13 settembre 2025

Musica e intelligenza artificiale: la “fabbrica invisibile” e le sue conseguenze

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Il 18 % della musica caricata ogni giorno online è creata interamente da un algoritmo: l’AI inonda le piattaforme di streaming trasformando l’arte in catena di montaggio sonora. Ma dove finisce la creatività e dove inizia la sola produzione?

musica AI

La piattaforma Deezer riporta numeri che tintinnano come vetri rotti: ventimila brani al giorno, quasi uno su cinque, è generato da algoritmi, settanta per cento di streaming dopato da bot. Un fiume in piena, turbolento, che riflette l’era moderna: non domandarti più se la musica sia «vera» o «falsa» – domandati chi compie il gesto che la fa esistere.

Le ragioni di questa produzione abnorme? Semplice. Andare ad erodere e accumulare quelle poche frazioni di centesimo pagate dalle piattaforme ad ogni streaming. Spotify, per esempio, paga mediamente tra 0,003 e 0,005 dollari a stream. Bastano migliaia di ascolti automatizzati per iniziare a generare guadagni reali. Questo significa, però, che per ogni 1000 ascolti si guadagnano dai 3 ai 5 dollari. Pochissimo? Certo. Ma se a caricare i brani è una macchina che può produrne migliaia al giorno, e se questi finiscono in playlist piene di ascolti automatizzati o passivi… il sistema inizia a generare introiti. Il risultato? Una catena di montaggio sonora che punta alla quantità, inquinando l’ecosistema dell’ascolto e sottraendo visibilità e introiti a chi la musica la scrive davvero, nota per nota, parola per parola.

musica AI

Circa un anno fa partivano le prime cause contro le principali piattaforme che permettono la generazione di musica AI come Suno e Udio da parte della Riaa (Recording Industry Association of America), che rappresenta la quasi totalità dell’industria musicale, tra cui Sony Music Entertainment, UMG Recordings e Warner Records. L’accusa? Aver fatto man bassa di tutto il patrimonio musicale mondiale protetto da copyright al fine di addestrare i propri algoritmi. Il fatto è per altro che in alcuni casi sembrerebbe che i risultati ottenuti dalla generazione musicale possano portare alla violazione di alcuni copyright con melodie simili alle stesse usate per l’addestramento, ottenendo una specie di chimera. Un po’ come L.H.O.O.Q. di Duchamp, la celebre opera basata sulla Gioconda a cui l’artista disegnò baffi e pizzetto.

Non rifacimento, bensì manipolazione per criticarne il culto. Così, i brani AI rimescolano melodie già esistenti, generando nuove forme che però – come i baffi sulla Gioconda – non possono ignorare la provenienza del volto su cui poggiano. Ma anche questa non è forse arte, in quanto espressione della nostra epoca? Un secolo fa Marcel Duchamp firmava un orinatoio con l’alias «R. Mutt» e lo trasformava in fontana di domande. Oggi bastano quattro parole digitate in un prompt che attraversa la maglia algoritmica e restituisce un file .wav pronto da firmare. L’intuizione è la scintilla; la resa è routine meccanica. Ma è vero?

Ready-made, sì. Qualcuno obietterà. Ma sono figli di una scelta: tra milioni di parole, tra infinite generazioni possibili. Quello che manca, per definirli davvero dei ready-made, è la decontestualizzazione. I brani nati dall’AI, nella maggior parte dei casi, non vengono sottratti a un contesto originario: nascono già con un fine economico, e basta. Nel complesso queste dinamiche volgono a un puro fine economico, basato sulla quantità opulenta e nella generale incapacità artistica. Viene spontaneo pensare che democratizzare l’arte è interessante: in fondo usare certe piattaforme AI è come impugnare un pennello o una spatola, uno strumento – o meglio, un collaboratore – per creare. La vera domanda è sul valore intrinseco di ogni brano caricato.

Quindi questa è una forma artistica? Forse sì. Ma il messaggio che porta – tra automatismi, accumulo e assenza di visione – non è dei più ottimisti. L’intelligenza artificiale può essere uno strumento straordinario. Ma finché il gesto creativo non cerca un’urgenza espressiva e si limita a rincorrere click e playlist, non parleremo d’arte nel caso singolo: parleremo di produzione! Se l’insieme del fenomeno, osservato dall’esterno, può dare segni di dinamica creativa, la sua eccessiva diluizione fa sì che i singoli elementi, presi isolatamente, non abbiano in sé alcun reale valore artistico.

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