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Una battaglia dopo l’altra, il nuovo film di Paul Thomas Anderson
Cinema
Era il 2014 quando un disilluso Paul Thomas Anderson si sbarazzava definitivamente di ogni tentativo di essere premiato agli Oscar e inaugurava una flessione radicale scegliendo uno degli autori più irrappresentabili della letteratura: quel Thomas Pynchon – tra i più gloriosi alfieri del postmoderno – che è anche un campione indiscusso di invisibilità e intraducibilità. Il riferimento stavolta è Vineland (1990), ma del romanzo originario, nel film Una battaglia dopo l’altra, non restano che poche tracce. Piuttosto, una diffusa suggestione.
La trama, in breve: in degli ipotetici USA di fine anni ’90, un nucleo terroristico semina il disordine tramite attentati e rapine. La banda è composta da idealisti dai nickname bizzarri sulle cui tracce si fionda anche uno strambo militare (Sean Penn) attratto sessualmente da “Perfidia Beverly Hills” (Teyana Taylor), militante e amante di “Rocketman” (Leonardo Di Caprio), altro attivista di spicco del gruppo armato. Dopo la neutralizzazione del nucleo, i superstiti saranno costretti a una clandestinità che terminerà anni dopo, mentre la figlia di Perfidia (Chase Infiniti) si ritroverà tra i fuochi di una caccia mai conclusa.
Tralasciando il testo in senso stretto, questa volta Anderson manterrà i gusti della metafora e dell’accumulo pynchoniani riescogitandoli in immagini ottenute con strumenti, linguaggi e qualità del cinema colossale americano, ma anche sovvertendone i parametri e ricollocando le dissolvenze in punti dove nessuno si aspetterebbe, sancendo frame perfetti a uso iconico, piazzando gli attacchi musicali dove gli pare. Seguendo, insomma, il mandato che il regista si è ormai posto, quello di creare delle atmosfere autosufficienti.
In questa resa al cinema elementare, Anderson si imbatte nel lessico dell’action, capace di catturare molti più spettatori di bocca buona con i suoi broom broom ad alti ottani e finendo per regalarci, prima di tutto, un avvincente road-movie d’inseguimento; e lascia qualcosa di interdetto alla fine, costringendo lo spettatore a visioni ulteriori che beneficeranno di un cinema puro, fatto semplicemente di volti, inquadrature, fotografia, corpi e sequenze dilatate. Così la perfezione del momentum sarà compiuta: in silhouettes di skaters/wild boys che sfrecciano sul bagliore del ferro e fuoco dei nuovi moti rivoluzionari, nella faccia ticcosa o smostrata di un monumentale Sean Penn, nel ventre di una guerrigliera incinta che spara per sempre con un fucile mitragliatore, nella di lei figlia che reca su di sé il sembiante della vera America: meticcia, fragile e terribilmente arrabbiata.
Leonardo Di Caprio, intanto, prosegue la sua evoluzione premiante (iniziata con Tarantino) nei meandri dell’antieroismo buffo: è trascinato in una rivoluzione di cui ha dimenticato le regole e che si è trasformata in una specie di apparato burocratico scemo in cui lui non è che un Grande Lebowski sottoposto alle 12 Fatiche di Asterix o di Fantozzi. Vi si aggira in vestaglia e occhialoni facendo cose da picaro, calato nella descrizione ciabattante di una rivoluzione raffreddata ma mai sopita, pronta a rinascere nelle nuove generazioni che – fresche, vitali e snellissime – tornano in strada a difendersi dalla cancrena suprematista mentre i genitori buoni invecchiano sul divano tentando di decifrare il funzionamento della fotocamera del telefono.
Dunque un film fatto di presenti assoluti da cui lasciarsi travolgere, che hanno la pretesa, anch’essa assoluta (e riuscita), non tanto di raccontare quanto di evocare una condizione o un tempo ipotetico. Questa è la grande sfida dei grandi registi, questa è la sfida di Paul Thomas Anderson. Passa attraverso la letteratura postmoderna e il suo corrispettivo per immagini – il cinema, appunto – che è già di per sé postmoderno nel midollo e che, ritrovando così la sua natura, ritorna a essere puro ed evocativo.
Forse stavolta l’ex enfant prodige (qui con vena aggiornata e anti-trumpiana) potrebbe anche riuscire a conquistare i membri meno svegli dell’Academy. In caso contrario continuerà a farsene una ragione accontentadosi di essere solo uno dei più grandi registi americani viventi. Noi intanto seguiteremo a fantasticare su una sua miniserie tratta da Infinite Jest di David Foster Wallace. Lui potrebbe farla. Lui può fare tutto. Una battaglia dopo l’altra.














