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Claudio Costa
La mostra presenta una serie di opere scelte dell’artista degli anni Settanta Ottanta e Novanta
Comunicato stampa
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Amorevolmente andare,/ amorevolmente restare,/ in ogni caso,/ amorevolmente progredire,/ amorevolmente regredendo.
Potrebbe venire da un poeta, questa citazione.
Questa citazione viene da un uomo, Claudio Costa, un artista. La fece aprendo un volume del 1979 e volle così spiegare in modo naturale, comprensibile a tutti, l’oggetto di ricerca a lui più caro: andare, restare, progredire regredendo, con amore.
Lui stesso lo definì una sorta di work in regress, un viaggio a ritroso, nella memoria e nella storia dell’uomo condannato “ad evolvere continuamente, a perdere radici, ad appartenere al futuro, sperandolo come tempo migliore e facendogli dimenticare di vivere il proprio presente”.
Gli inizi, i primi anni Sessanta, sono informali, le ricerche immediatamente successive vicine all’arte povera e concettuale. Da questo percorso Claudio Costa si stacca e comincia quello personale, all’indietro, che lo porta, con l’utilizzo di materiali poveri che hanno odore, storia, come il fango, il legno, l’ardesia, richiamano l’infanzia, la sua e quella dell’uomo, ad esplorare il passato. Si ricorda di Monleone, il pozzo d’argilla dove bambino si divertiva a modellare forme e a chiudere nel suo immaginario la bellezza dei materiali contadini, vecchi, logori, ma che sapevano di vita. Ci gioca da grande. Copre le tele di colla di pesce, usa acidi e solfato di rame, corrode, guasta il materiale.
Era come lavorare, con un diverso sistema artigianale, ad una sorta di alchimia della trasformazione profonda di alcune materie, attraverso una serie di reazioni a catena, diluite nel tempo.
In questa trasmutazione della materia risiede l’aspetto oscuro evocante forze misteriose, antichi riti.
Miti primitivi, culture contadine a cui rivolgersi per costruire un mondo più umano, niente a che fare con la leggenda del buon selvaggio, solo ricerca lucida, demistificante, in cui l’incontro/scontro tra gli opposti produce nuova vita.
Spesso Claudio Costa oppone al bianco il nero, al molle il duro, in un contrasto in cui la sovrastruttura perde completamente di significato, gli orpelli spariscono. Lascia che sia il cuore/sentimento, a dialogare con il cervello/ragione, fino al momento in cui la tensione vitale raggiunge l’apice.
Nell’opera qui riprodotta ci pare di scorgere un ariete subito prima dell’assalto. Temi a lui cari, cuore e cervello, restano emblematici.
L’arte non parla al cervello, colpisce al cuore. Che poi il cervello trovi un modo di leggere l’arte, dovrebbe appartenere al progresso culturale. Quasi che rinnegando la bestia, l’uomo qualifichi e certifichi la sua distanza da quelle origini e da quei bisogni. In questa visione, l’acquistare vigore e proiettarsi in avanti in qualche modo, non è solo metafora di vita, ma ne diventa paradosso, quando, esaurita la spinta, deve conciliare le idee che il pensiero formula con i sentimenti che sgorgano dal cuore.
Lula
Potrebbe venire da un poeta, questa citazione.
Questa citazione viene da un uomo, Claudio Costa, un artista. La fece aprendo un volume del 1979 e volle così spiegare in modo naturale, comprensibile a tutti, l’oggetto di ricerca a lui più caro: andare, restare, progredire regredendo, con amore.
Lui stesso lo definì una sorta di work in regress, un viaggio a ritroso, nella memoria e nella storia dell’uomo condannato “ad evolvere continuamente, a perdere radici, ad appartenere al futuro, sperandolo come tempo migliore e facendogli dimenticare di vivere il proprio presente”.
Gli inizi, i primi anni Sessanta, sono informali, le ricerche immediatamente successive vicine all’arte povera e concettuale. Da questo percorso Claudio Costa si stacca e comincia quello personale, all’indietro, che lo porta, con l’utilizzo di materiali poveri che hanno odore, storia, come il fango, il legno, l’ardesia, richiamano l’infanzia, la sua e quella dell’uomo, ad esplorare il passato. Si ricorda di Monleone, il pozzo d’argilla dove bambino si divertiva a modellare forme e a chiudere nel suo immaginario la bellezza dei materiali contadini, vecchi, logori, ma che sapevano di vita. Ci gioca da grande. Copre le tele di colla di pesce, usa acidi e solfato di rame, corrode, guasta il materiale.
Era come lavorare, con un diverso sistema artigianale, ad una sorta di alchimia della trasformazione profonda di alcune materie, attraverso una serie di reazioni a catena, diluite nel tempo.
In questa trasmutazione della materia risiede l’aspetto oscuro evocante forze misteriose, antichi riti.
Miti primitivi, culture contadine a cui rivolgersi per costruire un mondo più umano, niente a che fare con la leggenda del buon selvaggio, solo ricerca lucida, demistificante, in cui l’incontro/scontro tra gli opposti produce nuova vita.
Spesso Claudio Costa oppone al bianco il nero, al molle il duro, in un contrasto in cui la sovrastruttura perde completamente di significato, gli orpelli spariscono. Lascia che sia il cuore/sentimento, a dialogare con il cervello/ragione, fino al momento in cui la tensione vitale raggiunge l’apice.
Nell’opera qui riprodotta ci pare di scorgere un ariete subito prima dell’assalto. Temi a lui cari, cuore e cervello, restano emblematici.
L’arte non parla al cervello, colpisce al cuore. Che poi il cervello trovi un modo di leggere l’arte, dovrebbe appartenere al progresso culturale. Quasi che rinnegando la bestia, l’uomo qualifichi e certifichi la sua distanza da quelle origini e da quei bisogni. In questa visione, l’acquistare vigore e proiettarsi in avanti in qualche modo, non è solo metafora di vita, ma ne diventa paradosso, quando, esaurita la spinta, deve conciliare le idee che il pensiero formula con i sentimenti che sgorgano dal cuore.
Lula
14
giugno 2008
Claudio Costa
Dal 14 giugno al 12 luglio 2008
arte contemporanea
Location
GALLERIA L’ELEFANTE
Treviso, Via Roggia, 52, (Treviso)
Treviso, Via Roggia, 52, (Treviso)
Orario di apertura
Dal martedì al sabato ore 15.30-19.30 o su appuntamento
Vernissage
14 Giugno 2008, 18.00
Autore




