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Come hai scoperto la tua passione per l’arte? Ci sono stati momenti o persone particolari che hanno influenzato il tuo percorso?
Non vengo da una famiglia di artisti: madre insegnante e padre imprenditore. Era un mondo ordinato di parole e scrivanie. Però da bambino mi affascinava chi usava le mani: ho vissuto sei mesi col nonno capo cantoniere nelle Marche e passavo le estati a guardare i cantieri edili al lago d’Orta… Non avevo nemmeno 4 anni.
La prima contaminazione artistica è arrivata alle scuole medie sperimentali nei laboratori di educazione tecnica e educazione artistica che adoravo. E poi frequentavo un compagno di classe il cui padre era un designer, grafico e artista poliedrico, Alfredo Pizzo Greco con la sua compagna l’Architetto Rosmary Pirotta. Li andavo a trovare in una cascina nel bergamasco che costituiva abitazione e laboratorio. Un posto incredibile: installazioni in ogni angolo, pezzi di design, opere in lavorazione. La stessa casa era “in fieri”, in costruzione perenne. L’opposto rispetto al mondo “statico” e “ordinato” da cui provenivo. Quando visitavo quella casa percepivo la libertà di pensiero e d’azione. E infatti ci divertivamo da matti.
Poi la vita mi ha portato lontano: oltre 25 anni in multinazionali come project manager e formatore comportamentale. Mi sono riavvicinato all’arte nel 2000 e nel 2018 è finalmente diventata la mia attività principale.
Quando nell’età adulta ho cominciato a cercare la mia strada artistica ho ritrovato dentro gli esempi che mi avevano guidato: lo spazio libero, il consenso al caos, l’anarchia creativa provengono da quei primi 10-12 anni.
Ci sono temi o concetti ricorrenti che esplori attraverso la tua arte? Cosa ti ispira maggiormente?
I temi psicosociali sono il mio centro di attenzione: le relazioni, i bisogni, il “momento decisionale” sono elementi ricorrenti. Sono gli stessi argomenti che hanno caratterizzato la mia vita aziendale e credo siano temi terribilmente contemporanei. È un’epoca dominata dalla nevrosi della felicità: le persone “dichiarano” pubblicamente soddisfazione, indipendenza, realizzazione. Tuttavia nell’intimo molti si percepiscono stanchi, intrappolati, privi di alternative valide e di prospettive.
Può sembrare folle ma Il semaforo, quell’oggetto che incontriamo per strada tutti i giorni, secondo me rappresenta tutte queste situazioni. È dinamico, è relazionale, è autonomo, come le persone. Per questo il semaforo è diventato il mio oggetto di transfert cioè l’elemento che indago per entrare in contatto con me stesso e in cui ritrovo i miei significati. Nelle luci, nei colori, nei ritmi io vedo dei delle correlazioni con la vita delle persone e con le nostre emozioni. Non è casuale il significato che, nei miei lavori, associo ai diversi colori e alle forme.
Come pensi che il contesto culturale e sociale in cui vivi influenzi il tuo lavoro artistico?
Lavorativamente sono cresciuto nella “Milano da bere” degli anni ‘80 e ’90. Il contesto culturale ci permea e ci contamina. Come persona vivo il momento storico, politico e di costume. È proprio in riferimento al mondo di oggi che il contenuto artistico assume rilevanza. Il semaforo è uno strumento contemporaneo, non esisteva 100 anni fa e si è evoluto con l’evoluzione della società. È presente nelle più grandi città dei cinque continenti, dove maggiore è la densità di popolazione e più complesse sono le relazioni. Dappertutto rappresenta uno strumento di contratto sociale: definisce per tutti un momento per attendere ma anche la garanzia che verrà il momento per andare nella direzione che vogliamo.
Iconicamente infine rappresenta anche l’individuo e le sue emozioni. Ci sono dei tempi destinati all’azione e alla riflessione e uno spazio destinato alla scelta, ma solo per un limitato tratto di tempo (il giallo)
Puoi raccontarci di un progetto o di un’opera a cui tieni particolarmente e spiegarci il motivo?
Oltre la fotografia nelle esposizioni spesso propongo installazioni, ready made, lanterne riassemblate o postazioni interattive. L’ultima installazione l’ho presentata nell’esposizione per i 100 anni del primo semaforo italiano. (Semafori. Linguaggio Universale – Maggio 2025 – Ex Fornace Milano – con il patrocinio del Comune di Milano). Un set fotografico con un semaforo gigante e una lente di due metri di diametro. Le persone potevano entrare sul set e interpretare l’”omino del semaforo”, diventando per un momento l’icona che ci ferma o ci dà il via libera. E in quel momento io scattavo una fotografia della silhouette.
Dopo una prima resistenza tutti volevano partecipare e molti hanno interpretato l’omino e lo stato d’animo associato al colore del semaforo. Ne sono uscite oltre 1200 immagini: uno spaccato di ciò che siamo oggi e di ciò che vogliamo comunicare. Non è stato solo divertente è stato un bellissimo momento di condivisione.
Da questo “esperimento sociale” ho tratto 36 immagini che compongono il prossimo progetto “We are icons” che sarà presente a novembre a The Others Art Fair per l’art week torinese in collaborazione con la Galleria RoccaVintage
In che modo l’interazione con il pubblico influisce sulla tua pratica artistica? Ti capita di modificare il tuo lavoro in risposta ai feedback che ricevi?
L’interazione con il pubblico è importante perché agisce come un rinforzo. Nelle immagini io metto il mio mondo e il mondo del soggetto fotografato. È l’osservatore che, con la sua interpretazione, conferma e completa il messaggio. In altre parole l’arte visiva è una forma di comunicazione ad una via. I momenti di interazione con il pubblico consentono di raggiungere la comunicazione a due vie e quindi ricevere il feedback. Posso comprendere quanto del mio messaggio sia arrivato, ed anche quali altri contenuti gli osservatori abbiano estratto dal mio lavoro.
Per questo durante le esposizioni mi metto in un angolo per osservare le reazioni dei visitatori. Quando qualcuno entra in sintonia con il mio lavoro, me ne accorgo. Con alcuni capita che ci facciamo una bella chiacchierata sulla vita e sul mondo. C’è chi mi parla di letteratura, chi di filosofia, chi di psicologia o sociologia e, ovviamente, di arte.
Non ho mai modificato i miei lavori a seguito del confronto con il pubblico. Ciò che ho realizzato ha avuto il suo senso il quel momento espressivo, e per questo continuerà a rappresentare un passo nel percorso che per me è significativo. Sicuramente però la mia ricerca si arricchisce grazie al dialogo con chi condivide il suo pensiero e le sue sensazioni con me.
Cosa pensi della commercializzazione dell’arte contemporanea? Pensi che possa compromettere l’integrità dell’opera o la sua funzione critica?
L’influenza esterna del “mercato” sul perimetro espressivo dell’artista esiste da quando esiste l’arte. Leonardo da Vinci o Michelangelo Buonarroti dipendevano dai loro committenti. Quando non ne avevano, li cercavano. Quando li trovavano, concordavano i progetti. Nel 1800 poi si è diffusa la convinzione che l’artista doveva creare libero da vincoli al modico costo di vivere nell’indigenza e morire indebitato. Io, nel mio piccolo, ho cercato una terza via.
Oggettivamente l’attività artistica è molto costosa. C’è un costo passivo costituito dal tempo che viene sottratto alla produzione di redditi “sicuri”. Ci sono i costi vivi, cioè i beni e servizi che l’artista deve comprare dal mercato: attrezzature, materiali, spazi espositivi.
La terza via, la mia fortuna, è che il mio percorso è cominciato tardi nella vita, dopo aver raggiunto altri traguardi che mi consentono una certa autonomia. Naturalmente devo stare attento alle spese, non posso permettermi tutto quello che vorrei, però riesco a finanziarmi. Perciò non ho bisogno di “staccare scontrini” e posso esprimermi nella direzione che ritengo congrua senza scendere a “compromessi di mercato”.
Quello che faccio è ricerca viva che serve innanzitutto a me, nel momento in cui realizzo i miei pezzi, e che poi mi nutre nuovamente nel momento in cui espongo. Per me fare arte è questo: metterci del mio e metterlo a disposizione. Il resto dipende dal pubblico, dall’osservatore e dalla sua interpretazione del mio lavoro.
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