Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Enzo Forese / Diego Cinquegrana – The heart is deceitful above all things
La mostra “The heart is deceitful above all things” mette a confronto i lavori di Enzo Forese [MIlano, 1947] e di Diego Cinquegrana [Como, 1981), due artisti di generazioni diverse che ugualmente presentano per questa occasione lavori che mischiano la pittura con il collage e la stratificazione di elementi diversi. I testi relativi al lavoro di Enzo Forese e Diego Cinquegrana sono stati curati da Marco Calini.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
“The heart is deceitful above all things”
Vai a spiegare che questo non è un mostro. E non per scomodare più o meno famose (fumose?) congetture sulla pipa (spenta) che non era tale, perché il divorzio fra cosa e immagine – crisi coniugale come tante, buona per le statistiche quindi – consummatum erat. Vai a spiegare che un ghigno, un guizzo di fiamma, un po’ di insetti e di peluria non fanno qualcosa di diverso dalla Primavera botticelliana di ghirlande fiorita, o, almeno, non per definizione. «Mostro no, ma monstrum-prodigio non mi spiacerebbe»: non si difende, attacca di continuo piuttosto, ma con altri lavori, Diego Cinquegrana, e lo fa da un segno, da una matrice – ultimamente da una ferita modellata in cera -; non per convincere, ma per convincersi di esserne il legittimo proprietario. Sì, perché il lavoro della sua bottega non è questione di griffe, di sigillo, di autenticazione: «autentico, mio è soltanto ciò che mi somiglia». Ma vai a spiegare che non è un ritratto, perché di posare, Diego, non ha alcuna intenzione. E non parlargli nemmeno di intenzione, perché lui lavora lavorando, non intende; tende piuttosto, nel suo fare, a includere perché l’opera possa dirsi conclusa. Collage, però, è formula che non lo convince del tutto, «se collage significa semplicemente incollare», e non, meglio, raccolta e collazione su supporti variabili - e già tante volte variati nella sua attività - di elementi che si comporranno e – fatto inevitabile per i materiali organici - decomporranno. Peli, capelli, ciglia, unghie, animaletti, marmellata, miele centrifugati con inserti iconici sforbiciati dalla stampa, con i tratti dei pastelli, dei pennarelli o di altri coloranti più legali. «Per molte opere, in passato, ho usato il sangue che mi prelevavo: serviva a sentirle mie». Poi il patto autore-opera è stato suggellato con altro, ma – ed è quello che più gli importa - con gli stessi risultati. «Non escludo di tornare a farne uso, magari un uso più consapevole, ma sempre e soltanto se potrà servirmi». Altra concessione che si fa Diego – questa verbale –, la forma riflessiva “plasmarsi” riferita al materiale impiegato e alle sue osservabili dinamiche; ma è un lusso soltanto all’apparenza. Sangue o tè che impregnino l’opera, Diego è anche spettatore interessato dell’osmosi che si consuma tra gli elementi trovati nei prati, sui marciapiedi o in credenza; sta a guardare il processo che chiama in causa, senza distinzione, organico e inorganico e va modificandone tinte e contorni. Anzi, vai a spiegare che distinzione vera, univoca, tra i due concetti dell’arte di figura, con questi elementi in gioco, non si può dare. Vai a spiegare che i contorni si tingono del divenire della materia e la materia processata disegna nuove forme. Non è poi così strano per una dialettica stratigrafica che non chiami in causa millenni, ma i tempi compositivi relativamente compressi del Nostro. Terzo incomodo, dunque, fra le due dimensioni in cui si dispiega la maggior parte delle sue opere, il materiale sepolto, quello che non si vede, ma che c’è e che i suoi effetti fa sentire; chiari nella biologia delle opere su carta – invariabilmente tecnica mista, ove non diversamente specificato -, ma anche – passando al 3D - nella morfologia delle sculture, misto di materiali plasmati dalla sua téchnē. Se poi – come a Diego preme dire - «le cose tornano», quindi le sepolte come le momentaneamente abbandonate, vai a spiegare per quale prodigio-monstrum, da quella congerie di elementi – e tanto maggiore è l’assortimento tanto meglio risalta – si plasma un segno antropomorfo. Vai a spiegare che questo è Diego Cinquegrana.
Marco Calini
«Mi ero messo in testa di scrivere “Riurlo”, cioè di rifare “Urlo” di Ginsberg. Mi ero messo in testa una cosa evidentemente impossibile: come potevo rifare quella poesia?» Poi, in Enzo Forese, l’idea ha lasciato lo spazio all’azione; la scrittura il foglio alla composizione: stesse lettere, diversa grammatica. Non più fare il verso della poesia, ma fare il verso a tutto (forse meno che alla poesia); fare poesia comunque, ma più da vista che da lettura, e meno che mai da ascolto. In altre parole fare dei collage.
Così il “Riurlo” è diventato eco, fenomeno visivo invariabilmente rimbalzato 240 volte sulla superficie 210 x 297 mm modello foglio A4. Per molti mesi sono state le pagine del diario che Forese ha riempito - «anche cinque al giorno» ricorda – e che ora vorrebbe riunire in un libro «che chissà se si farà mai». Unica certezza l’incipit: pagina 1 sarà “Argo cogito” (pensieri alla c***o di cane). Collage di forme di lettere che diventano parole, ritagli che diventano immagini, “ut tertium detur”: non la somma degli addendi, quindi, ma il risultato che cambia rispetto alle premesse. Proprio come in poesia: composizione nei fatti, amplificazione e propagazione negli effetti. E proprio come in poesia, in tanta poesia del secondo Novecento italiano, Forese sulla sua pagina traccia forme chiuse, allunga metri regolari, rima facile - fin troppo per credere alla sua dichiarata semplicità. Quella semplicità dei suoi vasi dipinti, fioriti, oltre che d’essenze di colore, di donne già sbocciate, da Lui strappate alle riviste per Lei e in quei nuovi gambi trapiantate, in paziente attesa d’appassire. Sempre tre colori, muro, vaso e pavimento, per le tre dimensioni di uno spazio fatto d’intervalli cromatici abissali, cui è fatalmente precluso ogni proseguimento extra cornice. Il mondo tutto è nella misura di quel foglio o, meglio, quel foglio è la misura esatta del mondo. E poco cambia l’intrusione di una donna, pezzo di carta su colla, che da quell’eden in sedicesimo nessuno pensa di scacciare; anzi, che di quel giardino è forma unica di vita, quindi completamento necessario dell’inorganico contorno (fiori compresi). E poco cambia se, restringendo ancora quel contorno di pittura, questo diventa basamento per l’ombra di un astante, testimone controluce del portento che “di gitto” davanti gli s’accampa: una donna ancora, un alfabeto, un incomprensibile-irraggiungibile altro da guardare e non toccare. Anche se spesso uguale è la sostanza di cui sono fatti, spettatore e scena, collage, ossia citazioni, ovvero riproduzioni di immagini, forme (magari chiuse), canoni e tecniche di cui il secondo Novecento, e Forese, si sono riappropriati. Citare, non rifare dunque. E del resto l’ha dichiarato subito, come potevo?: “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia…”
Marco Calini
Vai a spiegare che questo non è un mostro. E non per scomodare più o meno famose (fumose?) congetture sulla pipa (spenta) che non era tale, perché il divorzio fra cosa e immagine – crisi coniugale come tante, buona per le statistiche quindi – consummatum erat. Vai a spiegare che un ghigno, un guizzo di fiamma, un po’ di insetti e di peluria non fanno qualcosa di diverso dalla Primavera botticelliana di ghirlande fiorita, o, almeno, non per definizione. «Mostro no, ma monstrum-prodigio non mi spiacerebbe»: non si difende, attacca di continuo piuttosto, ma con altri lavori, Diego Cinquegrana, e lo fa da un segno, da una matrice – ultimamente da una ferita modellata in cera -; non per convincere, ma per convincersi di esserne il legittimo proprietario. Sì, perché il lavoro della sua bottega non è questione di griffe, di sigillo, di autenticazione: «autentico, mio è soltanto ciò che mi somiglia». Ma vai a spiegare che non è un ritratto, perché di posare, Diego, non ha alcuna intenzione. E non parlargli nemmeno di intenzione, perché lui lavora lavorando, non intende; tende piuttosto, nel suo fare, a includere perché l’opera possa dirsi conclusa. Collage, però, è formula che non lo convince del tutto, «se collage significa semplicemente incollare», e non, meglio, raccolta e collazione su supporti variabili - e già tante volte variati nella sua attività - di elementi che si comporranno e – fatto inevitabile per i materiali organici - decomporranno. Peli, capelli, ciglia, unghie, animaletti, marmellata, miele centrifugati con inserti iconici sforbiciati dalla stampa, con i tratti dei pastelli, dei pennarelli o di altri coloranti più legali. «Per molte opere, in passato, ho usato il sangue che mi prelevavo: serviva a sentirle mie». Poi il patto autore-opera è stato suggellato con altro, ma – ed è quello che più gli importa - con gli stessi risultati. «Non escludo di tornare a farne uso, magari un uso più consapevole, ma sempre e soltanto se potrà servirmi». Altra concessione che si fa Diego – questa verbale –, la forma riflessiva “plasmarsi” riferita al materiale impiegato e alle sue osservabili dinamiche; ma è un lusso soltanto all’apparenza. Sangue o tè che impregnino l’opera, Diego è anche spettatore interessato dell’osmosi che si consuma tra gli elementi trovati nei prati, sui marciapiedi o in credenza; sta a guardare il processo che chiama in causa, senza distinzione, organico e inorganico e va modificandone tinte e contorni. Anzi, vai a spiegare che distinzione vera, univoca, tra i due concetti dell’arte di figura, con questi elementi in gioco, non si può dare. Vai a spiegare che i contorni si tingono del divenire della materia e la materia processata disegna nuove forme. Non è poi così strano per una dialettica stratigrafica che non chiami in causa millenni, ma i tempi compositivi relativamente compressi del Nostro. Terzo incomodo, dunque, fra le due dimensioni in cui si dispiega la maggior parte delle sue opere, il materiale sepolto, quello che non si vede, ma che c’è e che i suoi effetti fa sentire; chiari nella biologia delle opere su carta – invariabilmente tecnica mista, ove non diversamente specificato -, ma anche – passando al 3D - nella morfologia delle sculture, misto di materiali plasmati dalla sua téchnē. Se poi – come a Diego preme dire - «le cose tornano», quindi le sepolte come le momentaneamente abbandonate, vai a spiegare per quale prodigio-monstrum, da quella congerie di elementi – e tanto maggiore è l’assortimento tanto meglio risalta – si plasma un segno antropomorfo. Vai a spiegare che questo è Diego Cinquegrana.
Marco Calini
«Mi ero messo in testa di scrivere “Riurlo”, cioè di rifare “Urlo” di Ginsberg. Mi ero messo in testa una cosa evidentemente impossibile: come potevo rifare quella poesia?» Poi, in Enzo Forese, l’idea ha lasciato lo spazio all’azione; la scrittura il foglio alla composizione: stesse lettere, diversa grammatica. Non più fare il verso della poesia, ma fare il verso a tutto (forse meno che alla poesia); fare poesia comunque, ma più da vista che da lettura, e meno che mai da ascolto. In altre parole fare dei collage.
Così il “Riurlo” è diventato eco, fenomeno visivo invariabilmente rimbalzato 240 volte sulla superficie 210 x 297 mm modello foglio A4. Per molti mesi sono state le pagine del diario che Forese ha riempito - «anche cinque al giorno» ricorda – e che ora vorrebbe riunire in un libro «che chissà se si farà mai». Unica certezza l’incipit: pagina 1 sarà “Argo cogito” (pensieri alla c***o di cane). Collage di forme di lettere che diventano parole, ritagli che diventano immagini, “ut tertium detur”: non la somma degli addendi, quindi, ma il risultato che cambia rispetto alle premesse. Proprio come in poesia: composizione nei fatti, amplificazione e propagazione negli effetti. E proprio come in poesia, in tanta poesia del secondo Novecento italiano, Forese sulla sua pagina traccia forme chiuse, allunga metri regolari, rima facile - fin troppo per credere alla sua dichiarata semplicità. Quella semplicità dei suoi vasi dipinti, fioriti, oltre che d’essenze di colore, di donne già sbocciate, da Lui strappate alle riviste per Lei e in quei nuovi gambi trapiantate, in paziente attesa d’appassire. Sempre tre colori, muro, vaso e pavimento, per le tre dimensioni di uno spazio fatto d’intervalli cromatici abissali, cui è fatalmente precluso ogni proseguimento extra cornice. Il mondo tutto è nella misura di quel foglio o, meglio, quel foglio è la misura esatta del mondo. E poco cambia l’intrusione di una donna, pezzo di carta su colla, che da quell’eden in sedicesimo nessuno pensa di scacciare; anzi, che di quel giardino è forma unica di vita, quindi completamento necessario dell’inorganico contorno (fiori compresi). E poco cambia se, restringendo ancora quel contorno di pittura, questo diventa basamento per l’ombra di un astante, testimone controluce del portento che “di gitto” davanti gli s’accampa: una donna ancora, un alfabeto, un incomprensibile-irraggiungibile altro da guardare e non toccare. Anche se spesso uguale è la sostanza di cui sono fatti, spettatore e scena, collage, ossia citazioni, ovvero riproduzioni di immagini, forme (magari chiuse), canoni e tecniche di cui il secondo Novecento, e Forese, si sono riappropriati. Citare, non rifare dunque. E del resto l’ha dichiarato subito, come potevo?: “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia…”
Marco Calini
14
dicembre 2007
Enzo Forese / Diego Cinquegrana – The heart is deceitful above all things
Dal 14 dicembre 2007 al 18 gennaio 2008
arte contemporanea
Location
KGALLERY ARTE CONTEMPORANEA
Legnano, Piazza Europa, 15, (Milano)
Legnano, Piazza Europa, 15, (Milano)
Orario di apertura
dal giovedì al sabato, dalle 16.30 alle 19.30
Vernissage
14 Dicembre 2007, dalle 19. Ingresso da piazza Europa 15 e piazza san Magno 3 (cortile interno)
Autore
Curatore