30 luglio 2025

Hulk Hogan e l’immaginario della Real America di Donald Trump

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La società dello spettacolo ha cambiato la politica con una mossa di wrestling: cosa significano la vita e la morte di Hulk Hogan, nell’America targata Donald Trump

Donald Trump e Hulk Hogan. Ph. Jeffrey Asher/ Getty

I am a real American
Fight for the rights of every man
I am a real American
Fight for what’s right
Fight for your life!

Era questa, Real American, di Rick Derringer, la theme song usata nei celebri ingressi di Terry Gene Bollea: The Incredible, The Immortal Hulk Hogan, il più grande wrestler americano della storia, morto il 24 luglio 2025 a Clearwater, Florida.

Erano i primi anni ‘90 quando la Fininvest cominciò a mandare in onda su Italia 1, il sabato notte, alcuni incontri della WWF, la World Wrestling Federation, commentati dalla imitatissima voce di Dan Peterson. Lottatori super muscolosi, grandi acrobazie, vestiti con tute e body sgargianti, che si affrontavano in incontri sul ring senza esclusione di colpi.

Hulk Hogan e Andre The Giant

Ciò che colpiva l’immaginazione di noi Gen X, abituati al massimo alle scenografie di varietà alla Fantastico o ai fiori del Festival di Sanremo, era la gamma dei colori, dei colpi di scena, degli imprevisti sparati al massimo nelle vecchie tv catodiche che avevano, da pochi decenni, abbandonato i bianco e il nero. I laser che fendevano l’aria, le scenografie, le macchine teatrali, i ring e le gabbie simili a un videogame, le migliaia di persone del pubblico in delirio, la musica debordante, i costumi scintillanti di questi macho americani che non erano solo grandi atleti e lottatori. Avevano dei caratteri specifici, identità ben visibili al primo colpo, delle storie che si intrecciavano e stupivano: il poliziotto Big Boss Man, il sergente Sgt. Slaughter, Undertaker il becchino, Ultimate Warrior il nativo americano.

Si facevano accompagnare da serpenti (Jake the Snake Roberts), pappagalli (Koko B. Ware), da bandiere stars and stripes di Hacksaw Jim Duggan (il boscaiolo americano un po’ tonto ma patriottico) e così via. Era un mondo fantastico, fatto per adulti e per bambini in cui la violenza era evidente, brutale ma simulata, giocosa, grottesca. Come sosteneva Roland Barthes, il wrestling è «Una pantomima eccessiva: il dolore è simulato ma reale per chi guarda, perché la sua funzione è significare, non essere». Gli incontri erano infatti decisi a tavolino, con una sceneggiatura che, ridotta all’osso, prevedeva lo scontro tra un buono, il babyface e the heel, il cattivo che «Si riconosce a colpo d’occhio: non è la sua brutalità a definirlo, ma il suo modo di ostentare il crimine».

Hulk Hogan e Antonio Inoki, 1982

Tutto sotto la magistrale direzione di Vince McMahon. Presentatore, impresario, finanche wrestler, che riuscì in pochi anni a unire tutte le federazioni di wrestling locali sotto un’unica sigla, la WWF – come sapidamente raccontato in una bellissima serie Netflix, Mr. McMahon – e a connettere la WWF all’esplosione delle tv via cavo degli anni ‘80, alla nascita di aggressive industrie del merchandising e a siglare importanti partnership come con giganti come Mtv (Rock ’n’ Wrestling Connection). Uno spettacolo quadrimensionale, senza limiti, senza vincoli soprattutto. Ma che senza di lui, senza Hulk Hogan, non sarebbe stato quello che è diventato per l’America oggi. Lo show per eccellenza.

Hulk Hogan e Vince McMahon

Gli ingressi dei lottatori in arene gremite come il celebre Madison Square Garden, lo SkyDome di Toronto e la Trump Plaza Hotel and Casino di Atlantic City erano un momento speciale. Si capiva il gradimento del pubblico, il tifo, gli schieramenti.

Ogni wrestler aveva il suo tema musicale, le sue espressioni, i suoi gesti caratteristici. Ma quando ad entrare in scena era lui, Hulk Hogan, succedeva qualcosa di diverso, davvero difficile da descrivere. Era il centro, il motore dello show. Era lo show. La folla in delirio entrava in una sorta di simbiosi con i suoi gesti: mani alle orecchie per sentire urla più forti, muscoli pompati al massimo e, infine, il suo rito propiziatorio: strapparsi la maglietta. Un gesto da supereroe, da eroe dei fumetti.

La sua forza, il suo coraggio non avevano limiti per i suoi fan. Perché era il bene contro il male. Era colui che si batteva contro chi usava scorrettezze e colpi bassi, si serviva di sedie e bastoni sul e fuori del ring, che si intrometteva negli incontri degli altri e nei conteggi arbitrali di match ormai finiti. Era il nostro eroe buono. Un po’ come Stallone in Rocky o Schwarzenegger in Terminator 2. Arriva la cavalleria, arriva Hulk Hogan e ci salverà tutti. Anche chi non se lo merita. Anche chi non è americano.

Hogan è morto a 71 anni per arresto cardiaco, dopo una vita disordinata, fatta di uso smodato di steroidi, di dipendenze da alcol e farmaci antidolorifici, di continui interventi alla schiena, alle ginocchia, alle anche, volto, occhi. Morto con uno strascico di accuse di xenofobia e razzismo. Donald Trump è stato uno dei primi a ricordare il suo amico, a definirlo «A true legend, a great friend!».

Hulk Hogan, Donald Trump, Andre The Giant

Dietro il gigante buono c’era insomma un uomo schiacciato dal successo, dal peso dello showbiz, e dall’impossibilità di avere una vita normale. Una leggenda, un mito che ha cercato fino all’ultimo di resistere a se stesso. E probabilmente dietro la patina scintillante di questo super wrestler che cambia, con il suo talento e la sua presenza scenica, la storia di un’intera disciplina, c’è dell’altro. C’è l’emersione di un fenomeno carsico e sottovalutato per decenni e che ha preso il sopravvento in questi anni di presidenze Trump. Quella Deep America, bianca, aggressiva, ferita, che inveisce e sfida i suoi “nemici”. Quella folla dionisiaca a stelle e strisce, che inneggia suplex, body slam, frog splash – le tecniche acrobatiche del wrestling – ma che, a volte, all’occorrenza, imbraccia il celebre AR-15, il fucile da guerra usato da tutti gli stragisti bianchi.

Non è un caso che The Donald, come già accennato, abbia non solo ospitato gli eventi WrestleMania IV e V (‘88 e ‘89), con Hulk Hogan – Macho Man Randy Savage come Main event. Ma è stato coinvolto anche in una storyline nel 2007, nella celebre Battle of the Billionaires del 2007 a Detroit, in cui lui e Vince McMahon si sfidavano scegliendo dei lottatori da far sfidare sul ring. Chi perdeva la battle veniva rasato a zero davanti alla folla in delirio. Trump ovviamente vinse.

Ma prima del match il futuro Presidente degli Stati Uniti d’America si rese protagonista di alcuni Promo. I promo sono degli interventi registrati o in diretta che servono per costruire le storie, i personaggi, in primis per promuovere l’incontro, ma nella realtà diventano un mezzo efficace per far salire la tensione, la rivalità, per minacciare o sminuire l’avversario. Dei veri e propri detonatori in grado di far esplodere l’eccitazione del pubblico nell’arena e a casa. Qualcosa che tornerà estremamente utile a The Donald nei suoi discorsi da candidato e da futuro presidente.

In fondo, Hulk e Trump probabilmente hanno rappresentato il non plus ultra di questa arte imbonitrice. Che apparentemente sembra rivolta a tutti ma non lo è. La capacità di istigare reazioni, suscitare emozioni di rabbia, gioia, vendetta è diretta a un target preciso di pubblico.

Ancora una volta Roland Barthes ci viene in soccorso. Il wrestling è «Un universo senza mistero. Qui la verità è totale, immediata, visibile. L’eroe è nobile, il cattivo è vile, e la giustizia trionfa sempre in un atto finale esibito, senza ambiguità». È proprio l’evento del wrestling, un ibrido televisivo e sportivo, finto e reale, rituale e parodistico, grottesco e violento allo stesso tempo a tenere insieme tutto, ogni cosa: machismo, prevaricazione, esibizione della forza, dileggio e umiliazione dell’avversario, sesso, potere e business. Ma soprattutto il trionfo della Giustizia. Quale? La loro ovviamente, quella di Trump e dell’America.

Non è un caso che tutti i wrestler nati in quegli anni fondativi abbiano sviluppato personalità e fenotipi legati a range precisi di pubblico, rispecchiando pregiudizi razziali, culturali e sociali, con pochissimi atleti afrodiscendenti (Junkyard Dog, Ron Simmons, campione WCW del ‘92) e con un dominio di atleti bianchi americani e canadesi interrotto solo alla fine degli anni ‘90 e inizio 2000, con The Rock (origini samoane) e Rey Mysterio, proveniente dalla lucha libre messicana.

Sotto le urla fameliche dei palazzetti di Chicago, Las Vegas, Houston, San Antonio, si è alimentata la fiammella di quell’odio, di quel rancore verso il mondo che non riconosce la grandezza di un’America ferita ma non sconfitta. E The Donald riesce infatti a unire tutti gli stereotipi sopracitati: bianco, ricco, forte, biondo, egoista, prevaricatore ma anche buono, eroico, coraggioso, che si batte per la gente d’America. Proprio come Hulk.

È a quel pubblico che The Donald si rivolge. Un’ energia cinetica che ha assistito ai fallimenti delle altre élite politiche – i repubblicani alla Bush, padre e figlio, i democratici alla Clinton e Biden – e che ha aspettato il suo turno. Un pubblico costruito nei decenni, che ha scalato posizioni, che si è imposto in rete (Alt-Right, QAnon), per le strade (Proud Boys, Boogaloo Boys, Oath Keepers, ovvero i gruppi che hanno assaltato Capitol Hill nel 2020) e infine entrati nei palazzi di potere, con il movimento MAGA – Make America Great Again.

Sono gruppi e movimenti che non accettano le regole del gioco democratico (impensabile perdere le elezioni), le regole del mercato (vedi i dazi di questi mesi imposti dall’amministrazione Trump), che non vogliono che la società cambi, si trasformi, si evolva. In fondo la potenza sovversiva del wrestling e di Trump si può ridurre a questo. Non ci sono leggi o regole che la forza e l’interesse non possano cambiare, modificare in corsa. È un nuovo corso antropologico, politico, filosofico per certi versi.

E ora, dopo che Hulk è uscito di scena, tocca a Trump guadagnare il centro del ring, pompare i bicipiti, strapparsi la camicia Brooks Brothers e urlare al pubblico: YEAHH!

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