15 agosto 2025

Focus curatori in 22 domande: intervista a Clemente Miccichè

di

22 domande per curatrici e curatori, spesso outsider, per raccontare tutte le declinazioni più attuali di un ruolo di responsabilità: la parola a a Clemente Miccichè, “curatore facilitatore”

NIno Migliori, una storia della fotografia italiana, Xi'An Art Museum. Exhibition view. Courtesy Xi'An Art Museum

Prosegue il nostro FOCUS curatori, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La nuova puntata della nostra rubrica ha per protagonista Clemente Miccichè.

Clemente Miccichè

Come ti definiresti?

«Le definizioni mi stanno strette, e detesto le etichette. Ho però dei valori che cerco di incarnare ogni giorno: empatia, altruismo, affidabilità. E una grande dose di curiosità, senza la quale non penso si possa lavorare nel mondo dell’arte».

Dove sei nato e dove vivi?

«Mia madre è di Francoforte, mio padre di Palermo. Si sono conosciuti a Milano, a metà strada, dove sono nato e cresciuto. Dopo aver vissuto in giro per l’Europa sono tornato a Milano per amore, e ora faccio il pendolare tra Milano e Torino».

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«In Ways of Curating, Hans Ulrich Obrist sostiene che la Svizzera ha prodotto alcuni tra i più grandi curatori per la sua propensione linguistica e culturale alla multidisciplinarità. Io ho avuto la fortuna di nascere in un contesto analogo. Potrei vivere ovunque ci sia aria di novità e cambiamento, da Nairobi a Seoul. C’è una città che però mi ha fatto sentire a casa, grazie alla commistione tra creatività, tecnologia e natura. Mi trasferirei volentieri a Copenaghen».

Tommaso Bonaventura, Alessandro Imbriaco, Fabio Severo, La Teoria del vuoto, Witty Books, 2024

Quando hai capito che ti interessava l’arte?

«Credo di averlo sempre saputo. Mio padre aveva una piccola casa editrice, e da ragazzino mi trovavo a passare i pomeriggi in ufficio con lui, in mezzo a riviste d’arte e cataloghi, mentre passavano personaggi come Gabriele Mazzotta, Manuel Agnelli, Davide Rampello.

Più tardi mi sono accorto che quei pomeriggi spesi ad annoiarmi e a fingere di fare i compiti siano stati per me preziose lezioni di vita».

Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?

«Durante la pandemia mi sono ritrovato in un limbo, in cui non sapevo come sfruttare i miei studi in filosofia. La curiosità mi ha spinto a iscrivermi alla School of Curatorial Studies di Venezia, e dal primo giorno è stata una vera e propria epifania: capii che era la mia strada, anche se non sapevo dove mi avrebbe portato».

Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?

«Qualsiasi testo di Andrea Pinotti, mio docente in università e da cui non smetto mai di imparare; Cloning Terror di W.J.T. Mitchell, Immagini malgrado tutto di Georges Didi-Hubermann, Questione di sguardi di John Berger, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico di Horst Bredekamp. Testi che mescolano la filosofia dell’immagine alla cultura visuale, cercando di dare nuove prospettive e nuovi punti di vista al mondo che conosciamo. E poi What Great Paintings Say di Rose Marie e Reiner Hagen: un testo pop, che serve a ricordarmi che il mio lavoro è rivolto a un pubblico da accompagnare, non da escludere».

La Teoria del Vuoto, installation view, Il Quartiere, Saluzzo. Courtesy Francesco Puppo.

Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?

«Le più disparate. Cinema, teatro, poesia, cucina, sport. Conversazioni tra amici e frammenti ascoltati in metropolitana. La vita del curatore è come quella del comico: ogni momento e ogni argomento può essere fonte di ispirazione, se avviene la giusta connessione capace di conferire nuove forme di senso a ciò che si incontra».

Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?

«Serial Classics, curata da Salvatore Settis a Fondazione Prada. Per la prima volta, ho capito che anche l’arte antica può diventare contemporanea se raccontata in modo innovativo».

Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione delle arti visive?

«L’opera che più mi ha commosso è stata la Cappella degli Scrovegni di Giotto, quella che però mi ha spinto a fare dell’arte una professione è stato uno degli Strip Paintings di Gerhard Richter: mi turbava profondamente, senza comprenderne il motivo. Capii che dovevo estrapolare qualcosa di inconscio, dare parola e struttura a una forma di comunicazione non verbale».

Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?

«Tutti quelli con cui ho lavorato – e la maggior parte di quelli con cui ho scambiato anche solo due parole nel loro studio. Compresi quelli che non mi piacciono: capire qualcosa che per me non funziona mi aiuta a definire meglio ciò che voglio valorizzare».

Nino Migliori, una storia della fotografia italiana, Xi’An Art Museum. Foto dell’opening. Courtesy Xi’An Art Museum

Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?

«Innanzitutto Alessandro Carrer, direttore della Fondazione Garuzzo per la quale lavoro: sono ormai tre anni che collaboriamo a numerose iniziative, ed è per me un modello umano prima che professionale.

Tra i punti di riferimento indiretti, Germano Celant e Massimiliano Gioni. Il primo per l’incommensurabile talento, il secondo per la sua empatia. Ricordo quando, da studente, lavorai come mediatore a una sua mostra: passò una giornata intera con noi, aggiungendo “il mio lavoro non serve a niente se non ci siete voi a spiegarlo”».

Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?

«I won’t look back anymore, un’installazione di Land Art (divenuta poi mostra fotografica) realizzata da Fabio Roncato alle saline di Sicciole, al confine tra Slovenia e Croazia. Mi trovavo lì per un tirocinio e ho sentito l’esigenza di lasciare una traccia del mio passaggio. Insieme a Giorgia Simioni, amica e collega con cui collaboro ancora oggi, abbiamo realizzato tutto da zero, dalla ricerca dei finanziamenti all’allestimento, la curatela, e la produzione di una pubblicazione. Lì ho capito che oltre ad avere il desiderio di fare il curatore, avevo anche le capacità per farlo».

Qual è la tua definizione di curatore?

«Il curatore è innanzitutto un facilitatore. Deve rendere possibili i desideri e i progetti altrui, mediare tra artista e committente. Empatia, altruismo, affidabilità e curiosità sono fondamentali. Se è anche brillante, può diventare davvero bravo».

Fabio Roncato, I’ won’t look back anymore, 2021, immagini di documentazione. Foto di Daniele Marzorati

Qual è la tua giornata tipo?

«Non ne ho una vera e propria. Ci sono mail, telefonate, lavoro d’ufficio, certo. Ma spesso sono in giro per inaugurazioni, studio visit, lezioni in università, sopralluoghi. Tutto inizia però sempre con un vizio scoperto di recente: il caffè macinato al momento».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Non ho riti veri e propri, ma ho mantenuto dai tempi dell’università l’abitudine di “staccare” il giorno prima di un evento importante. Se posso, faccio tutt’altro: mi aiuta ad avere la freschezza mentale utile ad aggiungere quella scintilla di improvvisazione che spesso serve».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«È parte integrante del mestiere. Bisogna essere pronti alle emergenze, ma anche saper accogliere i cambi dell’ultimo minuto».

Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?

«Ce ne sono tanti, ma se dovessi sceglierne uno penso sia La teoria del Vuoto, realizzato con la Fondazione Garuzzo e vincitore di Strategia Fotografia nel 2022. Si tratta di un progetto fotografico – diventato poi libro d’artista – realizzato da Tommaso Bonaventura, Alessandro Imbriaco e Fabio Severo, i quali hanno analizzato lo sviluppo architettonico e urbanistico di Platì e Buccinasco, due realtà apparentemente molto distanti (uno un comune alle porte della città metropolitana di Milano, l’altro un piccolo feudo nascosto nell’Aspromonte), accomunati dalla presenza di clan ‘ndranghetisti che ne hanno mutato il tessuto sociale e geografico.

Si tratta di un progetto che si è sviluppato in più forme (una mostra fotografica a Saluzzo, un libro d’artista, una serie di presentazioni svolte in giro per l’Italia), che ha coinvolto ricercatori in procedura penale, docenti di sociologia, membri degli uffici tecnici del comune, mostrando ogni volta il fenomeno sotto una lente differente».

Fabio Roncato, I’ won’t look back anymore, 2021, installazione site specific, 22 metri di diametro. Foto di Daniele Marzorati

A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?

«Penso che l’Italia abbia ottimi critici, ma che si sia perso l’interesse per la critica in sé. Si scrive solo di ciò che piace, e si evita di parlare pubblicamente di ciò che non funziona, salvo poi sparlarne in privato o in circoli ristretti. E questo danneggia l’intero movimento».

Quali sono i tuoi riferimenti critici?

«Mi ispiro molto alla scuola americana: Clement Greenberg, Rosalind Krauss, Arthur Danto, Rene Ricard, Robert Storr».

La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?

«Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo, curata da Lorenzo Balbi e Caterina Molteni e attualmente in corso al MAMbo di Bologna. Mi sono divertito molto da spettatore, ma penso che mi sarei divertito ancora di più a organizzarla».

Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?

«A volte mi manca un pizzico di cinismo».

Progetti in corso e prossimi?

«Il 24 luglio si è inaugurata Il paesaggio infinito, mostra fotografica di Daniele Marzorati frutto di una residenza artistica a Paesana, piccolo centro diviso dal Po alle porte del Monviso. A fine luglio, si è chiusa Le divisament dou Monde: disegni italiani sull’Estremo Oriente, mostra collettiva di opere su carta ospitata presso la China Academy of Art di Hangzhou, per la quale ho assistito Angela Tecce nella curatela. A settembre curerò un intervento site specific di Alessandro Sciaraffa al The Open Box di Milano, uno dei più interessanti e ferventi spazi indipendenti rimasti a Milano. A ottobre inaugurerà presso la Fabbrica del Vapore di Milano Futuri Ibridi, una mostra che sto organizzando con Benedetta Casini e che nasce dalla collaborazione della Fondazione Garuzzo con Bienalsur. Più un’altra serie di iniziative in Italia e nel mondo di cui ancora non posso dire nulla, ma che sentirete presto».

Le Divisament dou monde, disegni italiani sull’Estremo Oriente, installation view, China Academy of Art, Hangzhou. Courtesy China Academy of Art

Chi è Clemente Miccichè

Clemente Miccichè (Milano, 1994) insegna Fenomenologia delle Arti Contemporanee presso la facoltà di Fashion Design dello IED di Torino e collabora in qualità di curatore con la Fondazione Garuzzo, con la quale ha realizzato numerose mostre in Italia e in Cina. Svolge l’attività di art advisor per collezionisti e gallerie, e scrive articoli per saggi e riviste di settore dedicate all’arte contemporanea.

Nel corso dell’ultimo anno ha curato le mostre Nino Migliori: una storia della fotografia italiana presso il Xi’An Art Museum, Le divisament dou Monde: disegni italiani sull’Estremo Oriente alla China Acadamy of Art di Hangzhou (come assistente di Angela Tecce), Sintesi a Colori. Tecnologia, arte e design dal 1945 a oggi alla Castiglia di Saluzzo. Ha presentato il volume La Teoria del Vuoto presso Camera (Torino), Micamera (Milano), Palazzo Butera (Palermo), la monografia di David Reimondo presso il Circolo dei Lettori (Torino) ed è stato relatore al panel La diplomazia culturale al tempo del Piano Mattei al Samsara Fest di Carmagnola.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui