15 ottobre 2025

Dancing Days, la danza è il linguaggio della complessità: intervista a Francesca Manica

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Al Mattatoio di Roma, al via Dancing Days, rassegna del Romaeuropa Festival dedicata ai linguaggi coreografici della contemporaneità, con uno sguardo ai futuri possibili: ne parliamo con la curatrice, Francesca Manica

Dancing Days, Armin Hokmin, Shiraz, Credit Nadja Krugerd

Al Romaeuropa Festival, prende il via, dal 15 al 19 ottobre, negli spazi del Mattatoio, Dancing Days la rassegna dedicata ai nuovi linguaggi coreografici italiani ed europei che seleziona ogni anno alcune delle più interessanti proposte della scena contemporanea, molte delle quali presentate per la prima volta. Un programma dedicato alle identità di una nuova generazione di coreografi e danzatori, costruito in network grazie alla collaborazione con la rete europea Aerowaves e con DNAppunti Coreografici, il progetto a sostegno delle coreografe e dei coreografi under35, giunto all’undicesima edizione, promosso e supportato dall’omonima rete, di cui Romaeuropa presenta i lavori finalisti. Ne parliamo con la curatrice, Francesca Manica.

Francesca Manica

Dancing Days: nel programma di quest’anno cosa vedrà lo spettatore? Quale danza si prospetta nel domani?

«Una danza che tiene insieme due forze complementari: da una parte il ritorno alla memoria e alla tradizione, dall’altra lo sguardo urgente sul presente e sulle sue contraddizioni. È proprio in questo dialogo che si colloca il cuore di Dancing Days: un luogo dove la giovane coreografia trova spazio per interrogare, trasformare, reinventare.

Lavori come Shiraz di Armin Hokmi, Mercedes máis eu di Janet Novás e Sirens di Ermira Goro attingono alle radici – storiche, rituali, mitiche – per rigenerarle in linguaggi di oggi. Nei loro gesti si percepisce il desiderio di rendere vivo ciò che è stato: la memoria diventa corpo, il gesto diventa riflessione. In queste creazioni il passato non è mai nostalgia, ma una materia pulsante che si reinventa nella contemporaneità. È una danza che costruisce senso nella precisione del dettaglio, nella forza silenziosa del gesto minimo, nell’intimità condivisa dello sguardo.

Una seconda linea guarda invece al presente più prossimo, ai suoi paradossi, alle sue ferite e ai suoi desideri. In Good vibes only di Francesca Santamaria e Superstella di Vittorio Pagani emerge la consapevolezza di una società ossessionata dall’immagine, dalla performatività e dal consumo. Questi lavori smascherano il fascino del superficiale, restituendo al corpo la sua vulnerabilità. In Lampyris Noctiluca di Aristide Rontini e Fuck me Blind di Matteo Sedda, invece, il movimento diventa ricerca di intimità, un atto di resistenza alla distrazione del mondo, un tentativo di accendere piccole luci nel buio del nostro tempo».

Aristide Rontini, Lampyris Noctiluca, © Margherita Caprilli

Cosa accomuna queste creazioni?

«È la capacità di farci sentire la danza come linguaggio della complessità, mai chiuso in se stesso ma sempre in ascolto del reale. Sono lavori che chiedono attenzione, disponibilità, sensibilità. La danza di domani che si prospetta è dunque una danza che attraversa la storia per parlare dell’oggi, che fonde ritualità e contemporaneità, corpo e tecnologia, fragilità e politica. È una danza che non teme di essere poetica e insieme lucida, che cerca verità nei dettagli, nelle pause, nelle tensioni.

È da qui, dal coraggio e dalla visione di questi giovani artisti, che si intravede il futuro: una danza capace di incarnare la memoria e di restituirla al presente come promessa di trasformazione».

Quale criterio hai seguito in questi anni nella scelta e selezione degli artisti? Cosa ti ha mosso al di là della personale sensibilità, gusto, conoscenze, ecc? Cosa hai cercato di proporre al pubblico?

«Negli anni il criterio che ha guidato la selezione degli artisti è stato quello di riconoscere nella giovane creazione non soltanto una promessa, ma una visione. Ho cercato di individuare coreografi capaci di usare la danza come linguaggio per leggere il presente, più che come semplice strumento di espressione personale. Ciò che mi ha sempre mosso, al di là del gusto o della sensibilità individuale, è stata la ricerca di una necessità autentica nel gesto, quella forza che spinge un artista a creare perché non può farne a meno».

Francesca Santamaria, GOODVIBESONLY, ph Michela Grandolfo

Nella selezione hai seguito delle linee costanti?

«Da un lato sostenere la pluralità dei linguaggi, accogliendo poetiche molto diverse tra loro; dall’altro favorire una consapevolezza del corpo come luogo politico, poetico e sociale. Ho sempre cercato di privilegiare lavori che non si limitassero a “rappresentare”, ma che interrogassero, che aprissero domande più che fornire risposte. Al pubblico ho voluto proporre un panorama mobile, fatto di visioni anche contrastanti, perché credo che la forza di una rassegna come Dancing Days stia proprio nella sua capacità di mostrare il processo, il rischio, l’urgenza.

L’obiettivo non è offrire un’estetica unica, ma accompagnare lo spettatore in un viaggio tra fragilità e ricerca, tra tradizione e sperimentazione, tra ciò che la danza è e ciò che può ancora diventare. In fondo, la direzione è sempre stata quella di dare spazio all’inquietudine creativa, a quella tensione che rende la danza un atto vivo».

Janet Novas, Mercedes Peon © Tristan Perez Martin

Dal tuo osservatorio e dalla tua esperienza cosa è cambiato negli anni nel panorama della danza europea? e in quella italiana? Quali le tendenze più significative in questi anni? E oggi?

«Dal mio punto di vista, negli ultimi anni il panorama della danza europea è cambiato radicalmente. Si è passati da modelli più strutturati e formali a una dimensione molto più aperta, fluida, dove la ricerca si muove liberamente tra linguaggi, discipline e approcci diversi. Oggi la danza dialoga con le arti visive, la musica elettronica, il cinema, ma anche con il pensiero filosofico e politico, mettendo al centro il corpo come luogo di identità e di relazione».

Un ruolo fondamentale in questo processo lo ha avuto senza dubbio la rete Aerowaves.

«Sicuramente. Negli anni ha saputo intercettare e promuovere nuove voci e nuovi linguaggi coreografici, favorendo la circolazione delle idee e la visibilità di artisti emergenti provenienti da tutta Europa. Credo che Aerowaves abbia contribuito in modo decisivo a creare un senso di comunità transnazionale nella danza contemporanea, offrendo a molti coreografi la possibilità di uscire dai propri confini geografici e culturali».

In Italia questo cambiamento come si è percepito?

«Direi in modo più graduale, ma ha avuto un impatto profondo anche qui: molti artisti e operatori si sono ispirati a quella stessa apertura e curiosità verso l’estero, alimentando una rete di scambi e collaborazioni che oggi è parte integrante del nostro panorama. Le tendenze più forti, a mio avviso, riguardano la ricerca sul corpo reale e vulnerabile, la dimensione partecipativa e collettiva del movimento, e il dialogo con le tecnologie digitali.

Dopo gli anni della pandemia, si è aggiunto anche un forte bisogno di ritorno alla presenza, alla fisicità e all’esperienza condivisa del gesto. Oggi la danza europea vive una stagione di grande vitalità e consapevolezza: meno legata alle forme, più attenta ai processi, ai temi sociali e all’ascolto. È un panorama in continuo mutamento, dove la sfida è restare aperti, curiosi e connessi, senza perdere la forza poetica del corpo».

Matteo Sedda, Fuck me blind

Come si svolge il dialogo e la collaborazione con i partner europei e internazionali di Aereowaves?

«Il dialogo è costante e profondamente collaborativo. La rete non è solo una piattaforma di promozione, ma una vera e propria comunità di pensiero e di pratiche, dove si condividono visioni, esperienze e prospettive sul futuro della danza contemporanea. Ogni partner porta il proprio sguardo, legato al contesto culturale e politico del Paese di provenienza, e questo confronto continuo è estremamente stimolante. Ciò che trovo più prezioso è la possibilità di seguire gli artisti nel tempo, di vederli maturare, confrontarsi con pubblici diversi. Aerowaves, in questo senso, non si limita a presentare lavori, ma costruisce una rete viva di relazioni che sostiene la danza contemporanea europea nella sua dimensione più autentica e dinamica».

DNAppunti Coreografici conclude la programmazione dei Dancing Days, ma ne costituisce anche il centro essendo il sostegno alla coreografia under 35 un aspetto fondamentale per lo sviluppo dei nuovi artisti. Quali sono le caratteristiche del progetto?

«DNAppunti coreografici è, a mio avviso, uno dei progetti più rilevanti oggi in Italia per comprendere dove si muove la giovane danza contemporanea. È un osservatorio privilegiato, ma anche un laboratorio di possibilità: uno spazio di accompagnamento, di cura e di ascolto, dove la ricerca coreografica può nascere, sbagliare, trasformarsi. Quello che trovo prezioso in DNAppunti è la capacità di accogliere le fragilità e le urgenze della nuova generazione di artisti, sostenendo non solo l’opera finita ma il processo, la domanda, il pensiero in costruzione.

Non a caso, guardando i progetti vincitori nel corso degli anni, emerge un filo rosso molto chiaro: il corpo come luogo di memoria, di identità, di assenza e di resistenza. Ogni edizione racconta una tappa diversa di questa ricerca».

SIRENS, ERMIRA GORO

Puoi farci degli esempi di artisti delle edizioni cui accenni?

«Nel 2018, KEO di Elena Sgarbossa esplorava con rigore e poesia un assunto scientifico, trasformandolo in un corpo sospeso tra fragilità e astrazione. L’anno successivo, il collettivo M_I_N_E con Esercizi per un manifesto poetico ha messo al centro la dimensione collettiva, il rischio del gruppo, la volontà di scrivere insieme un linguaggio condiviso.

Nel 2021, Pas de deux del collettivo Giulio e Jari ha riletto con libertà il linguaggio accademico del passo a due, restituendogli una dimensione di intimità e di dialogo tra corpi contemporanei. Nel 2022 con Irene di Alessandro Marzotto Levy, la memoria e la perdita diventano paesaggio, mentre nel 2023 Giorgia Lolli, con Eat Me, ha affrontato con forza critica la rappresentazione del femminile e il consumo dello sguardo».

E nell’ultima edizione 2024?

«Con Fuck Me Blind di Matteo Sedda, ha spinto ancora più in là questo orizzonte, affrontando temi come l’invisibilità, la malattia e la memoria del corpo, in una forma immersiva e quasi ipnotica. In tutti questi lavori, ciò che colpisce è l’urgenza di trovare una voce propria, un linguaggio che non si limita a rielaborare codici ma li reinventa, a partire da esperienze intime e collettive. Il gesto, in DNAppunti, è sempre gesto pensante: non pura estetica, ma un modo di abitare il mondo.

Credo che il valore più grande del progetto stia proprio in questa alleanza tra generazioni e tra sguardi. I partner – dai centri di produzione ai festival – lavorano insieme per accompagnare gli artisti nel tempo, offrendo non solo residenze e risorse, ma soprattutto contesto, confronto e fiducia. In un sistema culturale che spesso chiede risultati immediati, DNAppunti continua a ricordarci che la danza nasce da un processo, da un’attenzione, da un corpo che cerca».

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