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PRIVATE VIEW. Abitare l’arte secondo Ettore Molinario e Rossella Colombari
Mercato
Una casa-isola. Per il quartiere che la ospita – Isola, a Milano – e perché, come un’isola, sa proteggere ciò che contiene. Era una fabbrica di argentieri un tempo, poi Ettore Molinario e Rossella Colombari se ne innamorarono e la trasformarono insieme nella loro dimora. O forse più in un «organismo vivo», in continua evoluzione, senza limiti tra architettura, design, fotografie, sculture – le passioni di lui e di lei, che si incontrano, e dialogano insieme. Ma «le opere non arredano», tiene a specificare la coppia, e invece «rivelano, disturbano, riflettono». E si schiudono al pubblico, perché «una collezione ha senso solo se condivisa». Così, ogni mercoledì, la Casa Museo apre al pubblico, con gli scatti di Cindy Sherman, Man Ray, Nan Goldin, Robert Mapplethorpe, di anonimi e contemporanei, tutti sparsi con rigore tra pareti, stanze e caveau. Ne abbiamo parlato con Ettore Molinario in PRIVATE VIEW, il nuovo spazio promosso dalla Divisione Fine Art di DUAL Italia*, per visioni e pratiche del mondo del collezionismo e del mercato dell’arte. Raccontate dai suoi protagonisti.
Intervista con Ettore Molinario
Partiamo dagli inizi, quando ha cominciato a collezionare?
«Ho iniziato più di trent’anni fa. All’inizio non era solo fotografia. Ho sempre amato l’arte in tutte le sue forme — la pittura, la scultura, il design — ma la fotografia esercitava su di me una forza più diretta, quasi carnale. Era come se quegli sguardi, quei corpi, mi chiamassero per nome. Ho iniziato a collezionare perché sentivo un impulso irrefrenabile di possedere l’opera. Non per il possesso in sé, ma per la possibilità che quell’immagine diventasse parte della mia storia, della mia interiorità. Era come portare a casa un frammento di specchio: per vedermi meglio, riflettermi».
Ricorda ancora la primissima opera, e perché l’ha desiderata?
«L’opera seminale della mia collezione è Man With Dog di Joel-Peter Witkin, del 1990. La vidi una volta in mostra e provai un desiderio assoluto, quasi fisico: dovevo averla, ma era già stata venduta. Ci volle del tempo per riuscire ad acquistarla. All’epoca lavoravo in finanza. Mia moglie, Rossella Colombari, la trovava troppo disturbante per essere esposta in casa, soprattutto quando ricevevamo ospiti del mondo finanziario. Ricordo che riportai la questione persino al mio analista, lui rimase in silenzio a lungo, poi disse soltanto: “Che prezzo si può dare per comprare una parte di sé?”. Da quel momento, Man With Dog non ha mai lasciato le pareti della nostra casa. Capii allora che collezionare non significa semplicemente circondarsi di bellezza, ma confrontarsi con ciò che siamo».

Oggi quando acquista un’opera già sa dove sarà esposta? E, di conseguenza, quale tipo di dialogo verrà instaurato?
«La Casa Museo è nata proprio per dare spazio alla collezione, ma è anche una rilettura, per far vivere la fotografia con l’architettura e con il design. Non è un contenitore neutro ma un organismo vivo. Dalla struttura semicircolare pensata dagli architetti Claudio Lazzarini e Carl Pickering, si passa a un’integrazione del progetto della Casa, frutto dello sguardo di Rossella. Quando un’opera arriva, il processo è di evitare una “cannibalizzazione”. Osserviamo, spostiamo, ci confrontiamo — e non sempre siamo d’accordo. Ma alla fine seguo Rossella. Perché è lei che ha il dono raro di leggere lo spazio, di comprenderne la tensione interna, e di ristabilire quell’armonia ogni volta che qualcosa si muove. Tutta la Casa Museo è fatta di dialoghi. Il più profondo, quello che tiene insieme ogni immagine, è quello con sé stessi. Le opere non arredano: rivelano, disturbano, riflettono».
Com’è nato il progetto della Casa Museo?
«La Casa Museo è nata cinque anni fa, come naturale prosecuzione della collezione — o forse come sua conseguenza inevitabile. Sentivo il bisogno profondo di trovare uno spazio che fosse giusto, e l’ho cercato nel quartiere di Isola, a Milano. Rossella dice spesso che questa è una casa-isola: perché è isolata dal mondo, sì, ma anche perché protegge ciò che contiene, come una cavità che custodisce immagini. Un tempo era una fabbrica di argentieri, me ne sono innamorato subito. Era completamente diverso da oggi, ma i volumi, la luce zenitale, l’eco del lavoro che vi si svolgeva… tutto parlava già alla collezione».
Fotografia, ma anche scultura e, ovviamente, design. Possiamo parlare di linea curatoriale? Di un filo rosso che unisce tutti i lavori in collezione?
«Assolutamente sì. La casa è la sintesi tra me e Rossella. Tra il suo mondo, fatto di architettura, design, proporzioni e materia, e il mio, fatto di fotografia, immagini e sculture antiche del Sud-est asiatico. C’è senza dubbio una linea curatoriale, ma non la definirei tematica o storica. È piuttosto una linea interiore, un filo rosso psichico, dove le opere sono legate da una tensione comune: quella dell’identità, della metamorfosi, del corpo, del desiderio, della perdita. Di ciò che cerchiamo di vedere — o di non vedere — in noi stessi. Per me è un’esperienza molto simile al cave diving, che pratico da anni. Scendo in me stesso. Esploro territori sommersi, spesso disordinati o oscuri, e uso la luce — la luce della fotografia, la luce della comprensione — per provare a portare in superficie qualcosa che ancora non sapevo di contenere. Così la casa, più che un museo, è una mappa. Una topografia intima».

Quante opere custodisce, oggi, la Casa Museo Molinario Colombari?
«Circa mille, tra fotografia e scultura antica del Sud-est asiatico. Negli ultimi otto anni si è ampliata rapidamente».
Può farmi qualche nome?
«Ci sono quelli autorevoli, certo: Cindy Sherman, Claude Cahun, Man Ray, Helmut Newton, Nobuyoshi Araki, Vanessa Beecroft. Ma anche Nan Goldin, Andres Serrano, Daido Moriyama, Jürgen Klauke, Urs Lüthi, Robert Mapplethorpe. Abbiamo albumine di fine Ottocento, immagini provenienti da Asia, Africa, Europa e Americhe. Una parte importante — circa il 20% — è composta da fotografie storiche anonime o di autori poco noti. Questo è un aspetto a cui tengo molto, l’anonimo ti costringe a guardare davvero l’immagine, senza appoggiarti al nome, alla biografia, alla didascalia. E poi ci sono anche artisti contemporanei e giovani. Credo sia fondamentale sostenere la fotografia di oggi, le sue trasformazioni, i suoi linguaggi emergenti».
Lo scorso autunno, il report di Art Basel & UBS dichiarava che il 43% dei collezionisti HNWI compra opere tramite Instagram. Si ritrova in questo dato?
«Non particolarmente. Certamente i social — e Instagram in particolare — sono una finestra interessante, ma per me collezionare è ancora un atto profondamente relazionale. Ho bisogno dell’incontro: con l’opera, con il suo autore, con chi la rappresenta. Compro tutto in presenza. È una scelta precisa, quasi rituale».
Quindi, quale canale predilige? Fiere, aste, gallerie…
«Sono un collezionista eclettico, e ogni acquisto segue un percorso diverso. Amo andare in galleria, avere il tempo di guardare, di parlare, di ascoltare. I galleristi — quelli storici e quelli scoperti più di recente — diventano spesso interlocutori importanti, compagni di viaggio. Il loro sguardo, la loro dedizione, fanno parte del valore dell’opera che scelgo. Anche le fiere hanno una loro forza. E naturalmente seguo anche le aste, dove a volte emergono perle del secondo mercato. Quello che conta, per me, è che l’acquisto non sia mai un gesto automatico, ma un’esperienza di scoperta. Che ci sia sempre una relazione, una scintilla, un’interrogazione».

Se le chiedessi quali sono gli appuntamenti imperdibili, in Italia e all’estero?
«In Italia, l’appuntamento irrinunciabile è MIA Photo Fair. È un momento importante per la fotografia nel nostro Paese, e sentiamo il dovere — ma anche il piacere — di sostenerla attivamente. Quest’anno abbiamo partecipato con uno stand, un premio dedicato e un talk. In Italia le fiere di fotografia sono ancora poche, e credo sia fondamentale rafforzare questi spazi, dare loro continuità, qualità e visibilità. All’estero, Paris Photo è senza dubbio la nostra meta imprescindibile».
In generale, non sono stati anni facili per il mercato dell’arte, che dopo i picchi post-pandemia ha registrato un calo del 12% rispetto al 2023. Ma sembra che la fascia medio-bassa vada controcorrente. Lei che idea si è fatto?
«È indubbio che ci troviamo in un momento di forte instabilità, sia finanziaria che geopolitica. E il mercato dell’arte, inevitabilmente, ne risente. L’incertezza genera prudenza, rallenta i processi decisionali, soprattutto su alcune fasce di valore. Ma al tempo stesso — come spesso accade nei periodi di crisi — si apre uno spazio più vivo per la ricerca, per le opere che parlano davvero, al di là della logica dell’investimento. Personalmente, non ho smesso di far crescere la collezione. Anzi, in questi ultimi due anni ho continuato ad acquisire. Non per strategia, ma per necessità. Collezionare per me non è un atto accessorio, è una forma di pensiero, di relazione con il mondo. Quando un’opera ti chiama, non ti chiede di fare un calcolo. Ti chiede di ascoltare. E io, quando sento quella voce, rispondo. Anche — e forse soprattutto — nei momenti di incertezza».
E Milano – la città in cui avete deciso di dare vita e forma al vostro progetto – come si posiziona rispetto al quadro globale? Continuiamo di fatto ad assistere a diverse aperture (la casa d’aste Phillips, la galleria Cadogan, le imminenti inaugurazioni di Mazzoleni, Thaddaeus Ropac, Ben Brown)…
«Milano oggi è, senza dubbio, the place to be. Non è solo la città in cui viviamo da sempre, ma è anche il luogo in cui abbiamo scelto di costruire il progetto della Casa Museo. Perché sentivamo che qualcosa stava accadendo, che stava maturando un’energia nuova. Milano sta diventando sempre più un nodo rilevante nel sistema dell’arte globale, capace di attrarre e trattenere, di produrre contenuto, non solo di ospitarlo. Per noi era fondamentale che la Casa Museo nascesse qui. Per contribuire, in modo personale e silenzioso, a un discorso più ampio che oggi — finalmente — la città è pronta ad accogliere».

Passando dalla vostra esperienza personale a una sorta di ideale generale, le chiedo: qual è oggi il ruolo del collezionista? Ha ancora qualcosa a che fare con il mecenate della Domus? Quello che alimentava l’arte, il suo sistema, ne gestiva le fila, e supportava chi l’arte la produceva?
«Oggi i collezionisti sono più numerosi e più diversi rispetto al passato. C’è una molteplicità di approcci, di motivazioni, di modi di intendere la collezione. Non credo esista più un profilo unico, se non quello — imprescindibile — della passione autentica per l’arte. Personalmente, io mi riconosco in quella figura antica del mecenate. Non tanto per il ruolo pubblico, quanto per la responsabilità che comporta. Non ho mai pensato alla collezione come a un gesto privato o autoreferenziale. Per me ha senso solo se ha un valore più ampio, se può essere condivisa, attraversata, ascoltata da altri. È anche per questo che ho deciso di creare la Casa Museo, e di aprirla ogni mercoledì pomeriggio al pubblico, con visite guidate. È un gesto semplice, ma necessario. Credo che il collezionista, oggi, possa — e debba — contribuire a tenere vivo un sistema culturale. Non per dirigerlo, ma per alimentarlo. Con discrezione, ma con impegno».
Vi capita, a questo proposito, di prestare a musei e istituzioni?
«Assolutamente sì, e lo faccio sempre con grande piacere. Credo molto nel valore del prestito, non come concessione, ma come gesto naturale di condivisione. Una collezione vive davvero solo se può circolare, se può generare nuove letture, nuove risonanze».

Per chiudere: l’ultima opera che avete acquistato?
«Distorted Universal Vision (Self-Portrait) di Hiroshi Sugimoto, del 2003. L’ho acquistata a Paris Photo. È un’opera che mi ha colpito immediatamente per la sua ambiguità controllata, per quella distorsione sottile che altera il volto e al tempo stesso lo rivela. Mi interessano molto le immagini che mettono in crisi la nozione di identità, che la spingono verso il margine».
Un’opera che avete inseguito e poi perso, che rimpiangete?
«Piss Christ di Andres Serrano. Nei primi anni ’90 avrei potuto comprarla, era il tempo giusto. Ma ho esitato, e come spesso accade con le immagini che bruciano, è bastato un attimo perché sfuggisse».
L’opera invece impossibile, museale, che vorreste possedere?
«Una poupée importante di Hans Bellmer. Nella collezione ci sono tutti i frammenti e gli echi di quel mondo disturbante, ma l’origine, la radice di quella riflessione sul corpo artificiale e desiderato, ancora manca. Sarebbe come chiudere un cerchio».
* DUAL Italia è un player del mercato assicurativo specializzato nella valorizzazione e protezione del patrimonio artistico di collezionisti privati, professionisti, enti e aziende.














