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Panfilo – Tra segno e colore: l’Artista negli anni ’70
Nella ricorrenza dei cento anni dalla nascita del M° Panfilo (Padova 1925) l’esposizione presenta una selezione di oltre trenta dipinti realizzati negli anni Settanta e alcune opere di grafica (acqueforti e serigrafie).
Comunicato stampa
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La Galleria Arianna Sartori di Mantova, nella sala di via Ippolito Nievo 10, Sabato 6 settembre alle ore 17.30, inaugura la mostra retrospettiva del M° Panfilo “Tra segno e colore: l’Artista negli anni ’70” con presentazione in Galleria dello storico dell’arte Marzio Dall’Acqua che ha scritto il testo critico per questa occasione.
L’esposizione è organizzata dai figli Nicoletta, Sissi e Leonardo nella ricorrenza dei cento anni dalla nascita del padre, avvenuta a Padova nel 1925 e gode del patrocinio del Comune di Mantova.
Curata da Arianna Sartori, l’esposizione, che presenta una selezione di oltre trenta dipinti realizzati negli anni Settanta e alcune opere di grafica (acqueforti e serigrafie), resterà aperta al pubblico fino al 18 settembre 2025 con orario: dal Lunedì al Sabato 10.00-12.30 / 15.30-19.30 e Domenica 7 settembre 15.00-19.00.
Per informazioni: tel. 0376.324260, info@ariannasartori.eu
Panfilo dipinge una Mantova d’antan
Mai voltarsi per guardare indietro, al passato. È una regola, nonostante che io sia un cancerino, che mi sono dato: sembra semplice, ma molte volte, come nel caso dei quadri di Panfilo, sono le cose, gli eventi, i fatti, che, come se mi avessero inseguito lungo la linea ipotetica del tempo mi raggiungono ed affiancano. Mi ritrovo così a riguardare la mia vita e la Mantova degli anni tra il 1972 e il 1973 e poco dopo e specchiarmi nelle stesse tele di allora, come un Guestbook, che si trasforma, dopo il tempo trascorso, in un angolo dei ricordi, una nicchia di presenze e affioramenti. Nelle serata di ferragosto 1974, dopo una solare giornata nella confusione animata della Fiera delle Grazie, dormivo per la prima volta nell’appartamento a Parma, che sarebbe in seguito diventato mio. Mi allontanavo così lentamente dalla “mia” Mantova, sempre tanto amata. Lasciavo anche Panfilo e il mondo artistico che avevo fino ad allora frequentato. Al pittore avevo dedicato la mia terza monografia pubblicata con una cooperativa libraria costruita con amici che fu una piacevole avventura. La Zanitonella di Merlin Cocai con la traduzione in dialetto mantovano di Romano Marradi fu forse il nostro piccolo capolavoro. Ci fece scoprire che Folengo traduceva in latino maccheronico i versi che formulava originariamente in dialetto. La prima monografia fu “Il grande realismo dei Naïfs” per una mostra della Galleria dell’Icaro di Suzzara, che segnò una parte della mia vita successiva non solo a livello nazionale. La seconda un delizioso libretto dedicato al grande scultore mantovano Giuseppe Gorni, intitolato “L’ABC di Gorni” con i disegni del taccuino su cui tracció i primi segni nel campo di prigionia di Hajmasker, in Ungheria, edito in concomitanza con la grande mostra della Casa del Mantegna, Anche questo volumetto fu pubblicato dalla Cooperativa Cultura e Lavoro. La curiosità dominava quegli anni: onnivora, eternamente disponibile ed eccitabile. Mentre ero da pochi anni all’inizio della mia carriera di funzionario statale nella cultura, Panfilo rappresentava, per me, che allora ero come lui al Ministero dell’Interno, e che soffrivo per un’aria asfittica, malata da sempre, gretta e greve in quegli ambienti prefettizi, un’eccezione assolutamente invidiabile, essendo più anziano, di autonomia e di libertà continuamente affermata con individuale eleganza, con personale leggerezza, con vivacità intelligente e creativa. Certo l’origine toscana, pensavo, lo aveva favorito e lo aiutava. Apparteneva infatti a quella classe ‘alta’ naturalmente raffinata, attenta, capace di inserirsi ed immedesimarsi in qualsiasi ambiente con gusto e naturalezza, mantenendo una gioiositá esistenziale, un piacere di vivere ed una curiosità intellettuale che coinvolgevano senza essere opprimenti. Panfilo era così: tutto sembrava, per lui, lieve - non leggero -, tutto offriva l’estro per provocare la fantasia per un gioco sottile di invenzioni e creazioni ‘barocche’, eppure così semplici e naturali da provocare meraviglia. Un esempio: ad una sua mostra come ricordo distribuì ai presenti un portachiavi realizzato con i trigoli, le castagne d’acqua del fior di loto dei laghi, o certe improvvisate soluzioni culinarie che rianimavano lunghi pomeriggi che si stavano disfacendo nella noia collettiva. Era un animatore senza presunzione, cordiale e amichevole, senza servilismo. Quello che mi piaceva di lui è che mentre si mescolava a qualsiasi ceto sociale, a qualsiasi occasione festiva, non umiliava mai il ruolo di dipendente che rappresentava lo Stato, funzione a cui la nostra generazione ha dedicato l’esistenza lavorativa. Poi c’era la curiosità intellettuale, l’attenzione ad eventi e persone del mondo della cultura ed il desiderio di presenziarvi, usando come carte de visite la pittura, la sua. Ora mi sento affiancato dai suoi quadri e li riguardo con gli occhi di allora accorgendomi che sono gli stessi, anche se affiorano pensieri che allora non avevo, non potevo avere, mentre rileggo quello che allora, in una giovinezza che non mi appartiene più, ho trasformato in parole, nelle quali mi ritrovo, risento la mia voce sincera e convinta. Panfilo quasi in punta di piedi, ma decisamente, ha cercato di scoprire il cuore di Mantova, la sua bellezza esterna, la sua complessità culturale, ma anche la sua anima segreta, aderendovi intellettualmente ed emotivamente. Certamente il tempo ha lasciato una traccia in queste opere che raccontano di una Mantova degli inizi degli anni settanta, che ovviamente non corrisponde più all’oggi. Ma se guardiamo queste opere in mostra grazie alla corale unità di affetti dei figli, Mantova c’é ancora tutta nella sintesi dei suoi paesaggi e dei suoi monumenti, nei suoi personaggi emergenti dalle ombre e luci dei vicoli, immoti nel loro mestiere di vivere, nella bellezza incantata e sognante delle sue donne, qui bloccate in una eterna giovinezza di cui ciascuna si compiace e in cui si contempla, nelle cose e nella natura. Una Mantova forse un po’ semplice e ingenua, com’era allora, che sembrava risvegliarsi da un lungo isolamento, che si ricollegava con le strade del mondo oltre le placide acque dei laghi, con l’ultimo retaggio di povertà, di cultura contadina inurbata ma tenace, con parole in un dialetto duro, ma capace di straordinarie dolcezze, di dignità difesa come un bene prezioso. Panfilo, come pittore usa il proprio nome personale, dall’evocazione di una classicità greca, d’incantato innamoramento per tutti gli aspetti della vita, per presentarsi, per farsi conoscere, per intrecciare solidi legami: nome che ricorda personaggi da dialoghi rinascimentali svagati e curiosi, da civile conversazione, propri un tempo della fascinazione gonzaghesca del mondo di corte. Anche lui, sospeso tra l’incanto e una lieve meraviglia, instancabile percorre strade, guarda e memorizza, incontra gente e vede paesaggi, nota cose e le registra in un diario pittorico di cui questa mostra è documento. Quadri come “cartoline” o pagine di un diario di viaggio di affettuosi sguardi, rapidi appunti di colori a segnare luci ed atmosfere a cui la bidimensionalità delle figure fornisce una centralità compositiva ed una evidenza iconografica essenziale e pregnante, una vera e propria mise en scène. Le cromie accentuate e contrastanti sono immersioni di luci e colori che trapassano, come in un caleidoscopio tra ombre e chiarità senza mediazioni, ogni apparenza naturalistica. Le semplificazioni di monumenti e paesaggi sono non solo sintesi visive, ma appunti di ricordi, che uniscono ciò che in realtà si trova in luoghi diversi: servono per “dopo” per quando non si sarà più lí, davanti alla loro presenza fisica. Sono un trapasso tra una situazione vista e vissuta e la sua ricostruzione nell’animo attraverso un processo mnemonico, privato e solitario. La realtá vista viene ricostruita attraverso il quadro e grazie al quadro, che, a sua volta, viene mentalmente composto e ricomposto, poiché lo sguardo per rivelarsi sulla tela ha bisogno di atti, elaborati in un tempo preciso di percezione ed insieme di pittura. Così l’opera diventa centrale in questo processo e denuncia il suo interno segreto: è essa stessa pura apparenza. Non è riproduzione della realtà, ma ideazione a sé, costruita con un linguaggio specifico: insomma è pittura, arte e artificio. Panfilo così denuncia il suo essere pittore, prima di tutto collegandosi ad una fase di cubismo ormai maturo ed accettato, si potrebbe dire acquietato e domato: ormai linguaggio di comune comprensione, che usa persino nei ritratti a persone reali, come belle e giovani donne. Riprendo un passo che scrissi tanti anni fa e che mi sembra sia una sintesi azzeccata anche del mio sentire di oggi: “Non c’è spazio per l'alito della vita nelle opere di Panfilo, tutte bloccate in una schematizzazione, rigidamente contrappunte da piani e linee, da colori campiti, da un'assolutezza di contrasti” ovvero l’artista non esalta la realtà, ma la pittura, l’atto del dipingere che ha proprie regole di esecuzione, cerca specifici equilibri tra le forme, speciali rapporti tra cromie contrastanti, tra particolari ed insieme, tra l’occhio di chi guarda e le inderogabili necessità del dipingere. Ne consegue, alla fine, un’atmosfera di dolce incantamento, di trattenuta poesia, di composto rigore formale e di soppesati equilibri cromatici. In quegli anni si parlava e si discuteva ancora di estetica, coinvolti dal rutilare delle avanguardie oggi dette storiche e dai loro estremi rivoli. Non come oggi che si parla solo di “emozioni”, di superficiali ed epidermiche eccitazioni, di tremori sensoriali che si risolvono solo nelle segrete intimità di chi guarda l’opera o, al massimo, nei casi migliori, tra turbamenti dell’artista e spettatore, non certo nelle qualità estetiche del prodotto, che sopravviverà a questo mulinare di impressioni temporanee. Nelle opere di Panfilo è la calma, la quiete del sentire, il piacere del vedere e del ricordare, complessi e sottili riferimenti ad opere contemporanee e del passato, iconografie reinventate per una “lettura aperta” come chiedeva Eco [pensiamo alle opere in cui una donna si guarda nello specchio: tema frequente nelle arti del secolo breve, mentre il quadro diventa anch’esso un ulteriore rispecchiamento]. È di pittura e dei suoi segreti e codici che parlano i quadri di Panfilo ed è questo che li manterrà vitali oltre l’oggi. Nel descrivere le cose, la natura, in opere come quella dedicata ai fiori di loto dei laghi di Mantova, la costruzione è più libera e complessa, la rappresentazione si addolcisce e diventa più poetica, ma la posizione iconografica di fondo non cambia: è sempre pittura, intensamente e deliziosamente pittura, che rende ogni opera eternamente presente.
Marzio Dall’Acqua - Parma, giugno 2025
PANFILO
Panfilo Di Giacomo nasce a Padova il 15 settembre 1925 ma cresce a Pisa, dove compie i suoi studi universitari in Giurisprudenza. Giovane trentenne, si stabilisce in pianta stabile a Mantova dove ha vissuto, lavorato come avvocato e artista. È deceduto il 18 novembre 2022.
Formatosi come artista in Toscana, si afferma a livello nazionale e internazionale a partire dagli inizi degli anni Settanta, conseguendo premi e riconoscimenti in concorsi e rassegne di prestigio.
Con i pittori Luigi Spelta e Carlo Musoni, nel 1971 fonda a Mantova il circolo culturale “il Caminetto”, volto alla valorizzazione delle arti figurative come pura esigenza dello spirito umano.
Sebbene agli albori la sua attività pittorica sia stata caratterizzata da ricerche paesaggistiche di marca tardo-impressionista, ha presto virato verso uno stile completamente diverso, “più silenzioso e meditato” (Marzio Dall’Acqua), e per molti tratti visionario, ispirandosi a pittori internazionali del Novecento, in particolare Picasso, Migneco e Guttuso, reinterpretati con raffinata e colta sensibilità.
Cuore pulsante dell’ispirazione dell’artista sono i volti e le figure femminili, i mestieri antichi, i fiori e le città, ed in particolare la “sua” Mantova, “allegra, splendente, larga” (Umberto Bonafini).
L’esposizione è organizzata dai figli Nicoletta, Sissi e Leonardo nella ricorrenza dei cento anni dalla nascita del padre, avvenuta a Padova nel 1925 e gode del patrocinio del Comune di Mantova.
Curata da Arianna Sartori, l’esposizione, che presenta una selezione di oltre trenta dipinti realizzati negli anni Settanta e alcune opere di grafica (acqueforti e serigrafie), resterà aperta al pubblico fino al 18 settembre 2025 con orario: dal Lunedì al Sabato 10.00-12.30 / 15.30-19.30 e Domenica 7 settembre 15.00-19.00.
Per informazioni: tel. 0376.324260, info@ariannasartori.eu
Panfilo dipinge una Mantova d’antan
Mai voltarsi per guardare indietro, al passato. È una regola, nonostante che io sia un cancerino, che mi sono dato: sembra semplice, ma molte volte, come nel caso dei quadri di Panfilo, sono le cose, gli eventi, i fatti, che, come se mi avessero inseguito lungo la linea ipotetica del tempo mi raggiungono ed affiancano. Mi ritrovo così a riguardare la mia vita e la Mantova degli anni tra il 1972 e il 1973 e poco dopo e specchiarmi nelle stesse tele di allora, come un Guestbook, che si trasforma, dopo il tempo trascorso, in un angolo dei ricordi, una nicchia di presenze e affioramenti. Nelle serata di ferragosto 1974, dopo una solare giornata nella confusione animata della Fiera delle Grazie, dormivo per la prima volta nell’appartamento a Parma, che sarebbe in seguito diventato mio. Mi allontanavo così lentamente dalla “mia” Mantova, sempre tanto amata. Lasciavo anche Panfilo e il mondo artistico che avevo fino ad allora frequentato. Al pittore avevo dedicato la mia terza monografia pubblicata con una cooperativa libraria costruita con amici che fu una piacevole avventura. La Zanitonella di Merlin Cocai con la traduzione in dialetto mantovano di Romano Marradi fu forse il nostro piccolo capolavoro. Ci fece scoprire che Folengo traduceva in latino maccheronico i versi che formulava originariamente in dialetto. La prima monografia fu “Il grande realismo dei Naïfs” per una mostra della Galleria dell’Icaro di Suzzara, che segnò una parte della mia vita successiva non solo a livello nazionale. La seconda un delizioso libretto dedicato al grande scultore mantovano Giuseppe Gorni, intitolato “L’ABC di Gorni” con i disegni del taccuino su cui tracció i primi segni nel campo di prigionia di Hajmasker, in Ungheria, edito in concomitanza con la grande mostra della Casa del Mantegna, Anche questo volumetto fu pubblicato dalla Cooperativa Cultura e Lavoro. La curiosità dominava quegli anni: onnivora, eternamente disponibile ed eccitabile. Mentre ero da pochi anni all’inizio della mia carriera di funzionario statale nella cultura, Panfilo rappresentava, per me, che allora ero come lui al Ministero dell’Interno, e che soffrivo per un’aria asfittica, malata da sempre, gretta e greve in quegli ambienti prefettizi, un’eccezione assolutamente invidiabile, essendo più anziano, di autonomia e di libertà continuamente affermata con individuale eleganza, con personale leggerezza, con vivacità intelligente e creativa. Certo l’origine toscana, pensavo, lo aveva favorito e lo aiutava. Apparteneva infatti a quella classe ‘alta’ naturalmente raffinata, attenta, capace di inserirsi ed immedesimarsi in qualsiasi ambiente con gusto e naturalezza, mantenendo una gioiositá esistenziale, un piacere di vivere ed una curiosità intellettuale che coinvolgevano senza essere opprimenti. Panfilo era così: tutto sembrava, per lui, lieve - non leggero -, tutto offriva l’estro per provocare la fantasia per un gioco sottile di invenzioni e creazioni ‘barocche’, eppure così semplici e naturali da provocare meraviglia. Un esempio: ad una sua mostra come ricordo distribuì ai presenti un portachiavi realizzato con i trigoli, le castagne d’acqua del fior di loto dei laghi, o certe improvvisate soluzioni culinarie che rianimavano lunghi pomeriggi che si stavano disfacendo nella noia collettiva. Era un animatore senza presunzione, cordiale e amichevole, senza servilismo. Quello che mi piaceva di lui è che mentre si mescolava a qualsiasi ceto sociale, a qualsiasi occasione festiva, non umiliava mai il ruolo di dipendente che rappresentava lo Stato, funzione a cui la nostra generazione ha dedicato l’esistenza lavorativa. Poi c’era la curiosità intellettuale, l’attenzione ad eventi e persone del mondo della cultura ed il desiderio di presenziarvi, usando come carte de visite la pittura, la sua. Ora mi sento affiancato dai suoi quadri e li riguardo con gli occhi di allora accorgendomi che sono gli stessi, anche se affiorano pensieri che allora non avevo, non potevo avere, mentre rileggo quello che allora, in una giovinezza che non mi appartiene più, ho trasformato in parole, nelle quali mi ritrovo, risento la mia voce sincera e convinta. Panfilo quasi in punta di piedi, ma decisamente, ha cercato di scoprire il cuore di Mantova, la sua bellezza esterna, la sua complessità culturale, ma anche la sua anima segreta, aderendovi intellettualmente ed emotivamente. Certamente il tempo ha lasciato una traccia in queste opere che raccontano di una Mantova degli inizi degli anni settanta, che ovviamente non corrisponde più all’oggi. Ma se guardiamo queste opere in mostra grazie alla corale unità di affetti dei figli, Mantova c’é ancora tutta nella sintesi dei suoi paesaggi e dei suoi monumenti, nei suoi personaggi emergenti dalle ombre e luci dei vicoli, immoti nel loro mestiere di vivere, nella bellezza incantata e sognante delle sue donne, qui bloccate in una eterna giovinezza di cui ciascuna si compiace e in cui si contempla, nelle cose e nella natura. Una Mantova forse un po’ semplice e ingenua, com’era allora, che sembrava risvegliarsi da un lungo isolamento, che si ricollegava con le strade del mondo oltre le placide acque dei laghi, con l’ultimo retaggio di povertà, di cultura contadina inurbata ma tenace, con parole in un dialetto duro, ma capace di straordinarie dolcezze, di dignità difesa come un bene prezioso. Panfilo, come pittore usa il proprio nome personale, dall’evocazione di una classicità greca, d’incantato innamoramento per tutti gli aspetti della vita, per presentarsi, per farsi conoscere, per intrecciare solidi legami: nome che ricorda personaggi da dialoghi rinascimentali svagati e curiosi, da civile conversazione, propri un tempo della fascinazione gonzaghesca del mondo di corte. Anche lui, sospeso tra l’incanto e una lieve meraviglia, instancabile percorre strade, guarda e memorizza, incontra gente e vede paesaggi, nota cose e le registra in un diario pittorico di cui questa mostra è documento. Quadri come “cartoline” o pagine di un diario di viaggio di affettuosi sguardi, rapidi appunti di colori a segnare luci ed atmosfere a cui la bidimensionalità delle figure fornisce una centralità compositiva ed una evidenza iconografica essenziale e pregnante, una vera e propria mise en scène. Le cromie accentuate e contrastanti sono immersioni di luci e colori che trapassano, come in un caleidoscopio tra ombre e chiarità senza mediazioni, ogni apparenza naturalistica. Le semplificazioni di monumenti e paesaggi sono non solo sintesi visive, ma appunti di ricordi, che uniscono ciò che in realtà si trova in luoghi diversi: servono per “dopo” per quando non si sarà più lí, davanti alla loro presenza fisica. Sono un trapasso tra una situazione vista e vissuta e la sua ricostruzione nell’animo attraverso un processo mnemonico, privato e solitario. La realtá vista viene ricostruita attraverso il quadro e grazie al quadro, che, a sua volta, viene mentalmente composto e ricomposto, poiché lo sguardo per rivelarsi sulla tela ha bisogno di atti, elaborati in un tempo preciso di percezione ed insieme di pittura. Così l’opera diventa centrale in questo processo e denuncia il suo interno segreto: è essa stessa pura apparenza. Non è riproduzione della realtà, ma ideazione a sé, costruita con un linguaggio specifico: insomma è pittura, arte e artificio. Panfilo così denuncia il suo essere pittore, prima di tutto collegandosi ad una fase di cubismo ormai maturo ed accettato, si potrebbe dire acquietato e domato: ormai linguaggio di comune comprensione, che usa persino nei ritratti a persone reali, come belle e giovani donne. Riprendo un passo che scrissi tanti anni fa e che mi sembra sia una sintesi azzeccata anche del mio sentire di oggi: “Non c’è spazio per l'alito della vita nelle opere di Panfilo, tutte bloccate in una schematizzazione, rigidamente contrappunte da piani e linee, da colori campiti, da un'assolutezza di contrasti” ovvero l’artista non esalta la realtà, ma la pittura, l’atto del dipingere che ha proprie regole di esecuzione, cerca specifici equilibri tra le forme, speciali rapporti tra cromie contrastanti, tra particolari ed insieme, tra l’occhio di chi guarda e le inderogabili necessità del dipingere. Ne consegue, alla fine, un’atmosfera di dolce incantamento, di trattenuta poesia, di composto rigore formale e di soppesati equilibri cromatici. In quegli anni si parlava e si discuteva ancora di estetica, coinvolti dal rutilare delle avanguardie oggi dette storiche e dai loro estremi rivoli. Non come oggi che si parla solo di “emozioni”, di superficiali ed epidermiche eccitazioni, di tremori sensoriali che si risolvono solo nelle segrete intimità di chi guarda l’opera o, al massimo, nei casi migliori, tra turbamenti dell’artista e spettatore, non certo nelle qualità estetiche del prodotto, che sopravviverà a questo mulinare di impressioni temporanee. Nelle opere di Panfilo è la calma, la quiete del sentire, il piacere del vedere e del ricordare, complessi e sottili riferimenti ad opere contemporanee e del passato, iconografie reinventate per una “lettura aperta” come chiedeva Eco [pensiamo alle opere in cui una donna si guarda nello specchio: tema frequente nelle arti del secolo breve, mentre il quadro diventa anch’esso un ulteriore rispecchiamento]. È di pittura e dei suoi segreti e codici che parlano i quadri di Panfilo ed è questo che li manterrà vitali oltre l’oggi. Nel descrivere le cose, la natura, in opere come quella dedicata ai fiori di loto dei laghi di Mantova, la costruzione è più libera e complessa, la rappresentazione si addolcisce e diventa più poetica, ma la posizione iconografica di fondo non cambia: è sempre pittura, intensamente e deliziosamente pittura, che rende ogni opera eternamente presente.
Marzio Dall’Acqua - Parma, giugno 2025
PANFILO
Panfilo Di Giacomo nasce a Padova il 15 settembre 1925 ma cresce a Pisa, dove compie i suoi studi universitari in Giurisprudenza. Giovane trentenne, si stabilisce in pianta stabile a Mantova dove ha vissuto, lavorato come avvocato e artista. È deceduto il 18 novembre 2022.
Formatosi come artista in Toscana, si afferma a livello nazionale e internazionale a partire dagli inizi degli anni Settanta, conseguendo premi e riconoscimenti in concorsi e rassegne di prestigio.
Con i pittori Luigi Spelta e Carlo Musoni, nel 1971 fonda a Mantova il circolo culturale “il Caminetto”, volto alla valorizzazione delle arti figurative come pura esigenza dello spirito umano.
Sebbene agli albori la sua attività pittorica sia stata caratterizzata da ricerche paesaggistiche di marca tardo-impressionista, ha presto virato verso uno stile completamente diverso, “più silenzioso e meditato” (Marzio Dall’Acqua), e per molti tratti visionario, ispirandosi a pittori internazionali del Novecento, in particolare Picasso, Migneco e Guttuso, reinterpretati con raffinata e colta sensibilità.
Cuore pulsante dell’ispirazione dell’artista sono i volti e le figure femminili, i mestieri antichi, i fiori e le città, ed in particolare la “sua” Mantova, “allegra, splendente, larga” (Umberto Bonafini).
06
settembre 2025
Panfilo – Tra segno e colore: l’Artista negli anni ’70
Dal 06 al 18 settembre 2025
arte contemporanea
Location
GALLERIA ARIANNA SARTORI
Mantova, Via Cappello, 17 , (Mantova)
Mantova, Via Cappello, 17 , (Mantova)
Orario di apertura
da Lunedì a Sabato 10.00-12.30/15.30-19.30, Domenica 7 settembre 15.00-19.00.
Vernissage
6 Settembre 2025, 17.30
Autore
Curatore
Autore testo critico
Patrocini










