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Rural Visions: nuove modalità di abitare, osservare e ascoltare le aree interne
Arte contemporanea
Promosso da Cantieri d’Arte, realtà attiva nella Tuscia dal 2005, Rural Visions è un progetto di residenza che ha messo in dialogo pratiche artistiche e territori rurali, esplorando la Selva del Lamone attraverso i linguaggi di tre giovani artisti: Luca Marcelli Pitzalis, Jacopo Rinaldi e Agnese Spolverini. Un’occasione per riflettere sul rapporto tra memoria, paesaggio e pratiche contemporanee nei territori rurali.
Questo articolo raccoglie voci e riflessioni emerse dalle esperienze di residenza, interrogandosi sul senso di “fare cultura ai margini”, sulle sfide che questo comporta e sulle possibilità che apre, immaginando l’arte non come strumento di rappresentazione, ma come pratica relazionale trasformativa.
A raccontarci di Rural Vision saranno gli attori delle diverse residenze: Imma Tralli e Roberto Pontecorvo (Marea Art Project), Federico Bacci, Martina Macchia eLucia Giardino (Guilmi Art Project), Leandro Pisano (Interzona APS, Liminaria).

Nell’ottica della produzione artistica, come cambia la relazione tra artista e territorio al di fuori dei centri urbani?
Cantieri d’Arte «Pensiamo che operare ai margini debba necessariamente portare artisti e organizzazioni a interrogarsi su modalità e processi di dialogo e ascolto delle comunità. Come organizzazione quindi, il ruolo di mediazione è essenziale ma non è semplice né scontato che funzioni. Si affrontano dei rischi e delle frustrazioni inevitabili se i tempi di svolgimento dei progetti impongono scadenze troppo pressanti e se non si ha la capacità o la possibilità di far accadere le cose. Bisogna immaginare pratiche aperte all’imprevisto e in ascolto rispetto a quello che succede nelle aree interne o marginali.
Nel caso di Rural Visions abbiamo dato molto spazio e respiro alla dimensione di ricerca degli artisti, per provare a cogliere il carattere di un luogo e di una comunità, le domande latenti, le fratture e le frizioni di un territorio».

Esistono differenze nei processi creativi o nei risultati, rispetto a contesti più centralizzati? In che modo le pratiche artistiche rispondono o si adattano al contesto specifico in cui l’artista va a operare?
Cantieri d’Arte «Lavorare ai margini è anche spesso interrogarsi sui vuoti, sulla rarefazione e sull’abbandono, confrontarsi con le crepe e i rovi, con il non umano. Questo fattore è stato molto dentro la nostra ricerca, nel tentativo di immaginare convivenze e coabitazioni possibili. Innescare nel quotidiano della ruralità domande che riguardano i cambiamenti climatici, l’impatto antropico, stimolare collaborazioni inedite tra professioni, competenze e sguardi diversi, può essere un modo per rispondere al ruolo che oggi l’arte deve continuare ad avere in territori a forte spopolamento e crisi economica.
Quello che le pratiche artistiche non devono fare invece è trovare delle soluzioni semplici, immediate, che rispondano unicamente all’esigenza di promuovere il territorio e a darne una rappresentazione. Però bisogna anche uscire dallo specialismo e trovare delle chiavi intermedie tra ricerca e partecipazione, tra sperimentazione e coralità, che possano restituire al lavoro artistico una dimensione di condivisione popolare».

In base alla vostra esperienza, quali strumenti è utile adoperare per relazionarsi a una specifica identità culturale locale, senza cadere nella folklorizzazione?
GuilmiArtProject – GAP «Credo che la formula giusta sia nella scelta dell’artista, che nel nostro caso non deleghiamo. Ci assumiamo la responsabilità di invitare artisti di cui ci interessano lavoro e le pratiche indipendentemente da quello che presumibilmente vorrebbe il contesto, o che sarebbe cool nel sistema dell’arte. In genere, visitando gli studi degli artisti o le mostre scattano intuizioni o partono ragionamenti, per cui riteniamo che l’esperienza di certi artisti nella nostra residenza possa funzionare.
Generalmente non ci riferiamo mai al folklore, specialmente laddove abbia il significato di tradizioni orali, manifestazioni popolari, il tutto condito da buoni sentimenti. Troviamo tutto ciò che riguarda il folklore stantio e poco eccitante. Qualora l’artista scelto, subisse la fascinazione di ciò che noi riteniamo invece faccia parte più alla sfera del folklore, cerchiamo di fare dei respiri profondi. Il compiacimento può essere una conseguenza, non una premessa del loro lavoro».
Può farmi un esempio?
GuilmiArtProject – GAP «Durante la residenza di Jacopo Rinaldi, a GuilmiArtProject, lo spettro della cultura agro-pastorale dannunziana, poteva già essere in agguato tra mare e montagna, specialmente per gli intenti di un progetto intitolato Rural Visions, che mirava a investigare l’abitare e il vivere nelle aree interne e selvatiche della nostra penisola. Rinaldi però, pur di fatto “illustrando” uno stazzo di pastori, ha preso il via dalle sue stesse necessità di artista: l’indagine della visione e della rappresentazione, mediata da linguaggi filmici o fotografici per creare nuovi scenari.
In questo modo, partendo da una bottega adibita a studio fotografico e da una maquette recente al Museo delle Genti d’Abruzzo a Pescara, ha creato una sorta di sfondo da sala di posa, intitolandolo Estate 1940. Rinaldi, pur presentandoci un immaginario a cui il contesto rurale si può facilmente relazionare, fa emergere altri elementi, rimossi dal folklore, eppure storici, come la contingenza della Seconda guerra mondiale. La transumanza diventa perciò nell’opera di Rinaldi, “una forma di rifiuto e di evasione del tempo storico, in favore di una temporalità ciclica e ricorsiva, scandita dal ritmo delle stagioni”».

In che modo la presenza temporanea delle residenze può generare impatti duraturi sulla comunità locale e, viceversa, come la comunità trasforma la ricerca artistica?
GuilmiArtProject – GAP «La distanza – e quindi la condizione di straniero dell’artista – è essenziale per leggere i luoghi senza condizionamenti e per ridare loro una dimensione extra-territoriale. Per quel che ci riguarda, anche noi operatori culturali della residenza dobbiamo praticare la distanza, non per snobismo, ma proprio per avere una visione ampia del luogo in cui operiamo e per essere in grado di metterlo in relazione ad altri contesti e altre comunità. Tornare spesso, piuttosto che abitare stabilmente è ciò che noi perseguiamo. Ciò contribuisce a cambiare la comunità, ma i tempi sono lunghi.
Il vero cambiamento, imputabile direttamente alla residenza, sta nella rete di relazioni che si vengono a creare durante e dopo le residenze. Intorno a questo lavoro gravita persone ogni volta diverse, che molte volte continuano ad operare, incamerando consapevolezza e valori del processo».

Come bilanciate l’attenzione alle specificità del vostro territorio con la necessità di creare reti nazionali o internazionali?
Marea Art Project «In un momento come quello che stiamo vivendo, l’arte e la cultura diventano una possibilità di astrazione per sperimentare nuove forme di stare al mondo, coltivando quella coscienza resistente necessaria per abitare la complessità del presente».
Può dirci di più?
Marea Art Project «Per mantenere l’equilibrio tra il dentro e il fuori rispetto al territorio in cui operiamo, partiamo sempre da ricerche situate e da saperi radicati nell’area che dalla Costiera amalfitana arriva fino a Napoli, con confluenze in altre regioni del sud Italia. Da qui, tessiamo reti con la scena artistica internazionale, soprattutto con quella femminista e queer. In futuro, l’obiettivo è amplificare il nostro respiro per immaginare nuove costellazioni con il Mediterraneo e con il Sud del mondo».

Quali strategie adottate per evitare che le residenze diventino esperienze isolate?
Marea Art Project «Abbiamo sempre riposto molta energia nell’instaurare relazioni tra artistə e comunità locali. L’abbiamo fatto mettendo in circolazione conoscenze incarnate e reciproci atti di fiducia e di cura che dal cucinare o mangiare insieme arrivano a mettere al centro la festa, il gioco, il tramonto. In tal senso, l’esperienza di Rural Visions, attraverso la residenza artistica di Luca Marcelli Pitzalis, ha significato tutto questo, permettendo di lavorare all’unisono nella creazione di quadri comunitari inclusivi e sperimentali».
Guardando ai prossimi anni, quali sono le sfide principali per chi fa cultura ai margini?
Liminaria «Le sfide per chi fa cultura nei territori non metropolitani riguardano la possibilità di abitare le complessità di questi luoghi senza ridurli a cornici funzionali o a spazi “altri” su cui proiettare visioni precostituite. In un tempo in cui il concetto di margine è sempre più presente nei discorsi artistici, è fondamentale interrogarsi su cosa significhi oggi lavorare con e in questi territori, senza cedere alla tentazione dell’esotizzazione».

Come può l’arte contemporanea contribuire a immaginare nuovi modelli di abitare e di comunità per le aree interne italiane?
Liminaria «La residenza artistica è anzitutto un tempo altro, un dispositivo relazionale, un processo situato. Non una formula da applicare né un intervento di rigenerazione, ma un attraversamento sensibile che si lascia trasformare dal contesto. L’esperienza di Rural Visions ci ha confermato che abitare il margine significa riconoscere le genealogie profonde che attraversano i territori e aprirsi a nuove possibilità. Il futuro delle residenze non può essere pensato come semplice moltiplicazione di format, ma come spazio per immaginare forme alternative di vivere, di ascoltare, di convivere. Fare cultura nei territori non centrali non è un gesto da rivendicare, né un posizionamento estetico: è, oggi più che mai, una scelta politica».















