17 agosto 2025

Cinque serie d’autore da rivedere quest’estate

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Serie TV da cinema, o effetti da cinema nelle serie TV. Ecco una selezione di titoli firmati da grandi registi, da Woody Allen a Paolo Sorrentino

serie autore cinema
The Young Pope, Paolo Sorrentino

Viviamo in un tempo sempre più mediatico e narrato in cui i titoli e le soluzioni dell’intrattenimento (da intendersi alla maniera di Foster Wallace) si moltiplicano oltre misura. E mentre attendiamo con impazienza gli Stranger Things e torniamo con la memoria alle diapositive di una TV europea che non c’è più – attraverso Dekalog, The Kingdom, Berlin Alexanderplatz o Fanny & Alexander – vediamo da quasi vent’anni i grandi registi cimentarsi in questa nuova e vecchia forma. Da Scorsese a Soderbergh, da Refn a Guadagnino, gli autori provano, vincono e perdono sul ring della lunga durata. Qui di seguito nessuno dei nomi succitati, ma 5 titoli da recuperare, rivalutare, magnificare, scoprire e insultare.

MINDHUNTER di David Fincher, USA 2017

Uno dei grandi piaceri interrotti di questi ultimi anni è rappresentato da Mindhunter, capolavoro di David Fincher che, nelle maniere già anticipate in Zodiac (2008), ci racconta la nascita di qualcosa che tendiamo a dare per scontato nei thriller americani: la profilazione dei criminali. Lungi dall’essere sempre esistita infatti, questa pratica basata su analisi psicologiche è alla base di tutti i vari psycho-thriller recenti. La missione di Fincher è qui quella di inquadrare l’affermazione di questo modello investigativo storicizzandolo, calandolo nella società americana maschilista, scettica e razzista della seconda metà del XX secolo. I mostri riprodotti sullo schermo, i serial killer che si raccontano come fonte di dati per il trio di agenti FBI, rappresentano il lato oscuro di quella stessa società che, a tinte cupe tipicamente fincheriane, viene delineata in un lungo respiro che trova il suo prologo tra a fine anni Sessanta e primi Settanta (sull’onda delle rivoluzioni sessuali) e che poi si concentra sul più crepuscolare 1977, anno di inizio di questo percorso pionieristico e inquietante. Cast assortito in cui spiccano Holt McCallany e Anna Torv, eroina sensuale la cui tensione è costruita sugli stessi stilemi utilizzati per Dana Scully in X-Files (1993) – serie tra le capofila nell’uso del profiling nonché dell’intervento femminista nell’alveo delle attività vetero-maschili. In sottotraccia invitiamo a riscoprire proprio quest’ultima serie anche se, visto il numero sfiancante di episodi, potreste non farcela entro il prossimo Natale. Mindhunter invece, monca di una conclusione vera e propria per motivi di costi, invece la finireste in un paio di settimane, in tempo per il rientro in ufficio.

CRISIS IN SIX SCENES di Woody Allen, USA 2016

Tra le serie più flop degli ultimi anni c’è sicuramente Crisis in Six Scenes di Woody Allen che rappresenta l’esordio alla misura miniseriale del maestro commediografo. La motivazione dell’insuccesso è semplice, chi si aspettava uno scoppiettante calembour pieno di ritmo è rimasto deluso nel trovare gli stessi modelli ma intrappolati in ciabatte e difficoltà deambulatorie. Per l’audience italiano poi lo shock sarà stato ancor maggiore dal momento che, essendo quest’opera il ritorno in cast del personaggio occhialuto, si attendeva la storica vocalità di Oreste Lionello, qui invece sostituito da Leo Gullotta. Nella tradizione inclusivistica alleniana, il cast inanella nomi interessanti come Miley Cirus (un po’ fuori parte), Rachel Brosnahan, David Harbour e soprattutto la mitica Elaine May. La storia è quella di una Miss Lonely in fuga dalla polizia per aver fatto la bombarola con le Black Panthers. Naturalmente si rifugerà nella cucina di Allen e May con esiti buffissimi. Se si sceglie la traccia audio inglese si potrà godere al meglio di questa situazione paradossale che unisce Pastorale Americana a Misterioso Omicidio a Manhattan in una riproposizione costante degli stessi temi. Il tempo purtroppo passa per tutti e, con l’andare degli anni, Woody Allen ha perso di vista la realtà del mondo. Tuttavia questo testo ha delle sorprese: l’ambientazione anni Sessanta, per esempio, la scrittura, che al di là dell’esecuzione ha parecchi momenti brillanti e in altri decenni avrebbe fatto da impalcatura a una delle più riuscite commedie del cineasta. In ogni caso, per chi si lamentasse della sua inadeguatezza al mezzo, ribadiamo che più che di un serial si tratta di un film di 150 minuti suddiviso in micro-episodi. Perciò riscopritelo, vi costerà meno di tante altre pretese lunghissime e finto autoriali.

DISCLAIMER di Alfonso Cuarón, UK 2025

Alfonso Cuarón ha uno stile mimetico, un’autorialità che ti arriva addosso quando meno te lo aspetti, come un sabotatore silenzioso. Il suo percorso apolide lo dimostra: debutta anonimamente in Messico, arriva in USA con produzioni importanti ma poco significative (una su tutte quel Great Expectation con Gwyneth Paltrow, 1998) e poi torna di nuovo a casa per consacrarsi autore premiato a Venezia con Y tu mamá también (2001) e da lì proseguire su un percorso tortuoso che, fino a Roma (2018), ogni tanto sembrava potesse farlo finire nelle botole dei cineasti da cassetta (ha diretto anche uno tra i più pregevoli Harry Potter) e invece no, eccolo alle prese con la serialità più raffinata. Questo Disclaimer si apre con un riferimento al suo film del 2001, ma è ambientato in una Londra plumbea e favolistica che sta a metà strada tra Golconda e The Children of Men (2006, forse il suo capolavoro) e scarica sulle poderose spalle di Cate Blanchett la responsabilità del karma. Una vendetta in stile Cachè (Michael Haneke, 2005) diventa occasione per riflettere sul senso della colpa e ha il merito di riconfigurare queste tematiche aggiornandole ai valori di una società borghese nuova ma ancora stupida. Nel cast Kevin Cline è un clown villain spregevole e buffissimo che vive in bilico tra due cifre perenni, quella tragica, incarnata dalla sublime interpretazione della protagonista, e quella comico-grottesca collocata negli antri della propria triste vita quotidiana fatta di tappeti anni Ottanta e sandwiches dal sapore antico; una goffa e micidiale erinni che decide di escogitare una vendetta ai danni di colei che gli avrebbe sconvolto la vita. Vero? Falso? Lo scopriremo in 7 lunghe puntate, attraverso il viaggio in un passato connotato come lontano e recente allo stesso tempo (25 anni fa era già il terzo millennio) e in cui i concetti di memoria, colpa e narrazione sono messi al vaglio attraverso la splendida metafora del self-publishing. Da vedere per i due summenzionati interpreti oltre che per l’insolita parte passivo/aggressiva assegnata a Sacha Baron Cohen. I maschi ne escono malissimo. O comunque fanno ridere parecchio.

TWIN PEAKS di David Lynch e Mark Frost, USA 1990/2017

Chi ha ucciso Laura Palmer? Quando si parla di serie d’autore è la prima domanda che viene in mente. Twin Peaks è il punto di non ritorno della serialità televisiva, quello da cui è iniziato quel percorso che avrebbe condotto questo strumento alla legittimazione cinematografica attuale. Spendere parole che non siano già ripetute sulla geniale creazione di Lynch & Frost è impossibile, perciò ci limiteremo a ricordare di cosa si tratta in estrema sintesi: il paradigma di tutti gli omicidi di provincia di tutto il mondo occidentale. In quest’ottica diventa chiaro il peso mitopoietico dell’operazione e il motivo per cui, come avviene appunto nel mito, la storia ha una persistenza perenne e continua dotata di uno specifico pantheon di divinità (quelle delle Logge Bianca e Nera per intenderci) e in cui i personaggi incarnano precisi valori umani universali. L’estate è una stagione ideale per riscoprirla (o scoprirla in caso abbiate la fortuna di vederla per la prima volta), ma vogliamo andare un pochino controcorrente e rivalutare alcune “colpe” della seconda stagione (ptt. da 13 a 22 in particolare) non condonate né dal film del 1992 né dall’ultima stagione del 2017: la sottotrama della fuga di James Hurley, l’arrivo in città di Thomas Eckhardt e Andrew Packard, le trame folli di Catherine Martell, i segreti di Josie Packard, la bisca al One Eyed Jack’s, ma soprattutto la comparsa di uno dei personaggi chiave del cammino di Cooper verso la Loggia, Windom Earle, colui che lo condurrà al cospetto di BOB in un inseguimento culminante nel celeberrimo finale del “Come sta Annie?”. Ecco, già solo per questo il personaggio interpretato dal disturbante Kenneth Welsh meriterebbe di tornare sui nostri schermi. Riguardiamo Twin Peaks anche per questo, in modo da apprezzare la fisionomia complessiva di un progetto che al suo apparire sembrava poter essere infinito e diventare davvero quella che i suoi autori provocatoriamente definirono «soap opera postmoderna».

THE YOUNG POPE di Paolo Sorrentino, ITA/FRA/SPA 2016

Prima della pandemia, in un’epoca che sembra ormai remota (meno di dieci anni fa) andavano ancora di moda le rottamazioni. Eravamo appena usciti dalla crisi di Ratzinger che rispecchiava integralmente quella delle Chiesa tutta e la ventata di rinnovamento di Bergoglio era ormai atto pratico di un istituto universale in cerca di salvezza. In qualche modo Sorrentino (e i suoi sodali) assumono questo nodo a seme di una pachidermica produzione – la prima italiana a finire agli Emmy – che si esprime con i toni de La Grande Bellezza (2013), ne riassume i ritmi e si magnifica di un umorismo simile ma più lapalissiano. È la storia di un giovanissimo Papa (Pio XIII/Jude Law) che, eletto inaspettatamente al soglio, decide di negarsi alla vista del pubblico perché convinto che come Mina, Salinger e i Daft Punk il massimo della visibilità sia dato dall’invisibilità (parole sue parafrasate). Procrastina così la propria proclamazione ufficiale tirando per le lunghe in uno stress meccanico da sforzo le alte eminenze pontificie le quali, nell’attesa, si ritroveranno a conversare di politica, filosofia, arte, contemporaneità e calcio, forse scoprendo un po’ la natura stessa del proprio ufficio, forse ripiombando nell’atavico terrore della perdita di potere, forse svelandosi benefattori o lussuriosi missionari. La serie è di gran successo e gode dell’onda lunga del fenomeno Sorrentino, culminata con Parthenope. Questo rende possibile una fruizione trasversale di un’opera priva di trama precisa ma ricca di momenti, di sguardi, di inquadrature, insomma di puro cinema che non lesina nessuno spazio, neanche quello dei titoli di testa. Da riscoprire in coppia con il meno incisivo ma elegantissimo seguito, The New Pope (2020).

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