiunger alcuni quadri creati con calze bianche, monacali, che dilagano per tutta la superficie ( “Rossetto” e “Maschile”) che esasperano il materiale, immettendovi un’esaltazione sacrale, in senso laico, quindi portando il molteplice del quotidiano a rimarginare le ferite, donando al lavoro una sensibilità e una delicatezza d’espressione immaginale al di là del reale, un nitore che echeggia gli antichi conflitti delle materie passate dalla nigredo all’albedo, dalla morte alla vita.
Questa nuova idea di iride annuncia fra chi sale e chi cade, essa ci avvolge come un’aria liquefatta, poiché il colore comincia là dove finisce ogni colore naturale e alla consumazione di ogni forma.
Marisa Vescovo
PS. Il lettore troverà che in molti casi i titoli dei lavori non corrispondono a ciò che si vede sulla superficie, l’autrice infatti considera questo un modo per annettere alla sua opera un valore aggiunto che nasce dalla sua emotività istantanea.
10
giugno 2006
Isanti Ala – Il doppio senso delle origini
Dal 10 giugno al 09 luglio 2006
arte contemporanea
Location
FORTEZZA CASTELFRANCO
Finale Ligure, Via Generale Enrico Caviglia, (Savona)
Finale Ligure, Via Generale Enrico Caviglia, (Savona)
Orario di apertura
tutti i giorni 9.30 – 13.00 e 15.00 – 19.00
Vernissage
10 Giugno 2006, ore 18,30
Autore
Curatore