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A Merano una collettiva di artisti contemporanei decostruisce il mito del colonialismo nell’America Latina
Arte contemporanea
«Paesi specializzati nel guadagnare e Paesi specializzati nel rimetterci: ecco il significato della divisione internazionale del lavoro. La nostra regione del mondo, quella che oggi chiamiamo America Latina, è stata precoce: si è specializzata nel rimetterci fin dai lontani tempi in cui gli europei del Rinascimento si sono lanciati attraverso i mari per azzannarle la gola» (Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina)
Kunst Meran Merano Arte ospita fino al 12 ottobre 2025 il progetto espositivo collettivo Earthly Communities, una mostra a cura di Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi che indaga sull’impatto della colonizzazione europea sui territori indigeni di Abya Yala a partire dal XV secolo. Il progetto porta in mostra una coralità di artisti che traducono in linguaggio visivo, azione performativa e produzione filmica le questioni ecologiche, economiche e geopolitiche legate all’impatto della relazione che è intercorsa fra Europa e America Latina nel corso dei secoli. La mostra segna il secondo anno del programma triennale di ricerca curatoriale The Invention of Europe. A tricontinental narrative, in cui Cippitelli e Frangi propongono un’indagine critica dell’idea di Europa come costruzione ideologica e fisica e sui processi che hanno contribuito a definirla in quanto tale grazie allo sfruttamento di altri territori, tracciando un legame diretto tra colonialismo passato e disuguaglianze attuali.

Earthly Communities si inserisce negli spazi fisici del Kunst Meran generando un fortissimo dialogo fra artisti e media diversi. Lo spazio museale, che nella sua conformazione quasi labirintica potrebbe a un primo acchito apparire ostico per un racconto che si dipani in modo lineare e chiaro, si rivela invece non solo estremamente duttile nelle mani dei curatori, ma perfettamente rispondente alle esigenze narrative della mostra: l’impressione, durante la visita, è quella di leggere un libro e sfogliarne le pagine, trovandosi alla fine di un percorso di visita che – non essendo ad anello – non ti permette di uscire dopo l’ultima sala, ma ti costringe a risfogliare tutto, a srotolare nuovamente ogni pensiero formulato e ad assimilare meglio quanto visto. Un processo che contribuisce fortemente ad accentuare il senso di “sospensione” temporale che emerge dalle opere, quasi ci si trovasse in uno spazio fluido che non vede un “prima” e un “dopo”, ma neanche dei confini fisici e geografici.

Parlare di Terra, del resto, significa adottare uno sguardo trasversale, capace di riconoscere anche le presenze che non vediamo fisicamente ma che persistono con intensità nella nostra vita. La Terra non è solo materia da toccare, ma ciò che è “con noi”, al di là dei condizionamenti della visione occidentale.
Esplorando il nesso inscindibile tra giustizia sociale e ambientale, Earthly Communities si aggancia con forza al contesto altoatesino: attraverso la riscoperta di saperi agricoli locali e pratiche sostenibili, il progetto genera un ponte tra le resistenze indigene di Abya Yala e le comunità alpine, sottolineando come entrambe abbiano sviluppato strategie di sopravvivenza in simbiosi con il territorio.

Il percorso espositivo si articola sui tre piani della Kunsthaus, esplorando temi legati a ecologia, memoria, colonialismo e relazioni «più-che-umane». Al primo piano, l’installazione collettiva To Bloom () Florecimiento (2024) di Amanda Piña apre la mostra con un intreccio di resistenza simbolica contro monocolture e capitalismo estrattivo. Accanto, Luigi Coppola propone Flows Over Unities, incentrato sul seme come emblema della relazione tra uomo e terra e invito a valorizzare la biodiversità. Carolina Caycedo, con Mineral Intensive (2024), riflette sul neo-estrattivismo connesso alla transizione ecologica, evocando un futuro segnato da nuove disuguaglianze globali. I lavori di Samuel Sarmiento intrecciano arte e mitologia caraibica in una riscrittura delle genealogie culturali tra Abya Yala ed Europa. Minia Biabiany, con Constellations. Le ciel aux yeux-racines (2021), raffigura le Pleiadi come guida temporale e rituale. Nella stessa sala, Con te devolvo (returning) (2025) di Sallisa Rosa contrappone caravella e canoa indigena in una potente scultura in argilla che affronta la frattura coloniale.

Al secondo piano, Etienne de France presenta Gestes, installazione video in lingue minoritarie che racconta resistenze indigene e fughe dalla violenza coloniale. Eliana Otta espone Virtual Sanctuary for Fertilizing Mourning (2020), un altare memoriale dedicato ai leader amazzonici assassinati in Perù, e An imagined friendship (A spiritual tambito) (2022), che immagina un incontro tra José María Arguedas e Gloria Anzaldúa: un tessuto narrativo che unisce cura, scrittura e culture subalterne.

Al terzo piano, le opere si concentrano sulla relazione tra umano e non-umano. Alexandra Gelis, con AGUA: From River Pulse to Canopy’s Breath (2025), costruisce un ecosistema installativo in cui le piante migranti sono protagoniste della narrazione anticoloniale. In Peinar las raíces XII (2022), Marilyn Boror Bor racconta la distruzione ambientale e culturale in Guatemala attraverso cemento trafitto da fili tessili. Il duo Mazenett Quiroga chiude la mostra con Still Alive (2025), un banchetto di verdure antropomorfe destinate alla decomposizione, e Geophilia (2025), dove pietre tatuate dialogano come membri della comunità terrena.
Queste opere, in relazione l’una con l’altra, non si limitano ad abitare lo spazio museale; interrogano lo spettatore su come egli abiti il proprio tempo, il proprio stesso pianeta.

Una così ampia tematica, che abbraccia un caleidoscopio infinito di visioni possibili e si dirama nell’interpretazione – coerente ma pur sempre personalissima – dei singoli artisti, è guidata da un filo curatoriale che riesce a restituire tanti tagli trasversali ma chirurgicamente esatti. Il risultato finale, che viene restituito al visitatore, è un’esposizione perfettamente coerente ma anche estremamente sfaccettata, che approfondisce ma che al contempo riesce a planare sulla vastità di ciò che si dovrebbe raccontare. Chi visita la mostra viene investito da una pluralità di temi, di tecniche, di artisti, di luoghi geografici; la fluidità del tutto, però, renderà possibile aggrapparsi a quel filo curatoriale così ben visibile e ben strutturato, permettendo di navigare l’esposizione traendo da essa il più possibile.
L’istanza pedagogica del progetto, che pure si rivolge alla comunità e la coinvolge, risponde a un interrogativo fondamentale, che può essere posto nell’ottica della mostra ma anche su un piano più universale: come si pongono in dialogo artisti, persone con modi di conoscere e stare al mondo così diversi? Con storie e mezzi di espressione così differenti? La risposta che dà Earthly Communities coincide con la verticalità. Il public program del progetto include performance di AMAZON, Ismael Condoii, Alexandra Gelis e Amanda Piña, oltre a un programma filmico che vede la partecipazione di Laura Huertas Millán, Eliana Otta e Naomi Rincón-Gallardo. In apertura all’anno scolastico verrà proposta una settimana di attività rivolta alle classi, invitate a prendere parte al Tempio della comunità terrestre, mentre a luglio verranno svolti i workshop per bambini Kunst ATELIER d’arte 163, che renderanno gli spazi espositivi un grande campo da gioco.

In conclusione, come si è sviluppata l’identità europea nel tempo? Nella sua Lezione VI delle Lezioni americane – quella relativa all’epica – Borges parla del distacco che intercorre fra la costituzione di una coscienza di sé e la genesi di un’epica: «Forse la ragione è che siamo troppo autocoscienti. Forse sentiamo che non possiamo scrivere in modo impersonale. […] L’epica richiede una certa innocenza, un certo senso di identità tra il poeta e la sua materia. […] Siamo troppo consapevoli di noi stessi come individui. L’epica appartiene a un’età in cui l’individuo non si era ancora staccato dalla sua tribù, dalla sua stirpe, dai suoi dèi». La conquista del Nuovo Mondo ha generato una sua epica che ha reso legittimo, agli occhi dell’Europa, ciò che si stava facendo in America, in nome di uno sfruttamento di risorse mascherato da guerra di religione. Per Borges, gli Stati Uniti avevano una coscienza di sé troppo disincantata per generare un’epica che accettasse la violenza perpetrata per la loro definizione e riuscisse a ergerla a propria epica mascherandola da qualcos’altro. L’Europa di fine Quattrocento, l’Europa di quel 12 ottobre 1492, ha potuto cucire delle sovrastrutture alle violenze perpetrate, che ancora la società di oggi si porta dietro come strascichi. «Il sottosviluppo sviluppa la disuguaglianza», scrive Galeano, e ancora: «La lotta di classe non esiste – si sancisce – se non per colpa di agenti stranieri che la fomentano; le classi sociali invece esistono e l’oppressione delle une sulle altre viene denominata stile occidentale di vita». Questa mostra tenta – nel suo piccolo, in relazione a dei meccanismi che sono globali – di rovesciare un sistema e di puntare un riflettore su determinati processi, per poter accrescere la coscienza che l’Europa ha di sé e decostruirne un’epica. Chiudere il progetto il 12 ottobre, in quest’ottica, appare particolarmente emblematico, quasi fosse il tentativo di riscrivere una narrazione, manifestando l’urgenza di una liberazione globale del vivente e proponendo di pensare il mondo come una unità.














