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Antonio Schiavano – The Beauty and the Bane

La mostra esplora il rapporto tra estetica e autenticità, mettendo in discussione gli stereotipi della bellezza. Il percorso espositivo prevede una selezione di opere fotografiche e suggestive installazioni immersive con proiezioni e giochi di luce che amplificano il messaggio della mostra.

Comunicato stampa  
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22 marzo 2025

Antonio Schiavano – The Beauty and the Bane

Dal 22 marzo al 03 aprile 2025
arte contemporanea
fotografia
personale
Location
Orario di apertura
da lunedì a sabato ore 15.30 - 19.30
Vernissage
22 Marzo 2025, 17.30
Sito web
Autore
Curatore

5 Commenti

  1. Ho avuto modo di visitare la recente mostra The Beauty and the Bane a Torino, un’esposizione che ambisce a collocarsi nel solco dell’arte contemporanea con un linguaggio visivo che, almeno nelle intenzioni, vorrebbe trascendere la mera fotografia per approdare a una dimensione più concettuale. Tuttavia, ciò che si palesa dinanzi allo spettatore attento è un’operazione che sembra più studiata che sentita, più costruita che necessaria.

    Sin dal primo impatto, è evidente che la volontà che muove questo progetto non sia tanto l’urgenza di comunicare, quanto piuttosto quella di farsi notare. Il percorso espositivo è pensato più per stupire che per interrogare, più per impressionare il pubblico con il suo apparato scenografico che per coinvolgerlo in un autentico dialogo con l’opera. Installazioni immersive, giochi di luce, allestimenti che gridano alla spettacolarizzazione: tutto contribuisce a creare l’effetto di una grande messa in scena, il cui fine ultimo sembra essere più l’autocelebrazione che la ricerca espressiva.

    Ma ciò che colpisce maggiormente è la sensazione che non tutto in questa mostra sia effettivamente frutto dell’estro del presunto artista. Le fotografie, graffiate e trattate con oli e vernici, appaiono come il risultato di un gesto più arbitrario che consapevole, un atto eseguito senza una reale comprensione del suo senso. Si ha l’impressione che qualcuno, dietro le quinte, abbia poi cucito a posteriori una giustificazione teorica attorno a questa scelta, fornendo al fotografo un vocabolario concettuale da spendere nei contesti giusti. Un curatore, un ghostwriter del pensiero, un architetto della narrazione artistica che si è occupato di costruire il personaggio e la sua ricerca artistica. Tutto ciò appare assai evidente nel momento in cui è l’artista stesso a dover raccontare de visu il suo stesso lavoro: una narrazione piatta, confusa, con scarsa dialettica e conoscenza, che manca della profondità e di quell’urgenza di comunicare che invece appare lampante in tutte le comunicazioni messe per iscritto da figure terze, portando in scena invece un discorso retorico e scontato contro la chirurgia estetica.

    Ecco il vero nodo della questione: è alquanto facile interpretare il ruolo dell’artista quando c’è chi si occupa di farci apparire tali. In un sistema in cui l’immagine conta più della sostanza, basta circondarsi delle giuste menti per conferire spessore a un’operazione che, di per sé, risulta sterile. Ma l’arte non nasce per procura, non si edifica con il solo apparato retorico. Si manifesta nella necessità, nel tormento della creazione, nell’urgenza di dire qualcosa che altrimenti resterebbe indicibile. Qui, invece, si percepisce solo il calcolo e la ricerca di riconoscimenti. E mentre la critica compiacente si affretta a legittimare l’ennesimo nome nel circuito, chi ancora distingue l’oro dalla patina dorata non può che constatare l’evidente: l’arte non si auto-dichiara, si incarna. E questa, più che un’incarnazione, sembra una messinscena ben orchestrata.

    • La critica, anche quella più dura, fa parte del gioco dell’arte. La ringrazio Simone per aver dedicato del tempo alla visita della mostra The Beauty and the Bane e per scrivere un commento così dettagliato. Mi dispiace che il progetto non sia riuscito a trasmettere il senso profondo da cui è nato: un’urgenza intima, nata da anni di confronto con la fragilità, la bellezza e le ferite che essa può lasciare.

      Le scelte espositive e installative che qualcuno può leggere come “apparato scenografico” sono, per me, strumenti per creare un ambiente che coinvolga i sensi e spinga il visitatore a confrontarsi con il proprio sguardo e con le proprie percezioni. Che poi il linguaggio non arrivi a tutti allo stesso modo, è naturale. Ma ridurre un processo complesso e personale all’idea di una messinscena orchestrata “da altri” è una semplificazione che non rende giustizia né al mio lavoro né alle tante persone che hanno contribuito al progetto con autenticità, sensibilità e visione critica. Tra queste, tengo a citare il curatore Massimo Gioscia, che nel pieno della sua professionalità ha accolto e compreso il messaggio e deciso di dargli non solo spazio, ma anche cura e attenzione nel fare si che la mia urgenza di comunicare potesse arrivare forte e chiara, proprio come l’“Urlo” che ho scelto come immagine chiave di questa mostra.

      Sono sempre pronto a raccontare ciò che faccio con i miei limiti, ma anche con la mia verità. Se il mio modo di parlare non è all’altezza della scrittura di un curatore, forse è proprio perché io non sono un teorico, ma un artista visivo. Le parole non sono la mia materia prima. Le immagini, sì.

      The Beauty and the Bane non vuole dichiarare verità assolute, né educare. Vuole solo aprire uno spazio per riflettere sul nostro modo di guardare e di giudicare. Anche questo commento, nel suo intento critico, contribuisce in qualche modo a questo scopo. E per questo, grazie.

  2. Buongiorno Simone,

    intanto grazie per il tempo speso per questa “recensione”. Come curatore della mostra sono felice che vengano stimolate reazioni, di qualsiasi genere. significa che la mostra in qualche modo “arriva” e fa pensare, oltre che stimolare dibattito su un tema così difficile e filosofico come quello della bellezza. Il pensiero è libero e quindi pensieri come il suo, da visitatore e fruitore della mostra sono comunque stimolanti e restituiscono feedback importanti.

    Da comunicatore e pubblicitario (e anche l’artista proviene da questo mondo) posso dire che l’intento era proprio di quello di “mettere in scena” il pensiero artistico di Schiavano. Del resto, siamo in un ex-teatro e la scenografia delle installazione è stata studiata site specific per enfatizzare la ricerca artistica di Antonio e narrare da dove è partita la sua poetica, con l’intenzione di fare interagire il pubblico con questa. Dopo la sua recensione sono ancora più convinto che siamo sulla buona strada e che la mostra sarà portata in altre città e in altri contesti, per proseguire nel nostro intento divulgativo e portare avanti la nostra “messinscena ben orchestrata”.

    • Gentili Antonio e Massimo,
      innanzitutto, desidero scusarmi per il ritardo con cui giunge questa mia risposta. Non era mia intenzione né ignorare le vostre considerazioni né tantomeno lasciare intendere una mancanza di argomentazioni da parte mia. Semplicemente, non avendo ricevuto alcuna notifica delle vostre repliche e trovandomi in viaggio per lavoro, non ho avuto modo di leggerle in tempo utile. Mi preme ora rispondere con il medesimo rispetto e la medesima cura con cui ho espresso il mio pensiero iniziale.

      Non posso che prendere atto del fatto che il mio giudizio sia stato percepito come una sterile stroncatura, laddove invece si trattava di una lucida analisi critica, maturata in anni di studio e di confronto con l’arte, che non è soltanto una passione per me, ma anche la mia professione e la mia vita. Pertanto, se vi è qualcuno che dovrebbe sentirsi dispiaciuto da queste risposte, paradossalmente, sono io: non per il dissenso, che è lecito e auspicabile nel dibattito artistico, ma per l’implicita insinuazione che io non abbia compreso il progetto, come se la mia fosse una semplice incomprensione o incapacità e non una riflessione ponderata, ma comprendo che non conferire capacità di comprensione agli interlocutori a noi avversi sia un meccanismo quasi inconscio ed automatico della nostra psiche.

      Tengo a precisare di non aver mai negato la qualità esecutiva delle opere né ho inteso svilire il loro valore artigianale. La mia perplessità non riguarda ciò che è stato realizzato, bensì il modo in cui questo è stato costruito e giustificato a posteriori.

      Signor Antonio, lei o chi per lei sottolinea che non è un teorico, ma un artista visivo, e che le parole non sono la sua materia prima. È un’affermazione che troverei condivisibile, se non fosse che proprio le parole sono state l’elemento determinante nel conferire spessore al progetto. Senza i testi, quindi le parole, che hanno avvolto e giustificato la sua produzione, saremmo dinanzi a una serie di fotografie alterate con interventi materici, tecnicamente apprezzabili, ma prive di quella stratificazione concettuale che un artista autentico dovrebbe incarnare sin dal principio. Dunque, il problema non è che lei non sia un teorico, bensì che il senso stesso delle sue opere non sia nato con esse, ma che appaia come costruito successivamente da altri. In arte, la necessità precede sempre il gesto, mentre qui sembra accadere il contrario: si è realizzato prima un manufatto arbitrario e poi si è delegata a terzi l’attribuzione di un significato. Può sembrare una sottile e futile formalità, ma non costituisce il consueto processo creativo di un artista.

      Quanto alla risposta del curatore, non posso che constatare la sua abilità nel trasformare una critica circostanziata in una conferma involontaria della mia tesi. Il riferimento alla “messinscena ben orchestrata” – abile citazione diretta dalla mia recensione – non fa che rafforzare l’impressione che il progetto sia stato costruito con un occhio più attento alla confezione che alla sostanza. L’arte non è pubblicità, né può essere ridotta a un esercizio di comunicazione efficace. Se davvero si crede che la teatralità dell’allestimento e la sua spettacolarizzazione siano sufficienti a giustificare un progetto, allora siamo di fronte non ad un atto artistico in senso stretto, ma ad una raffinata operazione di marketing e a quel punto posso anche comprendere il punto di vista da lei stesso espresso: “l’importante è che se ne parli”.

      Mi auguro che nelle prossime occasioni Schiavano possa cimentarsi nel trovare una propria voce autentica senza dover dipendere dalla dialettica altrui per spiegare il proprio lavoro. L’arte non ha bisogno di essere tradotta da altri: si impone, si manifesta, si incarna. Qui, purtroppo, non ho visto questa necessità, ma solo un insieme di scelte estetiche ben confezionate e poi razionalizzate a posteriori. Se le mie parole sono state scomode, non è per il desiderio di demolire, ma per l’onestà intellettuale con cui osservo ciò che mi si pone dinanzi. In questo mestiere, come in ogni altra forma di espressione artistica, non si può pretendere solo consensi e conferme: a volte bisogna anche confrontarsi con la realtà e i pareri esterni alla nostra cerchia ristretta.

      Non posso che augurare ad entrambi buona fortuna nei rispettivi percorsi professionali.

      Con i migliori auguri,
      Simone

  3. Gentile Simone,

    La ringrazio per aver dedicato ulteriore tempo e riflessione al progetto The Beauty and the Bane, e per aver risposto in maniera argomentata alle nostre osservazioni.

    Chi mi conosce sa che i complimenti mi scivolano addosso: avendo sempre lavorato in trincea, lontano da ogni forma di esibizionismo, cerco con convinzione le critiche, nella speranza che mi aiutino a crescere.

    Non accetto però giudizi superficiali da chi non mi conosce. Ma dato che ha mantenuto un tono rispettoso e aperto, accolgo senza riserve le sue osservazioni e, come artista, non posso che apprezzare il confronto, anche quando porta con sé perplessità profonde. Spero sinceramente di rivederla il 3 aprile, durante il finissage della mostra.

    Ammetto che la parola non è il mio strumento espressivo principale. Ho sempre comunicato meglio attraverso le immagini, l’interazione visiva e lo scritto — forse per imprinting, essendo figlio di una scrittrice e cresciuto a pane e libri. Nei momenti di confronto dal vivo, a volte fatico a restituire la complessità di ciò che ho costruito con cura e coerenza nel mio lavoro. Ma questo non significa che manchi di visione o necessità.

    Conosco artisti e cantautori capaci di scrivere fiumi di emozioni, ma che poi faticano a raccontarsi a voce. Non per questo li considero meno autentici.

    Nessuno ha tradotto il mio lavoro per me. Ho avuto la fortuna di collaborare con professionisti che hanno creduto nel progetto, ma ogni scelta — visiva, concettuale, materiale — e ogni parola scritta, sono nate da me. Se tutto questo non è emerso come avrei voluto, forse è un mio limite comunicativo. Ma non è una prova di mancanza di autenticità.

    Mi avrebbe fatto piacere parlarne di persona, durante la mostra o alla fine del percorso. Non per convincere, ma per confrontarmi guardando negli occhi chi osserva e critica.

    Detto questo, le auguro sinceramente di trovare sempre, nei progetti che incontra, la profondità che giustamente ricerca. Anche nei miei lavori futuri, spero di riuscire a comunicarla in modo sempre più diretto e completo.

    Noi abbiamo giocato a carte scoperte, esponendoci con nome, volto e lavoro. Non ho trovato, al momento, tracce pubbliche del suo impegno professionale nel campo dell’arte, se non nei commenti che ci ha rivolto. Ma se esiste, sarò felice di conoscerlo meglio, magari di persona.

    In ogni caso, per rispetto del confronto e del tempo che ha dedicato al progetto, ho scelto di rispondere con sincerità e trasparenza. Se non ci sarà occasione di vederci il 3 aprile, ​ mi auguro che questa risposta possa chiudere con serenità questo scambio.

    Con immutata considerazione,
    Antonio Shiavano

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