03 novembre 2025

Bugonia è il remake che salva Lanthimos da se stesso

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Parla di complottismo l'ultimo film del regista greco, ora al cinema. E conferma Emma Stone come straordinaria interprete (e musa terrena)

bugonia
Bugonia, Yorgos Lanthimos, 2025

Esistono due Yorgos Lanthimos: uno pre e l’altro post Emma Stone. Il pre era un regista indipendente e ispirato che lavorava sui temi dell’angoscia, epos tipico del primo decennio Duemila, comune a molto body horror dello stesso periodo e inalveolato nella sfera dello shock, strumento prediletto dal cineasta greco. Kynodontas (ispirato a un vecchio film messicano) e Alps sono riconducibili a questo primo periodo. Sempre alla stessa fase appartiene anche un’altra tendenza, quella del thriller allegorico infarcito di nomi notabili, operazione di marketing capace di trascinare in sala migliaia di spettatori attratti da Kidman, Farrell, Colman, eccetera, per poi ritrovarsi tra le mani oggetti filmici bizzarri (ed ecco ancora lo shock). Esemplare modello di questa categoria è The Lobster, film a cui il regista greco deve tutta la sua attuale credibilità internazionale e che – ahi noi – rappresenta la scaturigine di tutto il lanthimosismo successivo, cioè quel movimento pseudo-cinefilico che, accettando di buon grado l’idea dello shock travestito da sapiente originalità, mal interpreta cose tipo: la metafora maltrattata di The Lobster, i conigli ne La Favorita, i grandangoli in Poor Things, il piano sequenza finale nel Cervo Sacro, e così via. Cioè tutti quegli artifici catchy collocati a meringa di un cinema di genere travestito d’autorialità europeista ma che di fatto va solo a scapito di uno sviluppo drammaturgico coerente. In tal senso il lanthimosismo irrita perché chi ne è artefice è lo spettatore stesso, spesso ignaro del fatto che dietro quelle modulazioni originali in realtà si nasconde un semplice recupero di strumenti espressivi da lui ignorati, mentre da parte del regista queste proposte provocatorie si esauriscono nello stupore gratuito, glassato da codici simbolisti spesso vacui, dai caratteri tipografici alle scelte cromatiche.

Ed ecco allora che arriviamo alla seconda fase della carriera di Lanthimos – quella attuale – in cui il cineasta si affida a sceneggiatori abili come Tony McNamara, ma soprattutto alla sua attrice prediletta, Emma Stone. A partire dal succitato La Favorita, dramma da camera che strizza l’occhio a The Draughtman’s Contract (1983) e Barry Lyndon (1975), il greco ci instrada verso un profondo feticismo per la straordinaria attrice, un approccio tarantinesco che evolverà nelle successive prove filmiche, sempre più dedicate a mostrarne quanto più possibile pezzi di corpo scoperti, piedini compresi (è il trend voyeuristico del momento, dopotutto). E infatti in Bugonia le graziose estremità della Stone si cimenteranno in scene di lotta scalcianti e bondagismi un po’ perversi, finendo per diventare quasi delle co-protagoniste.

La trama in breve: i due redneck Teddy (Jesse Plemons) e Don (Aidan Delbis) vivono in un universo complottistico di estremo rigore. Tra apicoltura e lavoro usurante in magazzino (l’ammicco è ad Amazon?) ordiscono il sequestro di Michelle Fuller, presunta extraterrestre nonché dirigente della Auxolith, multinazionale farmaceutica responsabile dell’alterazione dell’ecosistema apìstico e dell’avvelenamento della madre di Teddy (sì, è Alicia Silverstone).

Senza farla troppo lunga il film è godibile, abbastanza affrancato dal virus del lanthimosismo, affidato alle straordinarie interpretazioni di Stone e Plemons e impreziosito da un apparato scenografico sovrabbondante che culmina in un finale che sarebbe originale se non fosse la strada che di fatto ci aspetteremmo da Lanthimos e soprattutto se non fosse un remake. Sì, perché Bugonia, è il rifacimento del coreano Jigureul jikyeora! (2003), progetto che da qualche anno è nei tascapane dei produttori che lo avrebbero proposto a vari registi (tra cui Ari Aster, abbiamo rischiato grosso) prima di approdare nelle capaci mani della comitiva lanthimosiana.

Rispetto all’originale mancano i nessi logici dell’ingaggio emotivo tra vittima e aguzzino, il gusto violento e grottesco tipicamente asiatico e lo sviluppo drammaturgico, quest’ultimo tralasciato in favore del solito costrutto atmosferico fatto di facce e assurdità. Ma c’era da aspettarselo. Però in generale il film prende respiro nel raccontare una storia, dunque ecco spiegato il perché della sua quasi completa godibilità: Lanthimos non ha dovuto in nessun modo sforzarsi di fingere di essere originale – anzi – al ridursi della quantità di Lanthimos, il film di Lanthimos migliora. Questo fenomeno è anche da sommare al ruolo salvifico, sensualissimo e feticistico della sua musa terrena che lentamente lo sta trascinando fuori da se stesso. Che sia amore?

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