21 agosto 2025

Focus curatori in 22 domande: intervista a Gabriele Lorenzoni

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22 domande per curatrici e curatori, spesso outsider, per raccontare tutte le declinazioni più attuali di un ruolo di responsabilità: la parola a Gabriele Lorenzoni, “curatore dalle fonti incoerenti”

Exhibition view mostra Allegoria della felicità pubblica – Archivio fotografico Mart, ph. Carlo Baroni

Prosegue il nostro FOCUS curatori, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La nuova puntata della nostra rubrica ha per protagonista Gabriele Lorenzoni.

Ritratto Gabriele Lorenzoni – exhibition view mostra Intelligenze emotive – Archivio fotografico Mart, ph. Edoardo Meneghini

Come ti definiresti?

«La mia professione è quella di curatore. Sono inoltre, da novembre 2023, responsabile della Galleria Civica di Trento, una delle sedi espositive del Mart, Museo di Arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Ma se devo donare a me stesso un momento di compiaciuta autocelebrazione, mi definisco, in base ai miei studi e alla mia sensibilità culturale, Storico dell’arte».

Dove sei nato e dove vivi?

«Sono nato in un paesino di montagna, uno di quei posti descritti da Franco Arminio, dove la vita, culturale e sociale, è inaridita. Vivo a Trento, in riva all’Adige: è una città che amo, dove ho trovato la mia dimensione, professionale e umana».

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«Non dove, ma quando. Mi piacerebbe essere nato prima della presunta fine della storia, prima del grande inganno degli anni Ottanta e Novanta. Va benissimo l’Italia, Paese che offre infinite criticità e infinite possibilità. Il problema è l’oggi. Dovessi optare per una geografia altra, direi senza dubbio Beirut: non c’è città al mondo che meglio interpreti la convivenza di ogni cosa –  meravigliosa e drammatica –  che la civiltà umana abbia saputo creare».

Exhibition view mostra Allegoria della felicità pubblica – Archivio fotografico Mart, ph. Carlo Baroni

Quando hai capito che ti interessava l’arte?

«Quando per la scelta del percorso universitario cui iscrivermi i docenti del liceo suggerivano con forza giurisprudenza o medicina. Mi sono detto, ma a me cosa interessa e cosa piace davvero?».

Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?

«È capitato. Consapevole di dire una cosa impopolare, il mio sogno era altro, ovvero l’insegnamento. La pratica curatoriale è nata a servizio del mio impegno nel campo del contemporaneo, e si è poi nutrita della grande occasione di entrare a far parte in pianta stabile dello staff curatoriale del Mart e di decine di incontri, scontri, dibattiti, amicizie».

Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?

«Potrei abbozzare uno sterile elenco, ma credo che sia più rilevante l’attitudine: trovo che un curatore debba confrontarsi con più fonti possibili, le più disparate e contraddittorie, per poter sperare di fornire un punto di vista – non dico inedito ma quantomeno utile – sulle complessità del presente. Non vedo quindi divisioni gerarchiche fra La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell’esistenza di Emanuele Severino e Cuore di ciccia di Susanna Tamaro; fra “Internazionale” e “La Gazzetta dello Sport”; fra Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’antichità alla Rivoluzione francese di Rudolf e Margot Wittkower e 222 Artisti emergenti su cui investire di Cesare Biasini Selvaggi. L’ultima mostra che ho curato, una personale di Barbara De Vivi, si intitola Due di due, citando il romanzo di Andrea De Carlo, un libro che mi ha sempre accompagnato».

Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?

«Come per i libri, le fonti sono e devono essere molteplici, fluide e se possibili fra loro incoerenti. Cerco di catturare informazioni utili alla mia crescita personale e professionale dal flusso indistinto dei social media, come dalla stampa quotidiana, dai concerti, dalle manifestazioni politiche, dal teatro, da una partita di calcio allo stadio. Se devo indicarne una sola, non posso non fare riferimento al cinema: non vorrei però fare il borioso e dire che le mie fonti sono (solo) Fellini o Bergman o Kurosawa, perché trovo il più profondo bagno di verità e qualità in opere di autori e autrici come Lina Wertmüller, Derek Jarman e Francesco Nuti, per citarne alcuni in ordine sparso. Ma anche una cosa frivola e pop come la serie koreana Itaewon Class, è recentemente entrata nel novero delle mie personalissime fonti: basta saper scavare e scovare i significati profondi».

Gabriele Lorenzoni con Adolf Vallazza – Tublà da Nives, Selva Valgardena – ph. Thomas Vallazza

Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?

«La seconda Biennale di Harald Szeemann, Platea dell’umanità, del 2001, si perde in un ricordo adolescenziale vago: non avevo idea di quello che avrei fatto nella vita, ero indolente ed ero attratto e un po’ irritato da quella manifestazione bizzarra. Ebbi la fortuna di una visita del tutto improvvisata e superficiale, ma il ricordo è lucido e qualcosa si è sedimentato: l’idea che lì stesse avvenendo qualcosa di utile. La concezione che una mostra possa generare un piccolo elemento di alterazione sistemica rispetto a un mondo che va alla deriva, credo discenda da quel pomeriggio svogliato di molti anni fa».

Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?

«Ho il ricordo fisso di un punto di svolta nel mio rapporto con l’opera d’arte, durante una visita al Centre Pompidour. Plight di Joseph Beuys è un’opera ambientale, una sorta di grembo materno, dove la percezione spaziale, temporale, sonora e olfattiva è del tutto alterata. Mi sono profondamente interrogato sull’impatto fisico, prima ancora che culturale, dell’opera e ho trovato struggente e sorprendente che, pochi mesi prima della morte un artista, potesse produrre un tale capolavoro, un testamento lucido che non guarda indietro, bensì sposta ancora una volta lo sguardo sull’altrove, verso territori inesplorati».

Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?

«La risposta più ovvia (e forse anche corretta), è “tutti e tutte quelli con cui ho avuto il piacere e l’onore di lavorare”. Mi fa piacere però citare due nomi, anche in questo caso agli antipodi fra loro.

Adolf Vallazza, decano degli scultori italiani, classe 1924, ancora attivo. Vallazza è nato esattamente 60 anni prima di me; dopo la prima mostra insieme ho guadagnato la sua fiducia e, da allora, mi ha ripetuto più volte “sei un buon amico”. La sua capacità di ascoltare e dare peso all’opinione di una persona due generazioni più giovane di lui mi ha insegnato come l’umiltà debba essere sempre un valore di riferimento. La seconda è Laurina Paperina, artista e persona in cui la professionalità convive con una anarchia pura, con una vena surreale sincera e irrefrenabile. Porto una sua figura tatuata sull’avanbraccio, segno di un legame con la dimensione irrazionale e ossequioso omaggio alla sacra virtù dell’auto-ironia».

Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?

«In Italia esiste una profonda commistione fra curatela, critica, attività dirigenziale e direttoriale in musei e fondazioni, ricerca e università e curatela: per questo non cito una curatrice pura, ma una direttrice di Museo, Cristiana Collu. Ho avuto il piacere di dare forma alla mia collaborazione con il Mart sotto la sua direzione e ho appreso moltissimo dalla sua capacità di immaginare nuovi punti di vista, di perseguire un obiettivo passando dalla strada più faticosa, di non accontentarsi della mai prima versione, benché apparentemente già soddisfacente. Grazie a lei ho imparato a dare sempre la precedenza al pensiero laterale, evitando accuratamente le trappole della praticità».

Exhibition view mostra Ex Post, Laurina Paperina – Archivio fotografico Mart, ph. Jacopo Salvi

Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?

«Non posso non citare la mostra Legno | Lën | Holz della Galleria Civica. Si trattava di un progetto un po’ nerd, che avevo nel cassetto da un paio di anni, sulla scultura lignea contemporanea. Grazie alla fiducia dell’allora direttore del Mart, Gianfranco Maraniello, la mostra si fece ed ebbe, senza falsa modestia, un successo mediatico e di pubblico travolgente. Attenzione: non intendo che sia il “successo”, orribile retaggio del carrierismo anni Novanta, a definire l’ingresso in una professione. In quella circostanza, però, per la prima volta, sentii che una mia visione curatoriale, un punto di vista inedito, era preso in considerazione e ritenuto rilevante e utile da molte persone, di varia estrazione».

Qual è la tua definizione di curatore?

«Non si può prescindere dall’etimo antico, dal concetto di prendersi cura. Per chi, come me, ha la fortuna di lavorare in maniera particolare con artisti e artiste viventi, questo concetto di cura si allarga al supporto operativo e talvolta – lo dico ovviamente con una buona dose di ironia – psicologico. Se non ci si pone in maniera empatica, non si cura tuttavia – nel contempo – non si viene nemmeno curati, nel senso che il flusso di apporti e supporti è biunivoco».

Qual è la tua giornata tipo?

«La mia giornata tipo prevede stare con la mia famiglia, camminare in montagna, mangiare e leggere bene, condividere pensieri e intrecciare dialoghi con persone che mi fanno crescere, imparare qualcosa di nuovo, oziare (nel senso latino del termine). Purtroppo, nel corso dell’anno le giornate-tipo sono meno di quelle ordinarie…».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Impreco moltissimo, lo trovo altamente liberatorio. Cerco di farlo quando sono solo, per non urtare le sensibilità di quanti e quante si trovino nei paraggi, eppure qualche incidente di percorso può – talvolta – capitare».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«L’imprevisto è l’elemento essenziale di ogni progetto curatoriale che abbia l’ambizione di registrare, raccontare, analizzare o contestualizzare qualsiasi cosa abbia a che fare con la vita vera: esiste nell’esperienza quotidiana di ogni essere vivente sul pianeta una sola giornata senza imprevisti? Sarebbe un’esistenza da incubo, una prigione della divina provvidenza, una gabbia nel circo della noia».

Exhibition view mostra Cromologia, Palazzo Assessorile Cles – ph. Valentina Casalini

Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?

«Vorrei citare Allegoria della felicità pubblica, che ho curato con la collega Giulia Colletti: la mostra ha avuto l’ambizione di mettere al centro un tema urgentissimo, però quasi sempre marginalizzato nell’agenda politica e sociale, quello appunto della felicità. Attraverso una compenetrazione di epoche, soggetti, matrici culturali, abbiamo favorito la coesistenza di ricerche artistiche che si interrogano sulla felicità non solo come principio di autodeterminazione della persona, piuttosto come interesse pubblico. La mostra integrava una serie di opere e progetti extramuros, volti a stimolare la partecipazione della cittadinanza e a ridefinire il significato dello spazio collettivo, aggiungendo una dimensione di condivisione e socializzazione che potesse oltrepassare i confini delle sale espositive. Le principali questioni sollevate dall’indagine condotta in dialogo con le artiste e gli artisti riguardavano il significato della felicità nel contesto sociale, economico e politico contemporaneo».

A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?

«Ritengo che la critica abbia, molto semplicemente, mutato le sue caratteristiche, divenendo altro, anche se non scordando la sua primaria funzione di servizio ai linguaggi del contemporaneo. Sono pessimista su molte altre cose, non sullo stato della critica d’arte, che semplicemente si ferma un passo prima, limitandosi alla cronaca e lasciando il giudizio a chi fruisce, a vario titolo, dell’opera d’arte o della mostra. Forse, chissà, è pure più democratico…».

Exhibition view mostra Nebojša Despotović. Tutte le nostre vite – Archivio fotografico Mart, ph. Daniele Benedetti

Quali sono i tuoi riferimenti critici?

«La mia generazione, composta dalle persone nate fra il 1980 e il 2000 circa, ha sfornato e sforna, a livello italiano (troppo complesso estendere maggiormente il discorso) professionisti e professioniste dell’arte contemporanea molto versatili e resilienti: siamo entrati nel mondo del lavoro a cavallo della crisi del 2008, che è divenuta poi crisi di sistema e ora catastrofe globale. Ma non ci siamo arresi, e credo che dalla critica alla curatela, dal mondo delle docenze universitarie e liceali al giornalismo, dalla comunicazione alla gestione degli aspetti amministrativi, dagli operatori museali ai freelancer, esista un piccolo esercito di colleghe e colleghi con capacità professionali e umane straordinarie. Sono e soprattutto voglio siano loro, la generazione dei Millenials dell’arte contemporanea italiana, di cui faccio parte, i miei riferimenti più diretti e necessari».

La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?

«È come chiedere a un calciatore quale partita avrebbe voluto giocare: credo risponderebbe sempre una finale dei mondiali. La finale dei mondiali della curatela è senza dubbio Documenta Kassel. Avrei voluto curare documenta15, edizione sulla quale ho un’opinione ambigua: da un lato, mette al centro tematiche, geografie e sensibilità ritenute fino a pochi decenni fa marginali, se non addirittura impronunciabili, e per questo è meritoria. Dall’altro, le mostre marginalizzavano l’opera stessa, riducendo tutto a un discorso intorno all’arte senza – però – interlocutori (con rarissime eccezioni). Per citare un vecchio film con Nanni Moretti, avrei re-immaginato documenta15 come un Caos calmo, un compromesso fra l’esplosione delle complessità e una possibilità di lettura, fruizione e crescita collettiva, che forse – ahimè – in quella circostanza non c’è stata».

Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?

«Il mio più grande limite professionale coincide con il limite del Sistema-Italia: la burocrazia. Sono insofferente alla burocrazia, tentacolare e minacciosa, che ha perso ogni punto di tangenza con la vita reale per divenire altro, una specie di Impero delle tenebre».

Progetti in corso e prossimi?

«Tantissimi in corso, per fortuna, altrettanti per il secondo semestre 2025. Sto ultimando una pubblicazione monografica su Alessandro Calabrese, che uscirà all’interno della Collana Monografie ADAC. Ho da poco inaugurato due nuove mostre alla Galleria Civica di Trento, personali dedicate a Barbara De Vivi e Nebojša Despotović, sto lavorando al finissage della mostra Ghiacciai di Sebastião Salgado, che ho avuto il piacere di coordinare e costruire con lo Studio Salgado e che purtroppo resterà come ultima produzione originale dell’artista. Nel contempo, sto lavorando alla mostra personale di Esther Stocker, che inaugurerà in ottobre e la vedrà protagonista, oltre che alla Galleria Civica, nel tessuto urbano della città di Trento, con un monumentale intervento di arte pubblica».

Exhibition view mostra Legno | Lèn | Holz, Willy Verginer – Archivio fotografico Mart

Chi è Gabriele Lorenzoni

Gabriele Lorenzoni (1984) è storico dell’arte e curatore. Dal 2023 è responsabile della Galleria Civica di Trento – Centro di ricerca sui linguaggi del contemporaneo, istituita nel 1989 dalla città di Trento, divenuta dal 2013 sezione del Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. È  inoltre responsabile di ADAC (Archivio Documentazione Artisti Contemporanei). La sua ricerca si rivolge principalmente al punto di intersezione e scambio fra la scena artistica del territorio nel quale lavora e l’ambito nazionale e internazionale. Si è occupato a più riprese di scultura contemporanea, con una particolare predilezione per i media meno diffusi quali scultura lignea e ceramica, e di linguaggi pittorici del nuovo millennio. Ha prestato servizio presso IED – Istituito Europeo di Design e altre realtà attive nel campo della ricerca e della formazione in qualità di docente di storia dell’arte contemporanea.

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