L’annosa querelle sulla sopravvivenza della pittura all’interno dei codici della contemporaneità si è ultimamente ristretta, a quanto confermano anche le recenti pubbliche rassegne milanesi, a quegli artisti (rigorosamente giovani) da qualcuno definiti gli ultimi depositari di pennelli e tela. Ovvero quella pittura lanciata negli anni ’90 sotto l’effigie, intrigante e “uptodate”, di medialismo e che a tutt’oggi non ne ha smessi i panni: una pittura più realista della realtà propinata appunto dai media del video, della fotografia o del web. Quasi come se la disciplina artistica più antica del mondo avesse necessariamente bisogno, per riaffermare la propria esistenza, di competere con le stesse armi di quei linguaggi che ne hanno decretato il de profundis. Ben poco si parla invece di quegli artisti –e ce ne sono- che rivendicano il ruolo della pittura come linguaggio autonomo e denso di possibilità poetiche e di capacità interpretative della realtà umana. In questo popolo di “visionari” c’è Fosco Bertani, artista intenso che ha fatto propria la lezione della grande tradizione del Novecento europeo ma, sempre al di fuori delle mode, ha saputo rinnovare lo spirito e la personalità della pittura-pittura, quella che ha attraversato l’espressionismo e l’informale, per cogliere il senso più ultimo e profondo dell’esperienza artistica: la sintesi del gesto in grado di materializzare l’immagine interna del mondo. Nei suoi excursus, Bertani è antico e fortemente contemporaneo nel suo rapportarsi alla natura come simbolo struggente del trascorrere del tempo e di una memoria collettiva che racchiude in un battito di ciglia tutta l’esperienza umana, la nascita, la vita e la morte. Dirupi, vedute marine e montagne improvvise appaiono come tracce dolorose di un flashback che arriva direttamente dall’inconscio. Colore, segno e materia si condensano nel gesto che conferisce una forte energia all’opera, riportando l’immagine a pura essenza vitale secondo quell’esperienza alchemica che resta ancora oggi il vero miracolo della pittura. E che permette, sola, di trasformare un paesaggio verde nell’immagine di quell’”anima del mondo” di cui scriveva Paulo Coelho.