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Elio Marchegiani – Linee di produzione 1957–2006
Sperimentatore irriverente di tecniche, materiali e linguaggi, Elio Marchegiani è da oltre quarant’anni una delle figure più eccentriche e trasversali nel panorama dell’arte italiana
Comunicato stampa
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Sperimentatore irriverente di tecniche, materiali e linguaggi, Elio Marchegiani è da oltre quarant’anni una delle figure più eccentriche e trasversali nel panorama dell’arte italiana. Nato a Siracusa nel 1929, ma presto trasferitosi con la famiglia a Livorno, Marchegiani ha esordito alla fine degli anni Cinquanta con una produzione prossima all’informale dove il ruolo prevalente era affidato al segno grafico e alla costruzione del dipinto per strutture complesse e articolate in cui già traspare l’interesse dell’artista per la dimensione tecnologica. La prima maturazione avviene all’inizio degli anni Sessanta, nel clima oggettuale del New Dada, del Nouevau Réalisme e della Pop Art, interpretato inizialmente attraverso una serie di opere a fondo oro e argento che inglobano oggetti e indumenti (“dadaAdada”, 1963; “40° gradi sopra Tristan Zarà”, 1964; “Gold jeans”, 1964) senza rinunciare alla seduzione anche visiva della materia. A differenza di quanto accade con le nuove mitologie del contemporaneo, già in questi anni l’attenzione è rivolta allo spiazzamento linguistico, all’assemblaggio di elementi quotidiani in una nuova e sorprendente configurazione d’immagine, alla elaborazione di complessi meccanismi tecnici capaci di coinvolgere direttamente lo spettatore nel significato dell’opera. Così nell’Occhio di Dio (1964) un fanale di automobile è incorporato in una struttura triangolare come nella iconografia antica, e grazie a una cellula fotoelettrica si accende appena il visitatore si avvicina; in Can can censura le immagini delle danzatrici di inizio secolo e della pubblicità dell’epoca sono abbinate ad una serratura che, azionata, fa risuonare le celebri note del ballo della belle époque esplicitando la simbologia a carattere sessuale; e in “Omaggio a Lucio Fontana” (1965) il celebre taglio diventa una cerniera lampo circondata da immagini di rotocalco che, aperta, accende una luce rossa.
Proprio la dimensione luminosa propria dell’arte cinetica offre, alla metà degli anni Sessanta, l’occasione per una serie di lavori dove la programmazione degli effetti di luce diventa l’occasione per riflettere sulla complessa stratificazione di immagini e significati della storia dell’arte: nel “Progetto Mercury” (1965 – 66) una figura umana fluttua all’interno di una sfera di vetro, cambiando colore e suono ai tasti pigiati dal visitatore, aggiornando la figura sfuggente dell’antico dio greco delle trasmutazioni; nella “Minerva” (1967, ora alla GNAM di Roma), un manichino collocato all’interno di una teca semitrasparente vede dissolvere la sua immagine al mutare degli effetti luminosi, e nell’ironico autoritratto “Helios”, dello stesso anno, dell’artista rimane soltanto la montatura degli occhiali mentre la sua fisionomia scompare interrogativamente con l’alternanza delle luci colorate. A proposito di queste opere, in occasione del conferimento del premio alla Biennale di San Marino del 1967, Giulio Carlo Argan scrisse mettendone in risalto il carattere fortemente innovatore “Indubbiamente Marchegiani presenta delle opere che non si costituiscono in sé come oggetto artistico, ma come stimolo, come emittente di stimoli per lo spettatore: apre pertanto il discorso ad una integrazione di fatti visivi, cinetici e sonori”. Sono questi gli anni in cui Marchegiani partecipa al fiorentino Gruppo 70 in cui è centrale l’interesse per la tecnologia.
L’installazione realizzata nel 1969 alla Galleria Apolinnaire di Milano “9000” mosche vive”, in cui Marchegiani dispose gli insetti intrappolandoli sotto centinaia di bicchieri, apre anche per l’artista di origine siciliane la stagione delle azioni estetiche dal forte contenuto sociale che caratterizza gli anni intorno al ’68., che nel periodo immediatamente successivo lo vedrà protagoniste di clamorose iniziative: ne “Il cieco” (1971) si traveste da non vedente per le strade cittadine, accompagnato da riproduzioni di Dürer e Leonardo alludendo alla “cecità” dell’arte; ne “Il sedicente” inscena, con tanto di denuncia, il furto dei propri lavori. Contemporaneamente, prosegue quella indagine sui supporti mai interrotta dalle opere in oro e argento: scopre la proprietà della gomma, tirata entro le cornici di telai ovali come specchi o rettangolari come dipinti, che percosse emettono suoni ancestrali; e giunge, nel 1973, a quelle “Grammature di colore” che rimangono una sua personalissima sigla formale. Pensate come una riflessione sulla pittura da una angolazione concettuale, le “grammature” – su intonaco o sul lavagna – distillano, in una sequenza di aste verticali replicabili in milioni di combinazioni numeriche, i colori propri della grande tradizione italiana dell’affresco, in particolare quella di Piero della Francesca e di Masaccio. Nulla di più lontano, in queste opere che confermano la ricerca plurale sulle tecniche che accompagna tutto il lavoro di Marchegiani, di quel “ritorno alla pittura” che caratterizza l’arte non soltanto italiana dalla fine degli anni Settanta, così come l’ipotesi figurativa sottesa alle Sinopie iniziate alcuni anni dopo rifacendo la grana della pittura sull’intonaco di fatto nega, con splendida ambiguità formale, ogni possibile fraintendimento sulla attualità della pittura. Ha scritto a questo proposito Gillo Dorfles: “E credo che l’aver saputo dire ‘basta’ di fronte al quadro – supporto senza altra aggiunta che qualche sottile asta talvolta presente sulle superfici dipinte, sia stato, da parte di una mente sveglia e alacre come quella di Marchegiani, una giudiziosa rinuncia”.
Questa postazione concettuale di indagine linguistica sui codici della storia dell’arte della loro ricezione nel presente – codici che è possibile e anzi necessario indagare, decostruire, verificare – è evidente ancora nei grandi ritratti di poche linee fisionomiche di Picasso o Duchamp, non fissati al supporto di lavagna così che un semplice gesto potrebbe cancellarli, o ancora nella “Grande scacchiera”, l’emblema per eccellenza proprio di Duchamp, ribaltata a parete come una superficie silenziosa ed enigmatica.
A partire dagli anni Ottanta il lavoro di assemblaggio di objet trouvè (ma in realtà ogni volta cercati con tenacia, ostinazione e precisione chirurgica) ha ritrovato una sua nuova centralità nel percorso di Marchegiani. Maschere antigas, scarabei, dentature di squali, farfalle imbalsamate, diventano di volta in volta parti di un discorso che ha per tema una critica feroce del potere, delle sue forme e dei linguaggi.
Proprio la dimensione luminosa propria dell’arte cinetica offre, alla metà degli anni Sessanta, l’occasione per una serie di lavori dove la programmazione degli effetti di luce diventa l’occasione per riflettere sulla complessa stratificazione di immagini e significati della storia dell’arte: nel “Progetto Mercury” (1965 – 66) una figura umana fluttua all’interno di una sfera di vetro, cambiando colore e suono ai tasti pigiati dal visitatore, aggiornando la figura sfuggente dell’antico dio greco delle trasmutazioni; nella “Minerva” (1967, ora alla GNAM di Roma), un manichino collocato all’interno di una teca semitrasparente vede dissolvere la sua immagine al mutare degli effetti luminosi, e nell’ironico autoritratto “Helios”, dello stesso anno, dell’artista rimane soltanto la montatura degli occhiali mentre la sua fisionomia scompare interrogativamente con l’alternanza delle luci colorate. A proposito di queste opere, in occasione del conferimento del premio alla Biennale di San Marino del 1967, Giulio Carlo Argan scrisse mettendone in risalto il carattere fortemente innovatore “Indubbiamente Marchegiani presenta delle opere che non si costituiscono in sé come oggetto artistico, ma come stimolo, come emittente di stimoli per lo spettatore: apre pertanto il discorso ad una integrazione di fatti visivi, cinetici e sonori”. Sono questi gli anni in cui Marchegiani partecipa al fiorentino Gruppo 70 in cui è centrale l’interesse per la tecnologia.
L’installazione realizzata nel 1969 alla Galleria Apolinnaire di Milano “9000” mosche vive”, in cui Marchegiani dispose gli insetti intrappolandoli sotto centinaia di bicchieri, apre anche per l’artista di origine siciliane la stagione delle azioni estetiche dal forte contenuto sociale che caratterizza gli anni intorno al ’68., che nel periodo immediatamente successivo lo vedrà protagoniste di clamorose iniziative: ne “Il cieco” (1971) si traveste da non vedente per le strade cittadine, accompagnato da riproduzioni di Dürer e Leonardo alludendo alla “cecità” dell’arte; ne “Il sedicente” inscena, con tanto di denuncia, il furto dei propri lavori. Contemporaneamente, prosegue quella indagine sui supporti mai interrotta dalle opere in oro e argento: scopre la proprietà della gomma, tirata entro le cornici di telai ovali come specchi o rettangolari come dipinti, che percosse emettono suoni ancestrali; e giunge, nel 1973, a quelle “Grammature di colore” che rimangono una sua personalissima sigla formale. Pensate come una riflessione sulla pittura da una angolazione concettuale, le “grammature” – su intonaco o sul lavagna – distillano, in una sequenza di aste verticali replicabili in milioni di combinazioni numeriche, i colori propri della grande tradizione italiana dell’affresco, in particolare quella di Piero della Francesca e di Masaccio. Nulla di più lontano, in queste opere che confermano la ricerca plurale sulle tecniche che accompagna tutto il lavoro di Marchegiani, di quel “ritorno alla pittura” che caratterizza l’arte non soltanto italiana dalla fine degli anni Settanta, così come l’ipotesi figurativa sottesa alle Sinopie iniziate alcuni anni dopo rifacendo la grana della pittura sull’intonaco di fatto nega, con splendida ambiguità formale, ogni possibile fraintendimento sulla attualità della pittura. Ha scritto a questo proposito Gillo Dorfles: “E credo che l’aver saputo dire ‘basta’ di fronte al quadro – supporto senza altra aggiunta che qualche sottile asta talvolta presente sulle superfici dipinte, sia stato, da parte di una mente sveglia e alacre come quella di Marchegiani, una giudiziosa rinuncia”.
Questa postazione concettuale di indagine linguistica sui codici della storia dell’arte della loro ricezione nel presente – codici che è possibile e anzi necessario indagare, decostruire, verificare – è evidente ancora nei grandi ritratti di poche linee fisionomiche di Picasso o Duchamp, non fissati al supporto di lavagna così che un semplice gesto potrebbe cancellarli, o ancora nella “Grande scacchiera”, l’emblema per eccellenza proprio di Duchamp, ribaltata a parete come una superficie silenziosa ed enigmatica.
A partire dagli anni Ottanta il lavoro di assemblaggio di objet trouvè (ma in realtà ogni volta cercati con tenacia, ostinazione e precisione chirurgica) ha ritrovato una sua nuova centralità nel percorso di Marchegiani. Maschere antigas, scarabei, dentature di squali, farfalle imbalsamate, diventano di volta in volta parti di un discorso che ha per tema una critica feroce del potere, delle sue forme e dei linguaggi.
23
marzo 2007
Elio Marchegiani – Linee di produzione 1957–2006
Dal 23 marzo al 24 giugno 2007
arte contemporanea
Location
PINACOTECA DI MARSALA – CONVENTO DEL CARMINE
Marsala, Piazza Del Carmine, (Trapani)
Marsala, Piazza Del Carmine, (Trapani)
Orario di apertura
10.00 –13.00; 18.00 – 20.00 Chiuso lunedì
Vernissage
23 Marzo 2007, su invito
Ufficio stampa
ROSI FONTANA
Autore
Curatore