29 ottobre 2025

In Nuestra Tierra, Lucrecia Martel racconta le radici ferite dell’America Latina

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Il cinema come atto di restituzione, la voce di ciò che non si è estinto: intervista alla regista Lucrecia Martel, a margine della presentazione del suo documentario alla Viennale

Lucrecia Martel, Nuestra Tierra, still

Nuestra Tierra, il primo documentario di Lucrecia Martel, segue lo svolgersi di un processo che, dopo anni di proteste, ha finalmente avuto inizio nel 2018. L’indagine riguarda le circostanze dell’omicidio di Javier Chocobar, portavoce della comunità indigena di Chuschagasta, avvenuto nel 2009 nel contesto di una disputa sui diritti fondiari. A partire da questo caso, Martel costruisce una profonda riflessione sull’eredità coloniale in Argentina e sulle condizioni di vita attuali dei popoli originari. Le strategie di sterminio impiegate dai conquistatori vengono costantemente messe in contrasto con fotografie familiari dei nativi, che assumono un valore storico e testimoniale come prova di esistenza e di resistenza. Abbiamo raggiunto la regista alla Viennale, per parlare della sua idea di cinema.

Lucrecia Martel, fotografia Luis Casanova

Intervista a Lucrecia Martel: Nuestra Tierra

Buongiorno, Lucrecia. Una delle prime cose che mi ha colpito, ascoltandoti, è stata la questione del mondo indigeno. 

«Sì. Io vengo da una madre indigena, ma ho sempre vissuto un conflitto: a mia madre era proibito parlarmi in náhuatl, quindi non l’ho mai imparato».

Un conflitto che attraversa anche il tuo film: dove sono gli indigeni? Sono arrivati o scomparsi? E tu, con la macchina da presa, vai a cercare i loro volti  e lì sono, presenti. Com’è stato per te l’incontro con loro, o il “reincontro”?

«Io li incontro da sempre, da quando sono nata, nel nord dell’Argentina. Sono i miei vicini, sono ovunque. Non è che vivano solo nelle comunità, come accade anche in Messico: se ti chiedono “dove sono gli indigeni?”, la risposta è ovunque, come dire “dove sono gli europei?”  sono tra i loro discendenti, sparsi dappertutto.

Quando la storia fa uno sforzo così grande per dimenticare o negare l’esistenza di qualcosa di così evidente, è perché si ha bisogno che quella cosa “non esista”. E l’unica ragione per cui è necessario che non esista è per impedire che reclami la terra, o che proponga un sistema di valori diverso da quello che l’Occidente considera valido. Le ragioni della negazione sono quindi materiali, economiche, ma anche radicate nella paura: la paura che un altro sistema di valori possa mettere in discussione l’Occidente stesso.

Credo che, poiché l’Occidente si è spinto fino all’orlo dell’abisso, sia urgente tornare a guardare all’America e chiederci quale altra conoscenza, quale altro pensiero circolava qui, e se da lì possiamo trarre le soluzioni per andare avanti.

C’è poi un’altra questione. Non posso parlare per tutti i paesi latinoamericani, ma credo che la situazione sia simile: l’America Latina non può continuare a costruire tutta la propria storia attorno a una deuda, a un debito. Sempre un debito economico con qualcuno. Per uscire da quel circolo vizioso e avere una vera economia, una vera storia, dobbiamo rompere il legame coloniale. E l’unico modo per farlo è capire chi siamo davvero: chi compone la nostra popolazione, da chi sono fatte le nostre nazioni. Continuare a negarlo significa offendere moltissime persone, e anche degradarci, negarci come popoli.

E oltre all’offesa, c’è anche una grande perdita: quali concetti, quali idee c’erano nelle lingue che abbiamo dimenticato, il náhuatl, l’aymara, il quechua, il tupi-guaraní, che forse ci avrebbero potuto indicare strade più interessanti per le nostre nazioni? Invece di comprendere che la diversità era una straordinaria opportunità per inventare un mondo nuovo, abbiamo scelto di copiare male l’Europa e gli Stati Uniti.

Ti parlo sinceramente: l’Argentina, che non sa più a chi chiedere denaro, non risolverà i propri problemi chiedendo altri prestiti. Dobbiamo risolverli chiedendoci chi siamo, per chi vogliamo lavorare, chi vogliamo includere e beneficiare nella nostra nazione. Se non affrontiamo queste domande, la nostra economia continuerà a riflettere il sintomo di una profonda crisi politica, filosofica e storica.

Un tempo pensavo che la cultura fosse solo la “sovrastruttura” del pensiero materialista. Ora, dopo tanti anni e tanti fallimenti vissuti in Argentina, credo che la nostra crisi economica sia il sintomo del disastro originario: del mito di fondazione della nostra nazione».

Il titolo Nuestra Tierra da dove nasce?

«All’inizio avevamo moltissimi titoli. Li discutevamo in gruppo, li votavamo, facevamo quasi delle feste per sceglierli. Tra i tanti, apparve Nuestra Tierra, che richiama anche un celebre manuale di storia argentina degli anni Cinquanta intitolato proprio così. Quel libro iniziava con una domanda: “¿De quién es la Tierra?”, “Di chi è la Terra?”. Un testo poetico, ma concettualmente sbagliato. Tuttavia, era affascinante.

Quella combinazione di parole Nuestra Tierra cominciò a circolare tra noi e, alla fine, ci sembrò la più giusta. Mi convinse definitivamente il fatto che in America Latina è molto difficile dire “noi”. Ogni volta che parliamo degli indigeni, diciamo “noi e gli indigeni”, come se non potessimo includerli in un unico noi. È come se non fossimo ancora capaci di un “noi” collettivo, se non forse nel calcio.

Pensa a quando l’Argentina ha vinto i Mondiali: cinque milioni di persone in piazza a festeggiare. In qualsiasi altra parte del mondo, con una folla simile ci sarebbero stati centinaia di morti, ma lì non è successo nulla. Perché? Perché come nazione siamo talmente feriti, reduci da tanti fallimenti, che avevamo bisogno di un momento di “noi”, di un sentimento comune, di appartenenza.

E non parlo in opposizione alle altre nazioni latinoamericane: credo che il più grande errore del continente sia stato dividerci in stati separati. Se fossimo una sola nazione, tutti staremmo molto meglio».

È il tuo primo documentario? Vedi una differenza tra documentario e finzione?

«Non una grande differenza. L’ho detto spesso: la differenza è che, nei film di finzione, gli attori muoiono e poi si alzano per andare al catering; nei documentari, invece, chi muore, muore davvero. Ed è una differenza terribile. Ma per il resto, nel modo di costruire la narrazione, nel modo di pensare la forma  è lo stesso lavoro».

Lucrecia Martel, Nuestra Tierra, still

Come avete costruito la sceneggiatura di Nuestra Tierra?

«Abbiamo attraversato moltissime fasi. All’inizio ho lavorato soprattutto con María Alché, la regista di Familia Sumergida, che è anche l’attrice de La niña santa. Siamo molto abituate a lavorare insieme, indagando e approfondendo i temi che ci interessano. La prima cosa che abbiamo fatto è stata leggere tutto il fascicolo giudiziario: migliaia e migliaia di pagine quasi incomprensibili. Cercavamo di capire, di orientarci, di raccogliere informazioni. Abbiamo cominciato a incontrare persone che avevano studiato il caso, poi una storica, poi altri storici. Conversando, cercando, accumulando dati, abbiamo iniziato a comprendere non solo cosa fosse accaduto quel giorno, ma cosa fosse successo nel nostro territorio, nel tempo».

E la tecnologia? Come viene utilizzata in Nuestra Tierra?

«Credo che dobbiamo appropriarci della tecnologia, perché è quasi sempre creata da grandi aziende o da stati con obiettivi di controllo o profitto, e non certo pensando al benessere umano. I droni, per esempio, sono stati inventati per la guerra o la sorveglianza, non per il cinema o per Nuestra Tierra. Ma il cinema ha imparato a riutilizzarli. Io penso che dovremmo riappropriarci della tecnologia con fini comunitari, perché raramente essa nasce da un bisogno collettivo: di solito è un prodotto del potere economico o militare. Quindi dobbiamo prenderla e usarla a nostro favore, per i nostri scopi».

Hai detto che l’acquisto del drone è stata una grande spesa all’inizio.

«Sì, nel 2018, durante il processo, la polizia fece una ricostruzione del crimine e utilizzò i droni. Da lì ci venne l’idea di inserirli anche nel film, ma con una funzione diversa: nella realtà servivano per stabilire la scena del crimine, nel film li abbiamo usati con uno scopo narrativo e storico, legato alla comunità».

Durò solo una settimana, giusto?

«Sì, perché un falco lo fece cadere! Non lo sapevamo. Dopo cercammo su internet e scoprimmo che era capitato a molti: gli uccelli attaccano i droni. È strano, ma in fondo è ovvio se perfino un aereo può essere colpito da un volatile, figuriamoci un drone».

Hai detto che hai pianto, ma non durante il processo…

«No, ho pianto quando abbiamo visto insieme il film per la prima volta. Era il risultato di un lavoro enorme, di tanti anni e di tanti sforzi, economici e fisici. Per molto tempo non ho fatto altro, anche se avevo ricevuto altre proposte. È stato un impegno totale».

Il suono è sempre molto importante nei tuoi film.

«Sì, per me la narrazione nasce dal suono. Fin dall’inizio penso alla voce, alle voci, alla qualità dei rumori, all’ambiente, agli uccelli. Persino se il drone dovesse o no conservare il rumore della macchina. Non è qualcosa che faccio solo per il cinema: è un modo di pensare il mondo. Molti pensano per immagini; io penso attraverso i suoni. Mi aiuta a comprendere, a costruire».

Le canzoni tradizionali del film: come le hai scelte?

«La canzone finale la canta Delfín Cata con suo figlio: mi sembrava bellissimo inserire quella scena. È un brano dei fratelli Matar, di Tucumán. Il nome non è molto felice, ma così si chiamano. All’inizio del film c’è invece una canzone resa celebre da Mercedes Sosa, anche lei di Tucumán. Era una donna di sinistra, del Partito Comunista, ma cantava anche brani religiosi: quella combinazione mi è sempre sembrata meravigliosa».

Fotografia Luis Casanova

Ieri hai detto che non sei d’accordo con Dio.

«Non è che non creda, ma penso che se si usa Dio per approfittarsi degli altri, allora non va bene. Credere in Dio per fare del bene è un conto; credere in Dio per togliere la terra a qualcuno o uccidere è un altro. Dipende tutto dall’uso che si fa di quella parola».

Hai vissuto un incidente da bambina, giusto?

«Sì. E molti anni dopo sono tornata nel luogo per guarire. Da piccola mi portarono i miei genitori: era una strada di montagna pericolosa, e credo che tornare lì sia stata una grande idea. Se non lo avessi fatto, forse sarei rimasta con la paura. Chi mi curò fu una donna indigena. Dopo l’incidente non dormivo, non mangiavo, mi stavo spegnendo. Lei fece un rituale, quello che in America Latina chiamano “curar el susto”, e da quel momento ripresi a dormire e a guarire. Poi i miei genitori mi riportarono sul luogo, e penso che tornare nei luoghi del dolore sia importante: ti libera dalla paura mitica che si crea attorno a essi».

Hai paura della morte?

«No. Ho perso completamente la paura della morte. Temo solo il dolore che può lasciare negli altri, la sofferenza di chi resta, ma non la mia morte».

Hai anche attraversato un cancro. Come hai vissuto quella fase?

«Come tutti: è un’esperienza durissima. Il trattamento, la stanchezza, e anche vedere le persone care soffrire per te. Ma non ho avuto paura. Forse il cinema mi ha aiutata: avevo già fatto i film che desideravo, mi sentivo soddisfatta. Non temevo di morire, temevo solo di far soffrire».

Nel film ci sono anche danze e processioni.

«Sì, si chiamano misachicos: sono pellegrinaggi molto comuni nel nord, dove si porta un santo o una vergine da un luogo all’altro. Sono rituali di festa, simili a quelli che si fanno anche in Messico, dove le celebrazioni sono straordinarie».

E la giustizia? Esiste?

«La giustizia è sempre esercitata dal potere. Un processo è un teatro del potere: è lì che il potere decide cosa è giusto e cosa no».

C’è una scena con molte fotografie, come un’installazione d’arte contemporanea.

«Sì, parlavo con lei di ogni fotografia: erano tantissime. Avevamo già studiato il fascicolo giudiziario, raccolto documenti storici. Il lavoro d’archivio è stato enorme. Credo che chi fa film su comunità debba sentirsi responsabile anche di lasciare un archivio ordinato, così che altri possano usarlo. Altrimenti ogni volta si ricomincia da zero».

Che consiglio daresti agli studenti di cinema?

«Dipende da cosa vogliono “raggiungere”. Se cercano solo il successo, non ho consigli. Ma se vogliono che il loro lavoro abbia senso, consiglio di guardarsi intorno: il mondo è pieno di storie interessanti. Il cinema non è solo cinema: è un modo di osservare la vita».

Hai fatto parte di giurie importanti, anche alla Biennale di Venezia.

«Sì, sono stata presidente e membro di vari giurie. Ma i festival sono un gioco, una parte del rito del cinema. I premi sono come una lotteria: a volte vinci un televisore, a volte no. Non bisogna né esaltarli né rammaricarsi».

Ricordi la prima volta che hai pensato di voler fare cinema?

«In realtà non mi è mai interessato “fare cinema” per il cinema. Mi interessa la gente che parla, che racconta. Mia nonna narrava storie. Quando da bambina vedevo un film, non volevo rifarlo, volevo giocare a quello che vedevo: ai cowboy, ai pirati. Non mi sento parte di un mondo chiuso come “il cinema”. Faccio film perché amo le persone e le loro storie».

E le influenze?

«Certo che ci sono, tutto ciò che vedo mi influenza, anche ciò che non mi piace. Ma non faccio film per appartenere a quel mondo: li faccio per conversare con la realtà».

Oggi molti giovani cineasti puntano sulle nuove tecnologie. Tu cosa ne pensi?

«Mi piace! Penso che dobbiamo appropriarci anche di quelle. Guardo spesso TikTok, prima guardavo YouTube. Non ho social perché non mi piace rispondere o commentare, ma adoro esplorare ciò che la tecnologia offre. Anche l’intelligenza artificiale sarà interessante: bisogna usarla, non farsi usare».

C’è una metafora visiva in Nuestra Tierra?

«Io non lavoro con le metafore. Una metafora oggi è una metafora, domani diventa un cliché. Le metafore invecchiano in fretta. Preferisco costruire immagini che restino vive, non simboli che si consumano».

E il folclore?

«Amo la musica, tutta. Non mi piace quando si parla di “musica autentica” o “essenziale”. Le cose essenziali non esistono. La gente ascolta di tutto, e va bene così. Nelle mie scelte musicali penso al film, non ai miei gusti personali. Non sono dogmatica».

Ultima domanda, molto personale: di che colore è la tua vita?

«Ah, questo non sarei mai poterlo dire ciò che so è che non è bianco o negro, grazie mille, grazie».

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