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Piero Toresella – I graffiti della memoria
Piero Toresella esporrà gli ultimi lavori sotto l’egida dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Prato nell’importante spazio delle Antiche Stanze di Santa Caterina. Saranno presentate una trentina di opere accompagnate da un catalogo con testi di Giuseppe Billi e Andrea Mazzoni
Comunicato stampa
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PIERO TORESELLA:
I GRAFFITI DELLA MEMORIA
E’ un graffitista Piero Toresella.
Attenzione, però. Non nel senso di una pittura d’impeto, “casual” e volutamente sgrammaticata.
No, ma nel senso vero, nobile e profondissimo di una “graffitura” di memorie, di ricordi emotivi, di urgenze spirituali che vivono ai lembi di una storia personale, che, poi, è la storia sedimentata delle origini. Del mondo. Dell’uomo.
Infatti, più che da Keith Haring e da Basquiat (con i quali, tuttavia, in Toresella troviamo il culto della ricerca), io partirei, addirittura, dagli esordi, dalle caverne di Lescaux. Come atteggiamento di assoluta necessità e libertà.
E’ possibile? Sì; la libertà della necessità e viceversa.
Se questi antichi testi si osservano con attenzione, al di là delle interpretazioni ormai consolidate, come quelle cultuali o di identità tribali, e al di là dei soggetti, questi graffiti sono l’intuizione di una necessità esistenziale che si esprime, appunto, nella libertà dell’ ”apparenza”.
Detto in altri termini e, forse, con l’esegesi della fenomenologia, l’artista in tutto ciò che gli appare - figurativamente - attinge a immagini di un vissuto che lo trascende; poi va, verso un orizzonte “oltre” (come ben scrive di lui Marta Casati per la mostra di “Carlo Livi 115, Prato, 2006).
Ecco, allora, queste figure che, dirozzate dal tempo, sono come “totem” antropomorfi e, al tempo stesso, la natura “classica” di un’umanità che si concentra e si concretizza per consegnarsi all’oltrepasso della realtà e della finzione.
Per carità, niente fughe.
Queste figure rientrano, si potrebbe dire, in delle “quinte” estremamente elaborate. E “quinte” sono, cioé: il contesto umano che da spessore a “trances de vie” (per citare la frase francese che vuol riferirsi al lungo periodo di Toresella trascorso in Francia, dal 1996 al 1998)
Si distendono in questa “sindone” ambientale e interiore, figure che costruiscono un autentico volto mosaicato alla sensibilità “antropologica” di Piero Toresella. Ci sono plaghe di colore trattate come trama di tessuto, imbevuto di “scorie” di vita; a volte solo cenni o abbozzi di saluti “pavesati”, semplici e aerei; c’è del “collage” selezionato, solo per rigurgiti dell’anima; le figure che si pongono in situazioni precarie con la stessa focalità selvaggia dei “Nuovi Espressionisti” tedeschi.
Ma - importante - sia nell’accumulo dei segni e delle materie (v. “Adamo ed Eva”, del 2006), sia in quelle straordinarie sintesi di forme che si “comprimono” in una staticità monumentale e - insieme - nell’indipendenza (v. “tel quel”, 2006) l’immaginario “stranito” (come direbbe l’amico poeta Giorgio Mazzanti) non è “strano”. In Toresella, tutto è quanto di più, paradossalmente, essenziale e “necessario” si possa immaginare.
“Graffiti” sghembi, oscillanti, esaltati o feriti, sbollati...
“Graffiti” per sempre.
E qui cerchiamo di seguire, per quanto possibile con brevi accenni, il suo itinerario artistico e spirituale.
Quello che c’è di veramente (a questo proposito – prezioso) è uno scritto (riprodotto anastaticamente, secondo la sua manualità, dentro il testo “Tango” dell’ed. Greta).
E’ anche indicativo di una coscienza d’artista che aumenta ogni capacità di lettura, d’intesa e di dialettica col mondo “presente”. Lo diceva G.C. Argan (a proposito di Michelangelo) che gli “scritti” degli artisti sono fondamentali, sono le “guide” non solo per il loro lavoro, ma di una iniziazione all’arte e alla stessa vita.
Piero Toresella ricorda l’alunnato col maestro triestino Piero Lucano. Alunnato importante per le basi dell’arte, che affondano - sempre - in una cultura “locale” imprescindibile.
E, a questo punto, non si può non ricordare i caratteri di una “provincia”, la triestina, che provincia non è, secondo l’intendere di un lessico “minore”. Anzi, già dall’impero romano, Trieste fa parte di quella cortina-crocevia che rinnova, in modo geneticamente puro, la civiltà occidentale, destinata a significare quella “universalità” popolare che si è intesa fino ad oggi.
Tipici ed esemplari, fra i tantissimi, sono i casi dei poeti Virgilio Giotti (1885-1957) e Biagio Marin (anche lui pittore, 1891-1985), appena conosciuti dal pubblico attraverso le antologie, ma di una grandezza “linguistica” unica, giuliana e “universale”, secondo letterati e scrittori come Contini, A. Gatto, P.P. Pasolini, Carlo Bo e Manlio Cancogni (da cui, direttamente, ho sentito una finissima elaborazione culturale. Vedi, tra l’altro, il libro di Cancogni “Matelda”, Fazi ed. 1998).
La loro particolare efficacia artistica è proprio in quella “nudità” abitata, che sarà, anche, il semplice ma pieno vocabolario di Piero Toresella, intriso di natura e di verità umanistica; lui, triestino “attuale”, ma di quella intensa “povertà” poetica senza stagioni.
E’ d’obbligo, mi sembra, almeno una brevissima citazione, che può essere, tranquillamente, un commento parallelo all’arte di Piero Toresella.
Prendiamo, di Biagio Marin: “El Dio che ‘vemo drento”: “El Dio ‘che ‘vemo drento// xè sempre solo e muto//povero comò el vento// che passa nùo del duto, // e duto el lassa a la so vita// e anche a la so morte; // estraneo ad ogni sorte// ne la corsa infinita. // El resta sempre solo// e, comò noltri, desolào; // nol se cala sul siolo// e no’ i xe asilo el siel stelao.”.
Sì, è proprio - come ho detto – una nudità “vestita”, una povertà “ricca”, un ritmo “silenzioso”, eppure infuocato, ma tutto “dentro”.
Piero Toresella va a Parigi, nel 1996 e rimane, certamente, attratto ai “mostri sacri” dei Musei parigini (senz’altro, Matisse e i sintetisti “simbolisti” alla Gaguin) e a tutto il fermento internazionale sull’arte. E’ anche - quello - il periodo di una ripresa “figurativa”, in arte, dopo la cavalcata storica dei vari tipi di “informale astratto” e il cerebrale lemma del “concettuale”.
In particolare, Toresella sembra ripescare il suo mondo triestino nelle forme del “neo-espressionismo”, più esplicitamente, quello tedesco (vedi Baseliz, Penck e Lüperz), ma anche statunitense, alla Schnabel, Basquiat e David Salle.
E, nel panorama italiano, sembra avvicinarsi a uno stile puro etrusco-romano, anche se eclettico, come quello di Paladino e della “Nuova Scuola Romana” di Ceccobelli e di Pizzi Cannella.
Si tratta di rinnovate polarità figurali, che si ritagliano in coltri di foreste sciamaniche e, più direttamente, di sostanze naturali, aggrumate di segni e drammi “perduti”, come le pelli erose di Burri o, più geograficamente vicine, le macchie odorose e rampanti di Afro e di Vedova.
Però - va detto - non ci sono riferimenti “autorizzati” o che aiutino la soluzione di “nodi” mentali - di più: esperienziali - con cui si aggrovigliano, anche, i segni e la materia dei suoi quadri.
Forse, è proprio l’imprevedibilità, l’atteso-inatteso, la trasversalità dei ritmi, l’affiorare di volti muti, di “lavagne” costipate di cifre che paiono (e, anche, lo sono) simboliche, come: segnali, strisce, abbozzi di fiori, occhi, numeri ermetici, arabeschi, scale, teste di animali, labirinti, e tanta, tanta pittura-pittura che fiorisce, monta, si rapprende, naviga in un mare di luce e di buio, che diventa profondo occhio di Dio e fa risalire in superficie i frammenti di una storia infinita, che solo una “memoria” d’amore sa recuperare e rendere alla vita.
“Graffiti” di memoria, appunto.
Ma di quella memoria che non è l’elenco delle cose deposte, ma lo sfogo, libero e pur felice, di uno spazio abitato da sempre e per sempre dalla coscienza di trovarsi, più o meno consapevolmente, sullo scorrimento dell’universo e della storia umana.
Lasciamo a lui stesso la definizione, anzi la descrizione di un’esperienza che rimane, comunque, “ineffabile”, singolare avventura d’artista:
“... una pittura che rifiuta il progetto e richiede l’intuizione, una pittura che si affida alla forza espressiva del subconscio e all’equilibrio della ragione. Una pittura che afferma il valore estetico e simbolico delle forme immaginate, delle forme che rivelano la propria esistenza e si sviluppano su un piano di contaminazione tra oggettivo e soggettivo.
Osservare questi quadri alla ricerca di un contenuto finito, anche quando un tema sembra affiorare, non ha significato. E’ necessario rovesciare il senso dell’osservazione. Alla ricerca di quanto il quadro è in grado di offrire, non di ciò che trattiene”.
Così, graffitista Piero Toresella, lo è ogni artista che articola dei segni sapendo che un disegno c’è già.
Splendido il destino degli artisti.
Illuminare la notte; eppure si naviga in seno all’eterno.
Giuseppe Billi
I GRAFFITI DELLA MEMORIA
E’ un graffitista Piero Toresella.
Attenzione, però. Non nel senso di una pittura d’impeto, “casual” e volutamente sgrammaticata.
No, ma nel senso vero, nobile e profondissimo di una “graffitura” di memorie, di ricordi emotivi, di urgenze spirituali che vivono ai lembi di una storia personale, che, poi, è la storia sedimentata delle origini. Del mondo. Dell’uomo.
Infatti, più che da Keith Haring e da Basquiat (con i quali, tuttavia, in Toresella troviamo il culto della ricerca), io partirei, addirittura, dagli esordi, dalle caverne di Lescaux. Come atteggiamento di assoluta necessità e libertà.
E’ possibile? Sì; la libertà della necessità e viceversa.
Se questi antichi testi si osservano con attenzione, al di là delle interpretazioni ormai consolidate, come quelle cultuali o di identità tribali, e al di là dei soggetti, questi graffiti sono l’intuizione di una necessità esistenziale che si esprime, appunto, nella libertà dell’ ”apparenza”.
Detto in altri termini e, forse, con l’esegesi della fenomenologia, l’artista in tutto ciò che gli appare - figurativamente - attinge a immagini di un vissuto che lo trascende; poi va, verso un orizzonte “oltre” (come ben scrive di lui Marta Casati per la mostra di “Carlo Livi 115, Prato, 2006).
Ecco, allora, queste figure che, dirozzate dal tempo, sono come “totem” antropomorfi e, al tempo stesso, la natura “classica” di un’umanità che si concentra e si concretizza per consegnarsi all’oltrepasso della realtà e della finzione.
Per carità, niente fughe.
Queste figure rientrano, si potrebbe dire, in delle “quinte” estremamente elaborate. E “quinte” sono, cioé: il contesto umano che da spessore a “trances de vie” (per citare la frase francese che vuol riferirsi al lungo periodo di Toresella trascorso in Francia, dal 1996 al 1998)
Si distendono in questa “sindone” ambientale e interiore, figure che costruiscono un autentico volto mosaicato alla sensibilità “antropologica” di Piero Toresella. Ci sono plaghe di colore trattate come trama di tessuto, imbevuto di “scorie” di vita; a volte solo cenni o abbozzi di saluti “pavesati”, semplici e aerei; c’è del “collage” selezionato, solo per rigurgiti dell’anima; le figure che si pongono in situazioni precarie con la stessa focalità selvaggia dei “Nuovi Espressionisti” tedeschi.
Ma - importante - sia nell’accumulo dei segni e delle materie (v. “Adamo ed Eva”, del 2006), sia in quelle straordinarie sintesi di forme che si “comprimono” in una staticità monumentale e - insieme - nell’indipendenza (v. “tel quel”, 2006) l’immaginario “stranito” (come direbbe l’amico poeta Giorgio Mazzanti) non è “strano”. In Toresella, tutto è quanto di più, paradossalmente, essenziale e “necessario” si possa immaginare.
“Graffiti” sghembi, oscillanti, esaltati o feriti, sbollati...
“Graffiti” per sempre.
E qui cerchiamo di seguire, per quanto possibile con brevi accenni, il suo itinerario artistico e spirituale.
Quello che c’è di veramente (a questo proposito – prezioso) è uno scritto (riprodotto anastaticamente, secondo la sua manualità, dentro il testo “Tango” dell’ed. Greta).
E’ anche indicativo di una coscienza d’artista che aumenta ogni capacità di lettura, d’intesa e di dialettica col mondo “presente”. Lo diceva G.C. Argan (a proposito di Michelangelo) che gli “scritti” degli artisti sono fondamentali, sono le “guide” non solo per il loro lavoro, ma di una iniziazione all’arte e alla stessa vita.
Piero Toresella ricorda l’alunnato col maestro triestino Piero Lucano. Alunnato importante per le basi dell’arte, che affondano - sempre - in una cultura “locale” imprescindibile.
E, a questo punto, non si può non ricordare i caratteri di una “provincia”, la triestina, che provincia non è, secondo l’intendere di un lessico “minore”. Anzi, già dall’impero romano, Trieste fa parte di quella cortina-crocevia che rinnova, in modo geneticamente puro, la civiltà occidentale, destinata a significare quella “universalità” popolare che si è intesa fino ad oggi.
Tipici ed esemplari, fra i tantissimi, sono i casi dei poeti Virgilio Giotti (1885-1957) e Biagio Marin (anche lui pittore, 1891-1985), appena conosciuti dal pubblico attraverso le antologie, ma di una grandezza “linguistica” unica, giuliana e “universale”, secondo letterati e scrittori come Contini, A. Gatto, P.P. Pasolini, Carlo Bo e Manlio Cancogni (da cui, direttamente, ho sentito una finissima elaborazione culturale. Vedi, tra l’altro, il libro di Cancogni “Matelda”, Fazi ed. 1998).
La loro particolare efficacia artistica è proprio in quella “nudità” abitata, che sarà, anche, il semplice ma pieno vocabolario di Piero Toresella, intriso di natura e di verità umanistica; lui, triestino “attuale”, ma di quella intensa “povertà” poetica senza stagioni.
E’ d’obbligo, mi sembra, almeno una brevissima citazione, che può essere, tranquillamente, un commento parallelo all’arte di Piero Toresella.
Prendiamo, di Biagio Marin: “El Dio che ‘vemo drento”: “El Dio ‘che ‘vemo drento// xè sempre solo e muto//povero comò el vento// che passa nùo del duto, // e duto el lassa a la so vita// e anche a la so morte; // estraneo ad ogni sorte// ne la corsa infinita. // El resta sempre solo// e, comò noltri, desolào; // nol se cala sul siolo// e no’ i xe asilo el siel stelao.”.
Sì, è proprio - come ho detto – una nudità “vestita”, una povertà “ricca”, un ritmo “silenzioso”, eppure infuocato, ma tutto “dentro”.
Piero Toresella va a Parigi, nel 1996 e rimane, certamente, attratto ai “mostri sacri” dei Musei parigini (senz’altro, Matisse e i sintetisti “simbolisti” alla Gaguin) e a tutto il fermento internazionale sull’arte. E’ anche - quello - il periodo di una ripresa “figurativa”, in arte, dopo la cavalcata storica dei vari tipi di “informale astratto” e il cerebrale lemma del “concettuale”.
In particolare, Toresella sembra ripescare il suo mondo triestino nelle forme del “neo-espressionismo”, più esplicitamente, quello tedesco (vedi Baseliz, Penck e Lüperz), ma anche statunitense, alla Schnabel, Basquiat e David Salle.
E, nel panorama italiano, sembra avvicinarsi a uno stile puro etrusco-romano, anche se eclettico, come quello di Paladino e della “Nuova Scuola Romana” di Ceccobelli e di Pizzi Cannella.
Si tratta di rinnovate polarità figurali, che si ritagliano in coltri di foreste sciamaniche e, più direttamente, di sostanze naturali, aggrumate di segni e drammi “perduti”, come le pelli erose di Burri o, più geograficamente vicine, le macchie odorose e rampanti di Afro e di Vedova.
Però - va detto - non ci sono riferimenti “autorizzati” o che aiutino la soluzione di “nodi” mentali - di più: esperienziali - con cui si aggrovigliano, anche, i segni e la materia dei suoi quadri.
Forse, è proprio l’imprevedibilità, l’atteso-inatteso, la trasversalità dei ritmi, l’affiorare di volti muti, di “lavagne” costipate di cifre che paiono (e, anche, lo sono) simboliche, come: segnali, strisce, abbozzi di fiori, occhi, numeri ermetici, arabeschi, scale, teste di animali, labirinti, e tanta, tanta pittura-pittura che fiorisce, monta, si rapprende, naviga in un mare di luce e di buio, che diventa profondo occhio di Dio e fa risalire in superficie i frammenti di una storia infinita, che solo una “memoria” d’amore sa recuperare e rendere alla vita.
“Graffiti” di memoria, appunto.
Ma di quella memoria che non è l’elenco delle cose deposte, ma lo sfogo, libero e pur felice, di uno spazio abitato da sempre e per sempre dalla coscienza di trovarsi, più o meno consapevolmente, sullo scorrimento dell’universo e della storia umana.
Lasciamo a lui stesso la definizione, anzi la descrizione di un’esperienza che rimane, comunque, “ineffabile”, singolare avventura d’artista:
“... una pittura che rifiuta il progetto e richiede l’intuizione, una pittura che si affida alla forza espressiva del subconscio e all’equilibrio della ragione. Una pittura che afferma il valore estetico e simbolico delle forme immaginate, delle forme che rivelano la propria esistenza e si sviluppano su un piano di contaminazione tra oggettivo e soggettivo.
Osservare questi quadri alla ricerca di un contenuto finito, anche quando un tema sembra affiorare, non ha significato. E’ necessario rovesciare il senso dell’osservazione. Alla ricerca di quanto il quadro è in grado di offrire, non di ciò che trattiene”.
Così, graffitista Piero Toresella, lo è ogni artista che articola dei segni sapendo che un disegno c’è già.
Splendido il destino degli artisti.
Illuminare la notte; eppure si naviga in seno all’eterno.
Giuseppe Billi
15
settembre 2007
Piero Toresella – I graffiti della memoria
Dal 15 settembre al 06 ottobre 2007
arte contemporanea
Location
ANTICHE STANZE DI SANTA CATERINA
Prato, Via Dolce De' Mazzamuti, 1, (Prato)
Prato, Via Dolce De' Mazzamuti, 1, (Prato)
Orario di apertura
10:13 – 16:19, esclusi i martedì e festivi
Vernissage
15 Settembre 2007, ore 18
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