Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Camilla Ancilotto – Metamorfosi
L’itinerario espositivo è costruito per dare spazio al poliedrico talento dell’Artista che sempre desidera indagare alla radice delle cose con assoluta precisione.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Sono tangibili le capacità creative e ideative di Camilla Ancilotto, un’artista giovane che ha dietro sé oltre quindici anni di sperimentazione artistica, ove l’articolata progettualità che contraddistingue le sue opere ci da certezza possa permetterle di farsi strada, con il successo che merita, in questo nostro sistema dell’arte. Con l’espressione «sistema dell’arte» intendo riferirmi al promiscuo mercato economico e alla circolazione delle opere, considerate tanto“prodotto culturale” quanto “bene di valore”; così come mi riferisco ad una struttura molto articolata, alla quale fa capo un numero sempre maggiore di protagonisti della società civile. Il connubio fra arte e bene è evidentemente oggi alquanto stravolto nel sistema commerciale, che sente questo mercato d’avanguardia in competizione con quello che si potrebbe definire l’ormai superato mercato tradizionale. Ma come si può facilmente immaginare, il riconoscimento economico di un bene ha come conseguenza l’imborghesimento delle tensioni più vitali dell’arte stessa, della sua ricerca sperimentale e, dove la tendenza dominante potrebbe vedere l’ascesa di nuovi, giovani autori che riescono, in breve tempo, a raggiungere quotazioni altissime. Così come l’euforia speculativa, sollecitata da una moda culturale gonfiata dai Media, da critici e da organizzazioni, permette in tal modo la “storicizzazione” istantanea delle nuove star.
Critici che hanno desiderato fare gli imprenditori di produzione hanno ottenuto, in ogni caso, consensi Istituzionali, per meccanismi di sistema che non lasciano spazio a causa degli interessi “Made in Italy”. Gli artisti hanno dimostrato che le dinamiche economiche non sono più state solamente il riflesso di tendenze culturali, ma che la produzione artistica degli stessi si adegua alle esigenze di tale mercato. L’equivoco convive, appunto, nel fatto che, essendo l’arte un bene economico, contemplato nelle regole di un mercato promiscuo, proprio con l’escamotage d’appartenere al settore cultura e, di rivendicarne la funzione estetica, quindi quella che le rende ufficialmente opere d’arte, dimostra che alcune “entità” del contesto sono del tutto particolari. Tale argomento ha sempre riscosso grande attenzione da parte di molti economisti, a causa del maggior numero di operatori esistenti oggi nel sistema dell’arte, tanto che sarebbe più corretto parlare di differenti e separati mercati del settore in oggetto, lì dove risulta ancor più discutibile, il rapporto tra la qualità e il livello delle quotazioni determinato dal potere delle strutture mercantili e di chi le espone, sempre, ovviamente, per la loro promozione a sostegno di ciascun artista.
Volendo in quest’ambito promuovere l’indiscutibile talento di Camilla Ancilotto e, soprattutto osservando il suo impegno creativo che accompagna le diverse, laboriose fasi di una produzione artistica articolata, fino al completarsi di un’opera poliedrica, multiforme, piena di mille significati, oggi posso sostenere, senza timore alcuno, d’aver incontrato non poche difficoltà nel riuscirvi; così come posso, allo stesso modo constatare, con grande rammarico, quanto scarso è stato il consenso anche da parte di “non partner” che, potenzialmente avrebbero potuto, a mio avviso, aderire all’iniziativa, ma come risulta ovvio, nel caso che ci riguarda, hanno risposto d’essere impegnati su altri fronti.
L’arte di Camilla Ancilotto ha inizio con l’ideazione figurativa, attraverso precisi e fantasiosi disegni che devono combaciare inconfondibilmente nelle molteplici combinazioni miste, oltre che a rappresentare d’incanto il disegno unico che caratterizza le opere in tasselli scorrevoli, i due che caratterizzano le opere in tasselli o parallelepipedi e, ancora, i tre disegni per le opere in prismi a base triangolare. Sia i parallelepipedi che i prismi, costruiti artigianalmente, vengono poi stuccati, rifiniti e verniciati con tre mani di cementite isolante e aggrappante, per poi essere dipinti con colore fine a olio. Appena pronti saranno montati su di un telaio provvisorio, fatto di barre d’acciaio filettate e poi contenute in una cornice di legno. Il disegno viene così sovrapposto sul telaio, dove ha inizio l’esecuzione a olio. Finito il primo lato, l’artista gira i parallelepipedi o i prismi, fino a formare, come spiegato, la seconda o la terza facciata, prima progettata, di modo che, le figure nel proseguire, si combinino le une alle altre.
Quando tutte le facciate sono finalmente dipinte, si procede al successivo passaggio di omologazione, di modo che le figure, i colori e i toni abbiano un equilibrio tra loro, soprattutto per quanto riguarda la composizione.
Smontato il telaio provvisorio, Camilla colora sia la base superiore, sia quella inferiore degli stessi in nero e, come da fabbro, inizia il montaggio del lavoro sulla struttura definitiva, fatta di barre d’acciaio con rondelle, sempre saldate una ad una. Parallelepipedi, o prismi, forati al centro con il tornio, rappresentano sempre pezzi unici realizzati interamente a mano, in legno massello per quanto riguarda le opere di piccole dimensioni e in legno cavo per le più imponenti, ma anche in plexiglass, in marmo e acciaio.
L’arte di Camilla Ancilotto è una “metamorfosi nel movimento, dove tanto le icone, quanto i simboli della storia classica e moderna, e della mitologia si fondono fra loro e con gli elementi del nostro pianeta. Opere versatili si ammirano sui “solidi” posti su supporti, strutturate come un “polittico”, e sorrette da una struttura meccanica con perni in metallo che consentono la loro roteazione e, con la sola pressione delle mani, compongono fasce parallele dei “solidi” che creano la successione di immagini, e così interagendo, se ne attraversano i significati. Al centro l’uomo come protagonista, osservato nel suo rapporto nel tempo e nella storia con il pianeta e le grandi potenzialità a lui offerte dalla natura. Per la scelta d’accrescere la propria capacità di generazione Liberamentepeople guarda al futuro.
Francesca Ascoli Scotti
Camilla Ancilotto è nata a Roma il 14 Ottobre 1970; vive e lavora tra la toscana e Roma.
Nel 1993 comincia ad approfondire i suoi studi artistici presso l’Istituto Europeo di Design e la Scuola delle Arti Ornamentali San Giacomo a Roma.
In quegli anni partecipa a diverse Mostre collettive nella Capitale.
Nel 1997 decide di arricchire il suo curriculum di un’esperienza di studio e lavoro oltreoceano, a New York, presso la New York Academy of Art, dove consegue un diploma di MFA (Master in Fine Art) con il massimo dei voti.
A New York partecipa con successo a due Mostre collettive presso la galleria Atmosphere nel quartiere di Chelsea a Manhattan, e a un concorso di arte figurativa presso la galleria Studio 4 West di New York, dove riscuote il successo di pubblico e critica;
Torna a Roma nel 2001, e nel 2002 partecipa alla prima edizione del Concorso Nazionale per Artisti “ La mia idea di campagna romana e laziale” presso il Castello Baronale di Fondi ( vincendo il 4° premio).
Nel febbraio del 2003 presenta la sua prima mostra personale presso la galleria CA’ d’ORO di Roma.
Nello stesso anno la galleria CA’ d’ORO di Roma, presenta l’opera “Venere Reclina” alla primaverile romana dell’A.R.G.A.M (Associazione Romana Gallerie d’Arte Moderna).
Nel Marzo 2004 espone presso lo Spazio Culturale di Santa Chiara, al GAI di Vercelli, un’opera per triennale riservata ai giovani artisti.
Sempre presso la galleria CA’ d’ORO di Roma, partecipa a due Mostre colletive: “Bestiario” con opere di Caruso, Porzano, e Vespignani affiancati da giovani proposte; e una dedicata a Rembradt, nel 2006, con artisti quali, Calabria, Kokocinsky, Guarienti, Modica e altri.
Nel 2008 viene chiamata ad esporre presso la galleria Davico di Torino.
Al 2009 risalgono le mostre “Scomposizioni” e “Omaggio a de Chirico”, entrambe svoltesi presso il Palazzo Torlonia in Roma, galleria CA’ d’ORO Roma.
La Mostra “Omaggio a de Chirico”, galleria CA’ d’ORO di Roma, nel 2010 diviene itinerante in America, nelle città di: Miami, Los Angeles e New York.
Mostre collettive 1998 Atmosphere gallery, New York.
2000 Galleria Studio 4 West, New York.
2000 Atmosphere gallery, New York.
2002 RipArte International Art Fair, Roma.
2002 La Campagna Romana, Castello Baronale di Fondi.
2003 Premio Nazionale di Pittura “Città di Fondi”.
2003 Sotto/ Sopra, Primaverile Romana A.R.G.A.M
2004 Triennale di Vercelli Giovani Artisti.
2005 Galleria CA’ d’ORO, Roma (A.R.G.A.M.).
2005 Galleria Cortese & Lisanti, Roma.
2006 Zodiaco, galleria Davico, Torino.
2006 Omaggio a Rembrandt 1606/2006, galleria CA’ d’ORO, Roma.
2007 Per Bacco, Palazzo Antinori, Firenze.
2007 “Roma visioni di una Capitale”, galleria Cortese & Lisanti, Roma.
2008 “Omaggio a de Chirico” galleria CA’ d’ORO, Roma.
2008 “Donne d’Arte”, galleria Cortese & Lisanti, Roma.
2009 “Scomposizioni” Palazzo Torlonia, Roma, galleria CA’ d’ORO, Roma.
2009 “Omaggio a de Chirico” Palazzo Torlonia, Roma, galleria CA’ d’ORO,
Roma.
2010 “Omaggio a de Chirico” itinerante Miami, New York, Los Angeles
con la galleria CA’ d’ORO, Roma.
Mostre Personali: 2003 Galleria CA’ d’ORO, Roma.
2008 Galleria Davico, Torino.
Giovanni Faccenda
Architetture del pensiero. Per vedere oltre
«Bisogna vedere quel che non si è visto,
vedere di nuovo quel che si è già visto,
vedere in primavera quel che si è visto in estate,
vedere di giorno quel che si è visto di notte,
con il sole dove la prima volta pioveva,
la pietra che ha cambiato posto.»
José Saramago
Uno dei pregiudizi più diffusi ancora oggi nel mondo dell’arte – sebbene in molti lo neghino con inguaribile impudenza – riguarda l’opera delle donne, vista con diffidenza, peggio, con sospetto, da talune menti ignoranti e limitate che mantengono una incomprensibile distanza – addirittura emotiva – rispetto ai vertici raggiunti, in quattro secoli di pittura, da talenti aristocratici, quali quelli di Artemisia Gentileschi, Suzanne Valadon, Tamara De Lempicka, Natalia Goncharova e Frida Khalo. Quattro secoli che possiamo far idealmente iniziare nel 1610, quando la diciassettenne Artemisia porta a compimento, probabilmente con l’aiuto del padre Orazio, la prima opera a lei attribuita: Susanna e i vecchioni.
Roma, la città eterna, è il luogo incantato che assiste alla nascita di quel capolavoro, in un anno che rimarrà memorabile anche per la morte di Caravaggio a Porto Ercole, nella non lontana Maremma.
Roma e la Toscana. Scenari consueti per i prodigi dell’arte. Luoghi di sosta o di passaggio per pendolari illustri in cerca di suggestioni sospese tra primitivismo, rinascimento e barocco. Teatro di storie che accendono, talvolta, un’esistenza, come quella di Camilla Ancilotto, artista emergente romana attiva, in alcuni periodi dell’anno, nel cuore della campagna etrusca, tra Siena e l’Argentario, là dove ancora aleggia il fantasma di Guidoriccio da Fogliano, in quella sua solenne posa a cavallo, così come lo ha dipinto, nel celebre affresco, Simone Martini.
Avevo notato un lavoro di Camilla, qualche anno fa, in una mostra collettiva capitolina, in cui era presente l’opera di un pittore che io reputo tra i maggiori in ambito contemporaneo: Giuseppe Modica. Mi aveva colpito, in verità, quel suo singolare assemblaggio di solidi a base triangolare, dipinti sui tre lati e attraversati da un perno verticale interno, pensati per essere roteati, sì da mutare l’iniziale rappresentazione in altre innumerevoli, stranianti quanto sorprendenti.
In pratica, una tale idea riusciva a concretizzare ciò che, in pittura, era da ritenersi impensabile, almeno in riferimento al fruitore: ovvero, la soggettivazione dell’immagine, addirittura la sua possibile personalizzazione, in base al gusto specifico di ciascuno. Qualcosa di straordinario: giusto, in questo caso, spendere l’abusato aggettivo.
Il solo rischio – allora mi era parso – che potesse correre un elaborato tanto audace e originale era il probabile fraintendimento di certuni semplicioni, così definibili per le amenità che ricorrono nelle loro abituali interpretazioni. Più precisamente, l’eventualità che si finisse per equivocare in un ambito ludico – qualcuno, infatti, in passato ha citato il cubo di Rubik – una rivoluzione espressiva di evidente spessore, non poteva non essere presa in considerazione da chi ben conosce il genere di mediocrità che contraddistingue molti osservatori nostrani, esperti di niente che valga davvero la pena di sapere.
Stupisce, semmai, che tante rassegne pubbliche, dichiaratamente rivolte ai nuovi linguaggi e alle più eccentriche sperimentazioni, non abbiano ancora presentato gli esiti della ricerca di Camilla Ancilotto, invero una delle poche figure degne d’attenzione in uno scenario tristemente omologato verso il basso. Dinanzi ad una sempre più preoccupante aridità creativa e intellettuale, lo sforzo ideativo di quest’artista, l’impegno che ella mette nelle lunghe fasi, ognuna determinate nella realizzazione delle sue opere – si vedano, ad esempio, certi lucidi e i disegni pubblicati in questo catalogo ed esposti in mostra – non possono che suscitare ammirazione, così come i motivi trattati, sovente di ordine mitologico, etico o filosofico.
Ma è soprattutto quando Camilla recupera alcuni sublimi modelli di arte antica – l’Uomo vitruviano di Leonardo, l’Adamo ed Eva di Tiziano, le Tre Grazie di Raffaello, le Allegorie di Bronzino –, per «distruggerli» e subito farli risorgere in un ordito visivo mutabile e mai definitivo, che, consapevolmente, compie una rivisitazione, se vogliamo, anche dissacrante, nella quale l’aspetto più pregevole è la lontananza mantenuta da ogni citazione di mero valore illustrativo.
Così, in quelle sue architetture del pensiero continuamente abitate da un’immaginazione sorgiva e da uno spirito che s’indovina sognatore e romantico, i solidi – triangolari o rettangolari, di legno o d’acciaio – finiscono per diventare tessere di un mosaico che si legittima tanto nella composizione primaria quanto nei successivi interventi, in un processo in divenire, disponibile e affascinante all’evenienza, nel quale ogni modificazione risulta peraltro sempre coerente rispetto all’idea aurorale.
Non par vero di trovare, in questo, arcani intrecci concettuali con il Cinetismo e l’Optical Art, a testimonianza di una consistenza culturale forse non percepibile al primo approccio come di fatto merita, e nella quale – senza essere tacciati di retorica – ci è caro intravedere la pregiata ascendenza degli studi sul dinamismo e la simultaneità di Balla, protagonista assoluto in un Novecento impareggiabile.
Si potrebbe dunque affermare, scendendo più in profondità nel lavoro di Camilla Ancilotto, sotto la pelle stessa delle immagini, che in esse magicamente resiste un carattere visionario, tale da renderle, talvolta, proiezioni enigmatiche di qualcosa di oscuro che alberga nel suo inconscio. Da qui, forse, la sua urgenza di figurare per trasfigurare, di riprodurre per cancellare, di indagare cos’è oltre la dimensione del visibile – che sia, fra l’altro l’icona di Marilyn o quella di Francesco Totti poco importa –, in un’allegoria in fieri, simmetrica, nella sua suggestiva adattabilità, ai comportamenti umani.
L’opera, infine, è di lei che la crea esattamente come di chi la guarda: autore e spettatore concorrono con sostegno reciproco, in un dialogo aperto alla fantasia, alla sorpresa, allo stupore.
Firenze, febbraio 2010.
Forse le sorrideva sin dalla nascita un presagio di celebrità: Camilla Ancilotto, artista coinvolgente e di rara profondità rappresentativa, si trova a portare il nome di una guerriera impavida, che Virgilio rese eterna nell’Eneide e Dante, nella Divina Commedia, collocò fra gli Spiriti Magni.
Siamo con certezza di fronte ad un’artista che reca in sé un soffio divino e ispiratore, che sembra concepire opere, così psichicamente composite, da far sentir ciascuno come davanti ad uno specchio.
Uno specchio che scruta ogni “segmento” della personalità, scoprendone le diverse facce, come se quei solidi a base triangolare, roteando su se stessi, offrissero spaccati plurimi dell’ispirazione della Ancilotto e della sua percezione dell’universo umano, in un rincorrersi d’immagini che appare come un’applicazione sapiente e intrecciata, fra arte e psicoterapia, con la mutevolezza conturbante delle immagini che riproduce il gioco di specchi proprio della nostra essenza.
Le intuizioni che Camilla trasmette sollecitano in ciascuno di noi un procedere sul filo dell’autocoscienza, lì dove molti si son sentiti dilaniati in un puzzle di emozioni, sensazioni e percezioni, altri, invece, ne intuiscono interiormente una segmentazione che non si traduce in una sterile deriva esistenziale, proprio perché i blocchi imperniati su un filo d’acciaio consentono di mutare il lato che mostrano al mondo, ma al tempo stesso costituiscono lo scheletro della loro personalità.
Le opere di Camilla, dunque, sostanziano un’arte che sfocia, come un fiume tumultuoso, nella filosofia e nel sollecitare le persone a riflettere su una realtà mutevole consente loro di auto analizzarsi rispetto alle singole capacità di orientare i propri “segmenti”, verso la composizione di un’immagine, lontana o vicina, di sé.
C’è chi ha accostato le opere di Camilla Ancilotto al Cubo Rubik, ideato dall’architetto e scultore ungherese Erno Rubik, al fine d’essere ultimato nei sei diversi colori. Ritengo, al contrario, che l’artista persegua, un obiettivo antitetico al gioco didattico inventato nel ’74, poiché ella, oltremodo sensibile alla complessità della realtà, pur creando un’immagine che va a ricomporsi, ne traspone altre ed altre ancora alla stessa.
Una splendida metafora del nostro destino, quasi un farsi arte visiva del celebre romanzo di Luigi Pirandello “Uno, nessuno, centomila”. Il messaggio del grande scrittore e drammaturgo converge nella pittura di Camilla: quei suoi autoritratti compositi non sono altro, a mio avviso, che la concretizzazione del concetto propugnato da Pirandello, e cioè che tutto sta “nella consapevolezza che l'uomo non è Uno, e che la realtà non è oggettiva. Il protagonista del romanzo passa dal considerarsi unico per tutti (Uno) a concepire che egli è un nulla, (Nessuno), passando alla consapevolezza di se stesso che l'individuo assume nel suo rapporto con gli altri (Centomila). In questo modo, la realtà perde la sua oggettività e si sgretola nell'infinito vortice del relativismo. Vitangelo Moscarda, nel suo tentativo di distruggere i centomila estranei che vivono negli altri, le centomila concezioni che gli altri hanno di lui, viene considerato un “diverso” dalla gente, la quale non riesce a metabolizzare il fatto che il mondo sia diverso dalla sua piatta rappresentazione.”
Un concetto che, dunque, possiamo riportare alle opere di Camilla Ancilotto ed al suo sforzo di farci venire in contatto con una realtà diversa da quella che testardamente vogliamo illuderci che appaia. Un dono che l’artista ci fa, se siamo pronti a captare questi concetti così sublimi ed al tempo stesso stranianti.
Forse le sorrideva sin dalla nascita un presagio di celebrità: Camilla Ancilotto, artista coinvolgente e di rara profondità rappresentativa, si trova a portare il nome di una guerriera impavida, che Virgilio rese eterna nell’Eneide e Dante, nella Divina Commedia, collocò fra gli Spiriti Magni.
Siamo con certezza di fronte ad un’artista che reca in sé un soffio divino e ispiratore, che sembra concepire opere, così psichicamente composite, da far sentir ciascuno come davanti ad uno specchio.
Uno specchio che scruta ogni “segmento” della personalità, scoprendone le diverse facce, come se quei solidi a base triangolare, roteando su se stessi, offrissero spaccati plurimi dell’ispirazione della Ancilotto e della sua percezione dell’universo umano, in un rincorrersi d’immagini che appare come un’applicazione sapiente e intrecciata, fra arte e psicoterapia, con la mutevolezza conturbante delle immagini che riproduce il gioco di specchi proprio della nostra essenza.
Le intuizioni che Camilla trasmette sollecitano in ciascuno di noi un procedere sul filo dell’autocoscienza, lì dove molti si son sentiti dilaniati in un puzzle di emozioni, sensazioni e percezioni, altri, invece, ne intuiscono interiormente una segmentazione che non si traduce in una sterile deriva esistenziale, proprio perché i blocchi imperniati su un filo d’acciaio consentono di mutare il lato che mostrano al mondo, ma al tempo stesso costituiscono lo scheletro della loro personalità.
Le opere di Camilla, dunque, sostanziano un’arte che sfocia, come un fiume tumultuoso, nella filosofia e nel sollecitare le persone a riflettere su una realtà mutevole consente loro di auto analizzarsi rispetto alle singole capacità di orientare i propri “segmenti”, verso la composizione di un’immagine, lontana o vicina, di sé.
C’è chi ha accostato le opere di Camilla Ancilotto al Cubo Rubik, ideato dall’architetto e scultore ungherese Erno Rubik, al fine d’essere ultimato nei sei diversi colori. Ritengo, al contrario, che l’artista persegua, un obiettivo antitetico al gioco didattico inventato nel ’74, poiché ella, oltremodo sensibile alla complessità della realtà, pur creando un’immagine che va a ricomporsi, ne traspone altre ed altre ancora alla stessa.
Una splendida metafora del nostro destino, quasi un farsi arte visiva del celebre romanzo di Luigi Pirandello “Uno, nessuno, centomila”. Il messaggio del grande scrittore e drammaturgo converge nella pittura di Camilla: quei suoi autoritratti compositi non sono altro, a mio avviso, che la concretizzazione del concetto propugnato da Pirandello, e cioè che tutto sta “nella consapevolezza che l'uomo non è Uno, e che la realtà non è oggettiva. Il protagonista del romanzo passa dal considerarsi unico per tutti (Uno) a concepire che egli è un nulla, (Nessuno), passando alla consapevolezza di se stesso che l'individuo assume nel suo rapporto con gli altri (Centomila). In questo modo, la realtà perde la sua oggettività e si sgretola nell'infinito vortice del relativismo. Vitangelo Moscarda, nel suo tentativo di distruggere i centomila estranei che vivono negli altri, le centomila concezioni che gli altri hanno di lui, viene considerato un “diverso” dalla gente, la quale non riesce a metabolizzare il fatto che il mondo sia diverso dalla sua piatta rappresentazione.”
Un concetto che, dunque, possiamo riportare alle opere di Camilla Ancilotto ed al suo sforzo di farci venire in contatto con una realtà diversa da quella che testardamente vogliamo illuderci che appaia. Un dono che l’artista ci fa, se siamo pronti a captare questi concetti così sublimi ed al tempo stesso stranianti.
Giovanni Faccenda
Architetture del pensiero. Per vedere oltre
«Bisogna vedere quel che non si è visto,
vedere di nuovo quel che si è già visto,
vedere in primavera quel che si è visto in estate,
vedere di giorno quel che si è visto di notte,
con il sole dove la prima volta pioveva,
la pietra che ha cambiato posto.»
José Saramago
Uno dei pregiudizi più diffusi ancora oggi nel mondo dell’arte – sebbene in molti lo neghino con inguaribile impudenza – riguarda l’opera delle donne, vista con diffidenza, peggio, con sospetto, da talune menti ignoranti e limitate che mantengono una incomprensibile distanza – addirittura emotiva – rispetto ai vertici raggiunti, in quattro secoli di pittura, da talenti aristocratici, quali quelli di Artemisia Gentileschi, Suzanne Valadon, Tamara De Lempicka, Natalia Goncharova e Frida Khalo. Quattro secoli che possiamo far idealmente iniziare nel 1610, quando la diciassettenne Artemisia porta a compimento, probabilmente con l’aiuto del padre Orazio, la prima opera a lei attribuita: Susanna e i vecchioni.
Roma, la città eterna, è il luogo incantato che assiste alla nascita di quel capolavoro, in un anno che rimarrà memorabile anche per la morte di Caravaggio a Porto Ercole, nella non lontana Maremma.
Roma e la Toscana. Scenari consueti per i prodigi dell’arte. Luoghi di sosta o di passaggio per pendolari illustri in cerca di suggestioni sospese tra primitivismo, rinascimento e barocco. Teatro di storie che accendono, talvolta, un’esistenza, come quella di Camilla Ancilotto, artista emergente romana attiva, in alcuni periodi dell’anno, nel cuore della campagna etrusca, tra Siena e l’Argentario, là dove ancora aleggia il fantasma di Guidoriccio da Fogliano, in quella sua solenne posa a cavallo, così come lo ha dipinto, nel celebre affresco, Simone Martini.
Avevo notato un lavoro di Camilla, qualche anno fa, in una mostra collettiva capitolina, in cui era presente l’opera di un pittore che io reputo tra i maggiori in ambito contemporaneo: Giuseppe Modica. Mi aveva colpito, in verità, quel suo singolare assemblaggio di solidi a base triangolare, dipinti sui tre lati e attraversati da un perno verticale interno, pensati per essere roteati, sì da mutare l’iniziale rappresentazione in altre innumerevoli, stranianti quanto sorprendenti.
In pratica, una tale idea riusciva a concretizzare ciò che, in pittura, era da ritenersi impensabile, almeno in riferimento al fruitore: ovvero, la soggettivazione dell’immagine, addirittura la sua possibile personalizzazione, in base al gusto specifico di ciascuno. Qualcosa di straordinario: giusto, in questo caso, spendere l’abusato aggettivo.
Il solo rischio – allora mi era parso – che potesse correre un elaborato tanto audace e originale era il probabile fraintendimento di certuni semplicioni, così definibili per le amenità che ricorrono nelle loro abituali interpretazioni. Più precisamente, l’eventualità che si finisse per equivocare in un ambito ludico – qualcuno, infatti, in passato ha citato il cubo di Rubik – una rivoluzione espressiva di evidente spessore, non poteva non essere presa in considerazione da chi ben conosce il genere di mediocrità che contraddistingue molti osservatori nostrani, esperti di niente che valga davvero la pena di sapere.
Stupisce, semmai, che tante rassegne pubbliche, dichiaratamente rivolte ai nuovi linguaggi e alle più eccentriche sperimentazioni, non abbiano ancora presentato gli esiti della ricerca di Camilla Ancilotto, invero una delle poche figure degne d’attenzione in uno scenario tristemente omologato verso il basso. Dinanzi ad una sempre più preoccupante aridità creativa e intellettuale, lo sforzo ideativo di quest’artista, l’impegno che ella mette nelle lunghe fasi, ognuna determinate nella realizzazione delle sue opere – si vedano, ad esempio, certi lucidi e i disegni pubblicati in questo catalogo ed esposti in mostra – non possono che suscitare ammirazione, così come i motivi trattati, sovente di ordine mitologico, etico o filosofico.
Ma è soprattutto quando Camilla recupera alcuni sublimi modelli di arte antica – l’Uomo vitruviano di Leonardo, l’Adamo ed Eva di Tiziano, le Tre Grazie di Raffaello, le Allegorie di Bronzino –, per «distruggerli» e subito farli risorgere in un ordito visivo mutabile e mai definitivo, che, consapevolmente, compie una rivisitazione, se vogliamo, anche dissacrante, nella quale l’aspetto più pregevole è la lontananza mantenuta da ogni citazione di mero valore illustrativo.
Così, in quelle sue architetture del pensiero continuamente abitate da un’immaginazione sorgiva e da uno spirito che s’indovina sognatore e romantico, i solidi – triangolari o rettangolari, di legno o d’acciaio – finiscono per diventare tessere di un mosaico che si legittima tanto nella composizione primaria quanto nei successivi interventi, in un processo in divenire, disponibile e affascinante all’evenienza, nel quale ogni modificazione risulta peraltro sempre coerente rispetto all’idea aurorale.
Non par vero di trovare, in questo, arcani intrecci concettuali con il Cinetismo e l’Optical Art, a testimonianza di una consistenza culturale forse non percepibile al primo approccio come di fatto merita, e nella quale – senza essere tacciati di retorica – ci è caro intravedere la pregiata ascendenza degli studi sul dinamismo e la simultaneità di Balla, protagonista assoluto in un Novecento impareggiabile.
Si potrebbe dunque affermare, scendendo più in profondità nel lavoro di Camilla Ancilotto, sotto la pelle stessa delle immagini, che in esse magicamente resiste un carattere visionario, tale da renderle, talvolta, proiezioni enigmatiche di qualcosa di oscuro che alberga nel suo inconscio. Da qui, forse, la sua urgenza di figurare per trasfigurare, di riprodurre per cancellare, di indagare cos’è oltre la dimensione del visibile – che sia, fra l’altro l’icona di Marilyn o quella di Francesco Totti poco importa –, in un’allegoria in fieri, simmetrica, nella sua suggestiva adattabilità, ai comportamenti umani.
L’opera, infine, è di lei che la crea esattamente come di chi la guarda: autore e spettatore concorrono con sostegno reciproco, in un dialogo aperto alla fantasia, alla sorpresa, allo stupore.
Firenze, febbraio 2010.
Critici che hanno desiderato fare gli imprenditori di produzione hanno ottenuto, in ogni caso, consensi Istituzionali, per meccanismi di sistema che non lasciano spazio a causa degli interessi “Made in Italy”. Gli artisti hanno dimostrato che le dinamiche economiche non sono più state solamente il riflesso di tendenze culturali, ma che la produzione artistica degli stessi si adegua alle esigenze di tale mercato. L’equivoco convive, appunto, nel fatto che, essendo l’arte un bene economico, contemplato nelle regole di un mercato promiscuo, proprio con l’escamotage d’appartenere al settore cultura e, di rivendicarne la funzione estetica, quindi quella che le rende ufficialmente opere d’arte, dimostra che alcune “entità” del contesto sono del tutto particolari. Tale argomento ha sempre riscosso grande attenzione da parte di molti economisti, a causa del maggior numero di operatori esistenti oggi nel sistema dell’arte, tanto che sarebbe più corretto parlare di differenti e separati mercati del settore in oggetto, lì dove risulta ancor più discutibile, il rapporto tra la qualità e il livello delle quotazioni determinato dal potere delle strutture mercantili e di chi le espone, sempre, ovviamente, per la loro promozione a sostegno di ciascun artista.
Volendo in quest’ambito promuovere l’indiscutibile talento di Camilla Ancilotto e, soprattutto osservando il suo impegno creativo che accompagna le diverse, laboriose fasi di una produzione artistica articolata, fino al completarsi di un’opera poliedrica, multiforme, piena di mille significati, oggi posso sostenere, senza timore alcuno, d’aver incontrato non poche difficoltà nel riuscirvi; così come posso, allo stesso modo constatare, con grande rammarico, quanto scarso è stato il consenso anche da parte di “non partner” che, potenzialmente avrebbero potuto, a mio avviso, aderire all’iniziativa, ma come risulta ovvio, nel caso che ci riguarda, hanno risposto d’essere impegnati su altri fronti.
L’arte di Camilla Ancilotto ha inizio con l’ideazione figurativa, attraverso precisi e fantasiosi disegni che devono combaciare inconfondibilmente nelle molteplici combinazioni miste, oltre che a rappresentare d’incanto il disegno unico che caratterizza le opere in tasselli scorrevoli, i due che caratterizzano le opere in tasselli o parallelepipedi e, ancora, i tre disegni per le opere in prismi a base triangolare. Sia i parallelepipedi che i prismi, costruiti artigianalmente, vengono poi stuccati, rifiniti e verniciati con tre mani di cementite isolante e aggrappante, per poi essere dipinti con colore fine a olio. Appena pronti saranno montati su di un telaio provvisorio, fatto di barre d’acciaio filettate e poi contenute in una cornice di legno. Il disegno viene così sovrapposto sul telaio, dove ha inizio l’esecuzione a olio. Finito il primo lato, l’artista gira i parallelepipedi o i prismi, fino a formare, come spiegato, la seconda o la terza facciata, prima progettata, di modo che, le figure nel proseguire, si combinino le une alle altre.
Quando tutte le facciate sono finalmente dipinte, si procede al successivo passaggio di omologazione, di modo che le figure, i colori e i toni abbiano un equilibrio tra loro, soprattutto per quanto riguarda la composizione.
Smontato il telaio provvisorio, Camilla colora sia la base superiore, sia quella inferiore degli stessi in nero e, come da fabbro, inizia il montaggio del lavoro sulla struttura definitiva, fatta di barre d’acciaio con rondelle, sempre saldate una ad una. Parallelepipedi, o prismi, forati al centro con il tornio, rappresentano sempre pezzi unici realizzati interamente a mano, in legno massello per quanto riguarda le opere di piccole dimensioni e in legno cavo per le più imponenti, ma anche in plexiglass, in marmo e acciaio.
L’arte di Camilla Ancilotto è una “metamorfosi nel movimento, dove tanto le icone, quanto i simboli della storia classica e moderna, e della mitologia si fondono fra loro e con gli elementi del nostro pianeta. Opere versatili si ammirano sui “solidi” posti su supporti, strutturate come un “polittico”, e sorrette da una struttura meccanica con perni in metallo che consentono la loro roteazione e, con la sola pressione delle mani, compongono fasce parallele dei “solidi” che creano la successione di immagini, e così interagendo, se ne attraversano i significati. Al centro l’uomo come protagonista, osservato nel suo rapporto nel tempo e nella storia con il pianeta e le grandi potenzialità a lui offerte dalla natura. Per la scelta d’accrescere la propria capacità di generazione Liberamentepeople guarda al futuro.
Francesca Ascoli Scotti
Camilla Ancilotto è nata a Roma il 14 Ottobre 1970; vive e lavora tra la toscana e Roma.
Nel 1993 comincia ad approfondire i suoi studi artistici presso l’Istituto Europeo di Design e la Scuola delle Arti Ornamentali San Giacomo a Roma.
In quegli anni partecipa a diverse Mostre collettive nella Capitale.
Nel 1997 decide di arricchire il suo curriculum di un’esperienza di studio e lavoro oltreoceano, a New York, presso la New York Academy of Art, dove consegue un diploma di MFA (Master in Fine Art) con il massimo dei voti.
A New York partecipa con successo a due Mostre collettive presso la galleria Atmosphere nel quartiere di Chelsea a Manhattan, e a un concorso di arte figurativa presso la galleria Studio 4 West di New York, dove riscuote il successo di pubblico e critica;
Torna a Roma nel 2001, e nel 2002 partecipa alla prima edizione del Concorso Nazionale per Artisti “ La mia idea di campagna romana e laziale” presso il Castello Baronale di Fondi ( vincendo il 4° premio).
Nel febbraio del 2003 presenta la sua prima mostra personale presso la galleria CA’ d’ORO di Roma.
Nello stesso anno la galleria CA’ d’ORO di Roma, presenta l’opera “Venere Reclina” alla primaverile romana dell’A.R.G.A.M (Associazione Romana Gallerie d’Arte Moderna).
Nel Marzo 2004 espone presso lo Spazio Culturale di Santa Chiara, al GAI di Vercelli, un’opera per triennale riservata ai giovani artisti.
Sempre presso la galleria CA’ d’ORO di Roma, partecipa a due Mostre colletive: “Bestiario” con opere di Caruso, Porzano, e Vespignani affiancati da giovani proposte; e una dedicata a Rembradt, nel 2006, con artisti quali, Calabria, Kokocinsky, Guarienti, Modica e altri.
Nel 2008 viene chiamata ad esporre presso la galleria Davico di Torino.
Al 2009 risalgono le mostre “Scomposizioni” e “Omaggio a de Chirico”, entrambe svoltesi presso il Palazzo Torlonia in Roma, galleria CA’ d’ORO Roma.
La Mostra “Omaggio a de Chirico”, galleria CA’ d’ORO di Roma, nel 2010 diviene itinerante in America, nelle città di: Miami, Los Angeles e New York.
Mostre collettive 1998 Atmosphere gallery, New York.
2000 Galleria Studio 4 West, New York.
2000 Atmosphere gallery, New York.
2002 RipArte International Art Fair, Roma.
2002 La Campagna Romana, Castello Baronale di Fondi.
2003 Premio Nazionale di Pittura “Città di Fondi”.
2003 Sotto/ Sopra, Primaverile Romana A.R.G.A.M
2004 Triennale di Vercelli Giovani Artisti.
2005 Galleria CA’ d’ORO, Roma (A.R.G.A.M.).
2005 Galleria Cortese & Lisanti, Roma.
2006 Zodiaco, galleria Davico, Torino.
2006 Omaggio a Rembrandt 1606/2006, galleria CA’ d’ORO, Roma.
2007 Per Bacco, Palazzo Antinori, Firenze.
2007 “Roma visioni di una Capitale”, galleria Cortese & Lisanti, Roma.
2008 “Omaggio a de Chirico” galleria CA’ d’ORO, Roma.
2008 “Donne d’Arte”, galleria Cortese & Lisanti, Roma.
2009 “Scomposizioni” Palazzo Torlonia, Roma, galleria CA’ d’ORO, Roma.
2009 “Omaggio a de Chirico” Palazzo Torlonia, Roma, galleria CA’ d’ORO,
Roma.
2010 “Omaggio a de Chirico” itinerante Miami, New York, Los Angeles
con la galleria CA’ d’ORO, Roma.
Mostre Personali: 2003 Galleria CA’ d’ORO, Roma.
2008 Galleria Davico, Torino.
Giovanni Faccenda
Architetture del pensiero. Per vedere oltre
«Bisogna vedere quel che non si è visto,
vedere di nuovo quel che si è già visto,
vedere in primavera quel che si è visto in estate,
vedere di giorno quel che si è visto di notte,
con il sole dove la prima volta pioveva,
la pietra che ha cambiato posto.»
José Saramago
Uno dei pregiudizi più diffusi ancora oggi nel mondo dell’arte – sebbene in molti lo neghino con inguaribile impudenza – riguarda l’opera delle donne, vista con diffidenza, peggio, con sospetto, da talune menti ignoranti e limitate che mantengono una incomprensibile distanza – addirittura emotiva – rispetto ai vertici raggiunti, in quattro secoli di pittura, da talenti aristocratici, quali quelli di Artemisia Gentileschi, Suzanne Valadon, Tamara De Lempicka, Natalia Goncharova e Frida Khalo. Quattro secoli che possiamo far idealmente iniziare nel 1610, quando la diciassettenne Artemisia porta a compimento, probabilmente con l’aiuto del padre Orazio, la prima opera a lei attribuita: Susanna e i vecchioni.
Roma, la città eterna, è il luogo incantato che assiste alla nascita di quel capolavoro, in un anno che rimarrà memorabile anche per la morte di Caravaggio a Porto Ercole, nella non lontana Maremma.
Roma e la Toscana. Scenari consueti per i prodigi dell’arte. Luoghi di sosta o di passaggio per pendolari illustri in cerca di suggestioni sospese tra primitivismo, rinascimento e barocco. Teatro di storie che accendono, talvolta, un’esistenza, come quella di Camilla Ancilotto, artista emergente romana attiva, in alcuni periodi dell’anno, nel cuore della campagna etrusca, tra Siena e l’Argentario, là dove ancora aleggia il fantasma di Guidoriccio da Fogliano, in quella sua solenne posa a cavallo, così come lo ha dipinto, nel celebre affresco, Simone Martini.
Avevo notato un lavoro di Camilla, qualche anno fa, in una mostra collettiva capitolina, in cui era presente l’opera di un pittore che io reputo tra i maggiori in ambito contemporaneo: Giuseppe Modica. Mi aveva colpito, in verità, quel suo singolare assemblaggio di solidi a base triangolare, dipinti sui tre lati e attraversati da un perno verticale interno, pensati per essere roteati, sì da mutare l’iniziale rappresentazione in altre innumerevoli, stranianti quanto sorprendenti.
In pratica, una tale idea riusciva a concretizzare ciò che, in pittura, era da ritenersi impensabile, almeno in riferimento al fruitore: ovvero, la soggettivazione dell’immagine, addirittura la sua possibile personalizzazione, in base al gusto specifico di ciascuno. Qualcosa di straordinario: giusto, in questo caso, spendere l’abusato aggettivo.
Il solo rischio – allora mi era parso – che potesse correre un elaborato tanto audace e originale era il probabile fraintendimento di certuni semplicioni, così definibili per le amenità che ricorrono nelle loro abituali interpretazioni. Più precisamente, l’eventualità che si finisse per equivocare in un ambito ludico – qualcuno, infatti, in passato ha citato il cubo di Rubik – una rivoluzione espressiva di evidente spessore, non poteva non essere presa in considerazione da chi ben conosce il genere di mediocrità che contraddistingue molti osservatori nostrani, esperti di niente che valga davvero la pena di sapere.
Stupisce, semmai, che tante rassegne pubbliche, dichiaratamente rivolte ai nuovi linguaggi e alle più eccentriche sperimentazioni, non abbiano ancora presentato gli esiti della ricerca di Camilla Ancilotto, invero una delle poche figure degne d’attenzione in uno scenario tristemente omologato verso il basso. Dinanzi ad una sempre più preoccupante aridità creativa e intellettuale, lo sforzo ideativo di quest’artista, l’impegno che ella mette nelle lunghe fasi, ognuna determinate nella realizzazione delle sue opere – si vedano, ad esempio, certi lucidi e i disegni pubblicati in questo catalogo ed esposti in mostra – non possono che suscitare ammirazione, così come i motivi trattati, sovente di ordine mitologico, etico o filosofico.
Ma è soprattutto quando Camilla recupera alcuni sublimi modelli di arte antica – l’Uomo vitruviano di Leonardo, l’Adamo ed Eva di Tiziano, le Tre Grazie di Raffaello, le Allegorie di Bronzino –, per «distruggerli» e subito farli risorgere in un ordito visivo mutabile e mai definitivo, che, consapevolmente, compie una rivisitazione, se vogliamo, anche dissacrante, nella quale l’aspetto più pregevole è la lontananza mantenuta da ogni citazione di mero valore illustrativo.
Così, in quelle sue architetture del pensiero continuamente abitate da un’immaginazione sorgiva e da uno spirito che s’indovina sognatore e romantico, i solidi – triangolari o rettangolari, di legno o d’acciaio – finiscono per diventare tessere di un mosaico che si legittima tanto nella composizione primaria quanto nei successivi interventi, in un processo in divenire, disponibile e affascinante all’evenienza, nel quale ogni modificazione risulta peraltro sempre coerente rispetto all’idea aurorale.
Non par vero di trovare, in questo, arcani intrecci concettuali con il Cinetismo e l’Optical Art, a testimonianza di una consistenza culturale forse non percepibile al primo approccio come di fatto merita, e nella quale – senza essere tacciati di retorica – ci è caro intravedere la pregiata ascendenza degli studi sul dinamismo e la simultaneità di Balla, protagonista assoluto in un Novecento impareggiabile.
Si potrebbe dunque affermare, scendendo più in profondità nel lavoro di Camilla Ancilotto, sotto la pelle stessa delle immagini, che in esse magicamente resiste un carattere visionario, tale da renderle, talvolta, proiezioni enigmatiche di qualcosa di oscuro che alberga nel suo inconscio. Da qui, forse, la sua urgenza di figurare per trasfigurare, di riprodurre per cancellare, di indagare cos’è oltre la dimensione del visibile – che sia, fra l’altro l’icona di Marilyn o quella di Francesco Totti poco importa –, in un’allegoria in fieri, simmetrica, nella sua suggestiva adattabilità, ai comportamenti umani.
L’opera, infine, è di lei che la crea esattamente come di chi la guarda: autore e spettatore concorrono con sostegno reciproco, in un dialogo aperto alla fantasia, alla sorpresa, allo stupore.
Firenze, febbraio 2010.
Forse le sorrideva sin dalla nascita un presagio di celebrità: Camilla Ancilotto, artista coinvolgente e di rara profondità rappresentativa, si trova a portare il nome di una guerriera impavida, che Virgilio rese eterna nell’Eneide e Dante, nella Divina Commedia, collocò fra gli Spiriti Magni.
Siamo con certezza di fronte ad un’artista che reca in sé un soffio divino e ispiratore, che sembra concepire opere, così psichicamente composite, da far sentir ciascuno come davanti ad uno specchio.
Uno specchio che scruta ogni “segmento” della personalità, scoprendone le diverse facce, come se quei solidi a base triangolare, roteando su se stessi, offrissero spaccati plurimi dell’ispirazione della Ancilotto e della sua percezione dell’universo umano, in un rincorrersi d’immagini che appare come un’applicazione sapiente e intrecciata, fra arte e psicoterapia, con la mutevolezza conturbante delle immagini che riproduce il gioco di specchi proprio della nostra essenza.
Le intuizioni che Camilla trasmette sollecitano in ciascuno di noi un procedere sul filo dell’autocoscienza, lì dove molti si son sentiti dilaniati in un puzzle di emozioni, sensazioni e percezioni, altri, invece, ne intuiscono interiormente una segmentazione che non si traduce in una sterile deriva esistenziale, proprio perché i blocchi imperniati su un filo d’acciaio consentono di mutare il lato che mostrano al mondo, ma al tempo stesso costituiscono lo scheletro della loro personalità.
Le opere di Camilla, dunque, sostanziano un’arte che sfocia, come un fiume tumultuoso, nella filosofia e nel sollecitare le persone a riflettere su una realtà mutevole consente loro di auto analizzarsi rispetto alle singole capacità di orientare i propri “segmenti”, verso la composizione di un’immagine, lontana o vicina, di sé.
C’è chi ha accostato le opere di Camilla Ancilotto al Cubo Rubik, ideato dall’architetto e scultore ungherese Erno Rubik, al fine d’essere ultimato nei sei diversi colori. Ritengo, al contrario, che l’artista persegua, un obiettivo antitetico al gioco didattico inventato nel ’74, poiché ella, oltremodo sensibile alla complessità della realtà, pur creando un’immagine che va a ricomporsi, ne traspone altre ed altre ancora alla stessa.
Una splendida metafora del nostro destino, quasi un farsi arte visiva del celebre romanzo di Luigi Pirandello “Uno, nessuno, centomila”. Il messaggio del grande scrittore e drammaturgo converge nella pittura di Camilla: quei suoi autoritratti compositi non sono altro, a mio avviso, che la concretizzazione del concetto propugnato da Pirandello, e cioè che tutto sta “nella consapevolezza che l'uomo non è Uno, e che la realtà non è oggettiva. Il protagonista del romanzo passa dal considerarsi unico per tutti (Uno) a concepire che egli è un nulla, (Nessuno), passando alla consapevolezza di se stesso che l'individuo assume nel suo rapporto con gli altri (Centomila). In questo modo, la realtà perde la sua oggettività e si sgretola nell'infinito vortice del relativismo. Vitangelo Moscarda, nel suo tentativo di distruggere i centomila estranei che vivono negli altri, le centomila concezioni che gli altri hanno di lui, viene considerato un “diverso” dalla gente, la quale non riesce a metabolizzare il fatto che il mondo sia diverso dalla sua piatta rappresentazione.”
Un concetto che, dunque, possiamo riportare alle opere di Camilla Ancilotto ed al suo sforzo di farci venire in contatto con una realtà diversa da quella che testardamente vogliamo illuderci che appaia. Un dono che l’artista ci fa, se siamo pronti a captare questi concetti così sublimi ed al tempo stesso stranianti.
Forse le sorrideva sin dalla nascita un presagio di celebrità: Camilla Ancilotto, artista coinvolgente e di rara profondità rappresentativa, si trova a portare il nome di una guerriera impavida, che Virgilio rese eterna nell’Eneide e Dante, nella Divina Commedia, collocò fra gli Spiriti Magni.
Siamo con certezza di fronte ad un’artista che reca in sé un soffio divino e ispiratore, che sembra concepire opere, così psichicamente composite, da far sentir ciascuno come davanti ad uno specchio.
Uno specchio che scruta ogni “segmento” della personalità, scoprendone le diverse facce, come se quei solidi a base triangolare, roteando su se stessi, offrissero spaccati plurimi dell’ispirazione della Ancilotto e della sua percezione dell’universo umano, in un rincorrersi d’immagini che appare come un’applicazione sapiente e intrecciata, fra arte e psicoterapia, con la mutevolezza conturbante delle immagini che riproduce il gioco di specchi proprio della nostra essenza.
Le intuizioni che Camilla trasmette sollecitano in ciascuno di noi un procedere sul filo dell’autocoscienza, lì dove molti si son sentiti dilaniati in un puzzle di emozioni, sensazioni e percezioni, altri, invece, ne intuiscono interiormente una segmentazione che non si traduce in una sterile deriva esistenziale, proprio perché i blocchi imperniati su un filo d’acciaio consentono di mutare il lato che mostrano al mondo, ma al tempo stesso costituiscono lo scheletro della loro personalità.
Le opere di Camilla, dunque, sostanziano un’arte che sfocia, come un fiume tumultuoso, nella filosofia e nel sollecitare le persone a riflettere su una realtà mutevole consente loro di auto analizzarsi rispetto alle singole capacità di orientare i propri “segmenti”, verso la composizione di un’immagine, lontana o vicina, di sé.
C’è chi ha accostato le opere di Camilla Ancilotto al Cubo Rubik, ideato dall’architetto e scultore ungherese Erno Rubik, al fine d’essere ultimato nei sei diversi colori. Ritengo, al contrario, che l’artista persegua, un obiettivo antitetico al gioco didattico inventato nel ’74, poiché ella, oltremodo sensibile alla complessità della realtà, pur creando un’immagine che va a ricomporsi, ne traspone altre ed altre ancora alla stessa.
Una splendida metafora del nostro destino, quasi un farsi arte visiva del celebre romanzo di Luigi Pirandello “Uno, nessuno, centomila”. Il messaggio del grande scrittore e drammaturgo converge nella pittura di Camilla: quei suoi autoritratti compositi non sono altro, a mio avviso, che la concretizzazione del concetto propugnato da Pirandello, e cioè che tutto sta “nella consapevolezza che l'uomo non è Uno, e che la realtà non è oggettiva. Il protagonista del romanzo passa dal considerarsi unico per tutti (Uno) a concepire che egli è un nulla, (Nessuno), passando alla consapevolezza di se stesso che l'individuo assume nel suo rapporto con gli altri (Centomila). In questo modo, la realtà perde la sua oggettività e si sgretola nell'infinito vortice del relativismo. Vitangelo Moscarda, nel suo tentativo di distruggere i centomila estranei che vivono negli altri, le centomila concezioni che gli altri hanno di lui, viene considerato un “diverso” dalla gente, la quale non riesce a metabolizzare il fatto che il mondo sia diverso dalla sua piatta rappresentazione.”
Un concetto che, dunque, possiamo riportare alle opere di Camilla Ancilotto ed al suo sforzo di farci venire in contatto con una realtà diversa da quella che testardamente vogliamo illuderci che appaia. Un dono che l’artista ci fa, se siamo pronti a captare questi concetti così sublimi ed al tempo stesso stranianti.
Giovanni Faccenda
Architetture del pensiero. Per vedere oltre
«Bisogna vedere quel che non si è visto,
vedere di nuovo quel che si è già visto,
vedere in primavera quel che si è visto in estate,
vedere di giorno quel che si è visto di notte,
con il sole dove la prima volta pioveva,
la pietra che ha cambiato posto.»
José Saramago
Uno dei pregiudizi più diffusi ancora oggi nel mondo dell’arte – sebbene in molti lo neghino con inguaribile impudenza – riguarda l’opera delle donne, vista con diffidenza, peggio, con sospetto, da talune menti ignoranti e limitate che mantengono una incomprensibile distanza – addirittura emotiva – rispetto ai vertici raggiunti, in quattro secoli di pittura, da talenti aristocratici, quali quelli di Artemisia Gentileschi, Suzanne Valadon, Tamara De Lempicka, Natalia Goncharova e Frida Khalo. Quattro secoli che possiamo far idealmente iniziare nel 1610, quando la diciassettenne Artemisia porta a compimento, probabilmente con l’aiuto del padre Orazio, la prima opera a lei attribuita: Susanna e i vecchioni.
Roma, la città eterna, è il luogo incantato che assiste alla nascita di quel capolavoro, in un anno che rimarrà memorabile anche per la morte di Caravaggio a Porto Ercole, nella non lontana Maremma.
Roma e la Toscana. Scenari consueti per i prodigi dell’arte. Luoghi di sosta o di passaggio per pendolari illustri in cerca di suggestioni sospese tra primitivismo, rinascimento e barocco. Teatro di storie che accendono, talvolta, un’esistenza, come quella di Camilla Ancilotto, artista emergente romana attiva, in alcuni periodi dell’anno, nel cuore della campagna etrusca, tra Siena e l’Argentario, là dove ancora aleggia il fantasma di Guidoriccio da Fogliano, in quella sua solenne posa a cavallo, così come lo ha dipinto, nel celebre affresco, Simone Martini.
Avevo notato un lavoro di Camilla, qualche anno fa, in una mostra collettiva capitolina, in cui era presente l’opera di un pittore che io reputo tra i maggiori in ambito contemporaneo: Giuseppe Modica. Mi aveva colpito, in verità, quel suo singolare assemblaggio di solidi a base triangolare, dipinti sui tre lati e attraversati da un perno verticale interno, pensati per essere roteati, sì da mutare l’iniziale rappresentazione in altre innumerevoli, stranianti quanto sorprendenti.
In pratica, una tale idea riusciva a concretizzare ciò che, in pittura, era da ritenersi impensabile, almeno in riferimento al fruitore: ovvero, la soggettivazione dell’immagine, addirittura la sua possibile personalizzazione, in base al gusto specifico di ciascuno. Qualcosa di straordinario: giusto, in questo caso, spendere l’abusato aggettivo.
Il solo rischio – allora mi era parso – che potesse correre un elaborato tanto audace e originale era il probabile fraintendimento di certuni semplicioni, così definibili per le amenità che ricorrono nelle loro abituali interpretazioni. Più precisamente, l’eventualità che si finisse per equivocare in un ambito ludico – qualcuno, infatti, in passato ha citato il cubo di Rubik – una rivoluzione espressiva di evidente spessore, non poteva non essere presa in considerazione da chi ben conosce il genere di mediocrità che contraddistingue molti osservatori nostrani, esperti di niente che valga davvero la pena di sapere.
Stupisce, semmai, che tante rassegne pubbliche, dichiaratamente rivolte ai nuovi linguaggi e alle più eccentriche sperimentazioni, non abbiano ancora presentato gli esiti della ricerca di Camilla Ancilotto, invero una delle poche figure degne d’attenzione in uno scenario tristemente omologato verso il basso. Dinanzi ad una sempre più preoccupante aridità creativa e intellettuale, lo sforzo ideativo di quest’artista, l’impegno che ella mette nelle lunghe fasi, ognuna determinate nella realizzazione delle sue opere – si vedano, ad esempio, certi lucidi e i disegni pubblicati in questo catalogo ed esposti in mostra – non possono che suscitare ammirazione, così come i motivi trattati, sovente di ordine mitologico, etico o filosofico.
Ma è soprattutto quando Camilla recupera alcuni sublimi modelli di arte antica – l’Uomo vitruviano di Leonardo, l’Adamo ed Eva di Tiziano, le Tre Grazie di Raffaello, le Allegorie di Bronzino –, per «distruggerli» e subito farli risorgere in un ordito visivo mutabile e mai definitivo, che, consapevolmente, compie una rivisitazione, se vogliamo, anche dissacrante, nella quale l’aspetto più pregevole è la lontananza mantenuta da ogni citazione di mero valore illustrativo.
Così, in quelle sue architetture del pensiero continuamente abitate da un’immaginazione sorgiva e da uno spirito che s’indovina sognatore e romantico, i solidi – triangolari o rettangolari, di legno o d’acciaio – finiscono per diventare tessere di un mosaico che si legittima tanto nella composizione primaria quanto nei successivi interventi, in un processo in divenire, disponibile e affascinante all’evenienza, nel quale ogni modificazione risulta peraltro sempre coerente rispetto all’idea aurorale.
Non par vero di trovare, in questo, arcani intrecci concettuali con il Cinetismo e l’Optical Art, a testimonianza di una consistenza culturale forse non percepibile al primo approccio come di fatto merita, e nella quale – senza essere tacciati di retorica – ci è caro intravedere la pregiata ascendenza degli studi sul dinamismo e la simultaneità di Balla, protagonista assoluto in un Novecento impareggiabile.
Si potrebbe dunque affermare, scendendo più in profondità nel lavoro di Camilla Ancilotto, sotto la pelle stessa delle immagini, che in esse magicamente resiste un carattere visionario, tale da renderle, talvolta, proiezioni enigmatiche di qualcosa di oscuro che alberga nel suo inconscio. Da qui, forse, la sua urgenza di figurare per trasfigurare, di riprodurre per cancellare, di indagare cos’è oltre la dimensione del visibile – che sia, fra l’altro l’icona di Marilyn o quella di Francesco Totti poco importa –, in un’allegoria in fieri, simmetrica, nella sua suggestiva adattabilità, ai comportamenti umani.
L’opera, infine, è di lei che la crea esattamente come di chi la guarda: autore e spettatore concorrono con sostegno reciproco, in un dialogo aperto alla fantasia, alla sorpresa, allo stupore.
Firenze, febbraio 2010.
15
marzo 2010
Camilla Ancilotto – Metamorfosi
Dal 15 marzo al 15 aprile 2010
arte contemporanea
Location
CHIOSTRO DEL BRAMANTE
Roma, Arco Della Pace, 5, (Roma)
Roma, Arco Della Pace, 5, (Roma)
Ufficio stampa
LIBERAMENTE
Autore