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Nikolay Karabinovych – Sénsa rìve
“Sénsa rìve” è una mostra che esplora la vita nel mezzo della catastrofe e il paradossale tentativo di trovare un punto d’appoggio dove non può esistere. Attraverso video, sculture e metafore visive, l’artista mostra come i frammenti del mondo cerchino di restare a galla durante la costante deriva.
Comunicato stampa
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“Sénsa rìve” (dialetto veneziano, “senza rive”) nasce da una condizione di mancanza di appoggio e dal paradossale tentativo di trovarlo proprio là dove, apparentemente, non potrebbe esistere. Se le rive non ci sono, bisogna imparare a camminare sull’acqua, anche a costo di inventare un miracolo. Un miracolo, del resto, che era già stato compiuto dai Veneti in fuga che fondarono la città sénsa rìve: Venezia, situata tra le paludi e i canneti della laguna.
Questa esigenza rimane attuale anche oggi, di fronte alla catastrofe continua fatta di guerre, genocidi, migrazioni forzate e della paura dell’allagamento, della morte o dell’inverno nucleare. Ciò che un tempo veniva celebrato come la vittoria di un mondo aperto, in cui tutti sono in movimento, oggi rischia di diventare spostamento coatto, fuga, esilio, o un moto ossessivo e circolare, nato da una chiusura claustrofobica dentro la realtà presente. Il mondo dell’arte percepisce in modo particolarmente acuto questo mutamento disorientante.
Karabinovych ne fa il centro della propria ricerca: la disorientazione non come perdita momentanea di direzione, ma come l’unica forma possibile di esistenza in un mondo che deriva da una tragedia all’altra.
La Russia continua a bombardare le città ucraine. È il quarto anno di guerra su larga scala.
Il video principale della mostra, che ne dà anche il titolo, è stato girato nel 2025 in un piccolo villaggio del voivodato di Mazovia, in Polonia. Una donna scivola lentamente in kayak, legato alla riva, mentre in sottofondo si riconosce la voce di Céline Dion dai titoli di coda del Titanic. Un’immagine insieme assurda e commovente (nello spirito della Scuola di Charkiv) che allude all’impossibilità del movimento nella sua stessa apparente presenza. Qui non c’è né tragedia né ironia in senso puro; è piuttosto una scena simile all’ambra, che talvolta conserva la morte come un sorprendente calco del vivente, dove catastrofe e speranza non sono ancora divise e coesistono nello stesso spazio.
Karabinovych esplora come questo paradosso — che evoca tanto la resistenza surrealista al fascismo quanto la sigesia patafisica nella ricerca dell’assoluto — diventi lo sfondo della nostra esperienza quotidiana, e come la cultura dell’intrattenimento riesca a trasformare l’angoscia in comfort. Questa duplicità avvicina il progetto di Karabinovych a ciò che Benjamin Buchloh definisce i gesti allegorici dell’arte contemporanea: pratiche che, attraverso l’appropriazione concettuale, cercano vie d’uscita dal mondo della “fine della storia”, usando il frammento come strumento per esprimere la verità di una situazione. È proprio in questo montaggio frammentario che l’artista mette a nudo la struttura del nostro tempo — un’epoca in cui il senso può esistere solo nelle fratture, e in cui la forza di un discorso diretto non trova più conferma nel dolore che ci circonda.
La scultura “Arrivati”, collocata al centro della prima sala, amplia e approfondisce questo contesto. Si tratta di un objet trouvé: un gommone a forma di banana, tipico dei parchi marini e delle spiagge turistiche. Di norma viene legato a una barca a motore che accelera e compie manovre improvvise, facendo sobbalzare il “banana boat” sulle onde e offrendo ai passeggeri il piacere del rischio e la sfida di restare in equilibrio nei momenti più turbolenti. Trasportato però nel contesto dell’arte del 2025, il gommone-banana assume un significato ambiguo e oscuro: da un lato metafora delle tentate fughe — in senso letterale e simbolico — dalla guerra; dall’altro, emblema dell’inutilità dell’arte contemporanea nei suoi sforzi di farsi strumento di salvezza. Questo oggetto del piacere, fondato su una precarietà giocosa, si trasforma in monumento all’incertezza radicale: un promemoria del fatto che ogni risata è, in fondo, una risata sulla fragilità della nostra condizione — e, in ultima istanza, sulla morte stessa.
“Arrivati” non giudica e non glorifica: agisce per paradossi, costringendo a riflettere sull’ovvio, rendendolo di nuovo visibile, “redistribuendo il sensibile”. Anche se l’attrazione è, letteralmente, un inganno gonfiabile, è proprio questo inganno a costituirne la natura.
L’arte pronuncia la verità nel paradosso del mentitore, ridefinendo ciò che può e deve essere visto, udito e ripensato — anche se questo ripensamento impone di rinunciare alle certezze consuete e mostrare al mondo senza rive ciò che davvero esso è. Importante è anche il titolo — “Arrivati”. Richiama l’espressione idiomatica russa “Kartina Repina — “Priplyli” (“Il quadro di Repin — “Arrivati”), usata da decenni come modo ironico per indicare un finale amaro o una situazione senza via d’uscita. Eppure, in realtà, un dipinto di Il’ja Repin con questo titolo non è mai esistito: si tratta di una sorta di parafiction popolare, per usare un termine di Carrie Lambert-Beatty.
Il detto nasce da un’opera di Lev Solov’ëv, pittore autodidatta di Voronež, iconografo, insegnante e fondatore del “museo della resurrezione”. Il quadro, realizzato negli anni 1870 e intitolato “I monaci. Sono arrivati nel posto sbagliato”, raffigura alcuni religiosi che, trasportati dalla corrente, approdano per errore su una spiaggia dove un gruppo di donne si sta bagnando. Alcune si stanno ancora spogliando, altre già entrano in acqua; i monaci, colti di sorpresa, restano immobili e attoniti di fronte alla scena. Negli anni Trenta, nel clima di riabilitazione dei realisti ottocenteschi e della lotta contro l’avanguardia, il governo sovietico promosse i “peredvižniki”, e il quadro di Solov’ëv venne esposto accanto alle opere di Repin. Molti visitatori, vedendolo, credettero che fosse anch’esso del celebre pittore — e così nacque il malinteso. Con il tempo, il pubblico gli diede il soprannome popolare “Priplyli” (“Arrivati”), e l’immagine, da scena comica, assunse connotazioni più cupe sullo sfondo delle repressioni di massa degli anni Trenta, diventando una metafora diffusa della disperazione collettiva. Oggi il dipinto si conserva nel museo d’arte della città ucraina di Sumy.
Attraverso questa complessa rete di rimandi linguistici e culturali, Karabinovych si rivela un fine analista della memoria e, al tempo stesso, un critico lucido della posizione che l’arte contemporanea occupa nei suoi confronti. Oltre al riferimento alla banana — simbolo ricorrente dell’arte pop — il suo testo dialoga anche con le utopie avanguardiste del “montaggio delle attrazioni” di Sergej Ejzenštejn, autore di una delle sequenze più celebri del cinema d’avanguardia: la carrozzina che precipita lungo la scalinata di Odesa, città natale di Karabinovych. In un certo senso, si potrebbe dire che sia il montaggio che l’attrazione restano, mentre scompare la fede nel loro potere di produrre un effetto salvifico.
In questo, la posizione dell’artista si avvicina alle pratiche del poeta d’avanguardia Il’ja Zdanevič, emigrato in Francia e rimasto a lungo poco conosciuto nel contesto internazionale. Fu uno dei primi a vedere nel linguaggio uno strumento di resistenza all’imperialismo: invece di aderire alle promesse del costruttivismo e dell’arte produttivista, Zdanevič sviluppò per tutta la vita una linea dadaista, fondata sulla mescolanza dei linguaggi e sulla critica dell’ideologia militarista e coloniale.
Karabinovych condivide con Zdanevič un simile pessimismo ironico e, al tempo stesso, una radicale apertura linguistica — tratti profondamente radicati nella sua città natale, Odesa, che come molti porti del mondo, Venezia inclusa, è sempre stata un crogiolo culturale. Non sorprende che proprio Odesa, con la sua sensibilità linguistica e il suo gusto per l’assurdo, sia divenuta la culla dell’arte concettuale ucraina, erede dei progetti di Leonid Voytěchov, Serhiy Anufriiev, Larysa Zvezdochetova e Yuri Leiderman.
Karabinovych riprende questa metodologia ma la porta su un piano globale, dove l’ironia, nata da un contesto locale unico, diventa uno strumento universale di analisi critica. La sua mostra “Sénsa rìve” parla della vita all’interno di una catastrofe senza rive — ma lo fa senza enfasi né illusioni. Attraverso un montaggio allegorico, l’artista ci mostra le storie scomode di spostamenti e coincidenze assurde, restituendo alla visione il suo potere di smascherare il reale. Il suo gesto non è ricerca di armonia, ma osservazione attenta di come i frammenti del mondo tentino, disperatamente, di restare a galla.
Non ci sono più rive: soltanto un movimento immobile e i riflessi sull’acqua che mantengono viva la possibilità della riflessione, della memoria e del riso. E se, come scriveva Walter Benjamin, per l’umanità che annega l’immagine del passato lampeggia come un fulmine, allora l’arte di Nikolay Karabinovych ci invita a non distogliere lo sguardo, restando — ancora e sempre — a galla.
Nikolay Karabinovych (nato nel 1988, a Odesa, Ucraina) lavora su diversi media, tra cui installazioni video, performance, suono e scultura. Nella sua pratica artistica, Karabinovych affronta complesse storie sociali, in particolare quelle provenienti dagli spazi dell’«Europa orientale», combinandole con narrazioni personali e familiari. Le sue opere, che interrogano le nozioni di identità, appartenenza ed esclusione, fanno spesso riferimento alla musica, che riveste un ruolo centrale nella sua ricerca. L’artista rielabora canzoni, generi e figure epocali, sfruttandone la capacità di illuminare un’epoca diversa in un contesto climatico o socio-politico differente.
Nel 2020 si è laureato presso l’Higher Institute for Fine Arts (HISK) di Gand. Karabinovych è stato assistente curatore della 5ª Biennale di Odesa. Nel 2018, 2020 e 2022 ha ricevuto per tre volte il PinchukArtCentre Prize.
Le sue opere sono state esposte in numerose istituzioni pubbliche, tra cui: HKW, Berlino; MUHKA – Museum of Contemporary Art, Anversa; Museum de Fundatie, Zwolle; MAXXI, Roma; Albertinum, Staatliche Kunstsammlungen Dresden; Belgium Jewish Museum e Centre for Fine Arts Bozar, Bruxelles; w139, Amsterdam; Zamek Ujazdowski, Varsavia; e molte altre.
Ha inoltre partecipato a importanti manifestazioni internazionali, tra cui: Steirischer Herbst (2024), Kaunas Biennale (2023), Kyiv Biennale (2023, 2021), Survival Kit (2023), e al programma parallelo della Biennale di Venezia (2024, 2022).
Questa esigenza rimane attuale anche oggi, di fronte alla catastrofe continua fatta di guerre, genocidi, migrazioni forzate e della paura dell’allagamento, della morte o dell’inverno nucleare. Ciò che un tempo veniva celebrato come la vittoria di un mondo aperto, in cui tutti sono in movimento, oggi rischia di diventare spostamento coatto, fuga, esilio, o un moto ossessivo e circolare, nato da una chiusura claustrofobica dentro la realtà presente. Il mondo dell’arte percepisce in modo particolarmente acuto questo mutamento disorientante.
Karabinovych ne fa il centro della propria ricerca: la disorientazione non come perdita momentanea di direzione, ma come l’unica forma possibile di esistenza in un mondo che deriva da una tragedia all’altra.
La Russia continua a bombardare le città ucraine. È il quarto anno di guerra su larga scala.
Il video principale della mostra, che ne dà anche il titolo, è stato girato nel 2025 in un piccolo villaggio del voivodato di Mazovia, in Polonia. Una donna scivola lentamente in kayak, legato alla riva, mentre in sottofondo si riconosce la voce di Céline Dion dai titoli di coda del Titanic. Un’immagine insieme assurda e commovente (nello spirito della Scuola di Charkiv) che allude all’impossibilità del movimento nella sua stessa apparente presenza. Qui non c’è né tragedia né ironia in senso puro; è piuttosto una scena simile all’ambra, che talvolta conserva la morte come un sorprendente calco del vivente, dove catastrofe e speranza non sono ancora divise e coesistono nello stesso spazio.
Karabinovych esplora come questo paradosso — che evoca tanto la resistenza surrealista al fascismo quanto la sigesia patafisica nella ricerca dell’assoluto — diventi lo sfondo della nostra esperienza quotidiana, e come la cultura dell’intrattenimento riesca a trasformare l’angoscia in comfort. Questa duplicità avvicina il progetto di Karabinovych a ciò che Benjamin Buchloh definisce i gesti allegorici dell’arte contemporanea: pratiche che, attraverso l’appropriazione concettuale, cercano vie d’uscita dal mondo della “fine della storia”, usando il frammento come strumento per esprimere la verità di una situazione. È proprio in questo montaggio frammentario che l’artista mette a nudo la struttura del nostro tempo — un’epoca in cui il senso può esistere solo nelle fratture, e in cui la forza di un discorso diretto non trova più conferma nel dolore che ci circonda.
La scultura “Arrivati”, collocata al centro della prima sala, amplia e approfondisce questo contesto. Si tratta di un objet trouvé: un gommone a forma di banana, tipico dei parchi marini e delle spiagge turistiche. Di norma viene legato a una barca a motore che accelera e compie manovre improvvise, facendo sobbalzare il “banana boat” sulle onde e offrendo ai passeggeri il piacere del rischio e la sfida di restare in equilibrio nei momenti più turbolenti. Trasportato però nel contesto dell’arte del 2025, il gommone-banana assume un significato ambiguo e oscuro: da un lato metafora delle tentate fughe — in senso letterale e simbolico — dalla guerra; dall’altro, emblema dell’inutilità dell’arte contemporanea nei suoi sforzi di farsi strumento di salvezza. Questo oggetto del piacere, fondato su una precarietà giocosa, si trasforma in monumento all’incertezza radicale: un promemoria del fatto che ogni risata è, in fondo, una risata sulla fragilità della nostra condizione — e, in ultima istanza, sulla morte stessa.
“Arrivati” non giudica e non glorifica: agisce per paradossi, costringendo a riflettere sull’ovvio, rendendolo di nuovo visibile, “redistribuendo il sensibile”. Anche se l’attrazione è, letteralmente, un inganno gonfiabile, è proprio questo inganno a costituirne la natura.
L’arte pronuncia la verità nel paradosso del mentitore, ridefinendo ciò che può e deve essere visto, udito e ripensato — anche se questo ripensamento impone di rinunciare alle certezze consuete e mostrare al mondo senza rive ciò che davvero esso è. Importante è anche il titolo — “Arrivati”. Richiama l’espressione idiomatica russa “Kartina Repina — “Priplyli” (“Il quadro di Repin — “Arrivati”), usata da decenni come modo ironico per indicare un finale amaro o una situazione senza via d’uscita. Eppure, in realtà, un dipinto di Il’ja Repin con questo titolo non è mai esistito: si tratta di una sorta di parafiction popolare, per usare un termine di Carrie Lambert-Beatty.
Il detto nasce da un’opera di Lev Solov’ëv, pittore autodidatta di Voronež, iconografo, insegnante e fondatore del “museo della resurrezione”. Il quadro, realizzato negli anni 1870 e intitolato “I monaci. Sono arrivati nel posto sbagliato”, raffigura alcuni religiosi che, trasportati dalla corrente, approdano per errore su una spiaggia dove un gruppo di donne si sta bagnando. Alcune si stanno ancora spogliando, altre già entrano in acqua; i monaci, colti di sorpresa, restano immobili e attoniti di fronte alla scena. Negli anni Trenta, nel clima di riabilitazione dei realisti ottocenteschi e della lotta contro l’avanguardia, il governo sovietico promosse i “peredvižniki”, e il quadro di Solov’ëv venne esposto accanto alle opere di Repin. Molti visitatori, vedendolo, credettero che fosse anch’esso del celebre pittore — e così nacque il malinteso. Con il tempo, il pubblico gli diede il soprannome popolare “Priplyli” (“Arrivati”), e l’immagine, da scena comica, assunse connotazioni più cupe sullo sfondo delle repressioni di massa degli anni Trenta, diventando una metafora diffusa della disperazione collettiva. Oggi il dipinto si conserva nel museo d’arte della città ucraina di Sumy.
Attraverso questa complessa rete di rimandi linguistici e culturali, Karabinovych si rivela un fine analista della memoria e, al tempo stesso, un critico lucido della posizione che l’arte contemporanea occupa nei suoi confronti. Oltre al riferimento alla banana — simbolo ricorrente dell’arte pop — il suo testo dialoga anche con le utopie avanguardiste del “montaggio delle attrazioni” di Sergej Ejzenštejn, autore di una delle sequenze più celebri del cinema d’avanguardia: la carrozzina che precipita lungo la scalinata di Odesa, città natale di Karabinovych. In un certo senso, si potrebbe dire che sia il montaggio che l’attrazione restano, mentre scompare la fede nel loro potere di produrre un effetto salvifico.
In questo, la posizione dell’artista si avvicina alle pratiche del poeta d’avanguardia Il’ja Zdanevič, emigrato in Francia e rimasto a lungo poco conosciuto nel contesto internazionale. Fu uno dei primi a vedere nel linguaggio uno strumento di resistenza all’imperialismo: invece di aderire alle promesse del costruttivismo e dell’arte produttivista, Zdanevič sviluppò per tutta la vita una linea dadaista, fondata sulla mescolanza dei linguaggi e sulla critica dell’ideologia militarista e coloniale.
Karabinovych condivide con Zdanevič un simile pessimismo ironico e, al tempo stesso, una radicale apertura linguistica — tratti profondamente radicati nella sua città natale, Odesa, che come molti porti del mondo, Venezia inclusa, è sempre stata un crogiolo culturale. Non sorprende che proprio Odesa, con la sua sensibilità linguistica e il suo gusto per l’assurdo, sia divenuta la culla dell’arte concettuale ucraina, erede dei progetti di Leonid Voytěchov, Serhiy Anufriiev, Larysa Zvezdochetova e Yuri Leiderman.
Karabinovych riprende questa metodologia ma la porta su un piano globale, dove l’ironia, nata da un contesto locale unico, diventa uno strumento universale di analisi critica. La sua mostra “Sénsa rìve” parla della vita all’interno di una catastrofe senza rive — ma lo fa senza enfasi né illusioni. Attraverso un montaggio allegorico, l’artista ci mostra le storie scomode di spostamenti e coincidenze assurde, restituendo alla visione il suo potere di smascherare il reale. Il suo gesto non è ricerca di armonia, ma osservazione attenta di come i frammenti del mondo tentino, disperatamente, di restare a galla.
Non ci sono più rive: soltanto un movimento immobile e i riflessi sull’acqua che mantengono viva la possibilità della riflessione, della memoria e del riso. E se, come scriveva Walter Benjamin, per l’umanità che annega l’immagine del passato lampeggia come un fulmine, allora l’arte di Nikolay Karabinovych ci invita a non distogliere lo sguardo, restando — ancora e sempre — a galla.
Nikolay Karabinovych (nato nel 1988, a Odesa, Ucraina) lavora su diversi media, tra cui installazioni video, performance, suono e scultura. Nella sua pratica artistica, Karabinovych affronta complesse storie sociali, in particolare quelle provenienti dagli spazi dell’«Europa orientale», combinandole con narrazioni personali e familiari. Le sue opere, che interrogano le nozioni di identità, appartenenza ed esclusione, fanno spesso riferimento alla musica, che riveste un ruolo centrale nella sua ricerca. L’artista rielabora canzoni, generi e figure epocali, sfruttandone la capacità di illuminare un’epoca diversa in un contesto climatico o socio-politico differente.
Nel 2020 si è laureato presso l’Higher Institute for Fine Arts (HISK) di Gand. Karabinovych è stato assistente curatore della 5ª Biennale di Odesa. Nel 2018, 2020 e 2022 ha ricevuto per tre volte il PinchukArtCentre Prize.
Le sue opere sono state esposte in numerose istituzioni pubbliche, tra cui: HKW, Berlino; MUHKA – Museum of Contemporary Art, Anversa; Museum de Fundatie, Zwolle; MAXXI, Roma; Albertinum, Staatliche Kunstsammlungen Dresden; Belgium Jewish Museum e Centre for Fine Arts Bozar, Bruxelles; w139, Amsterdam; Zamek Ujazdowski, Varsavia; e molte altre.
Ha inoltre partecipato a importanti manifestazioni internazionali, tra cui: Steirischer Herbst (2024), Kaunas Biennale (2023), Kyiv Biennale (2023, 2021), Survival Kit (2023), e al programma parallelo della Biennale di Venezia (2024, 2022).
07
novembre 2025
Nikolay Karabinovych – Sénsa rìve
Dal 07 novembre al 12 dicembre 2025
arte contemporanea
personale
personale
Location
Alice nello spazio latente
Venezia, Salizada de le Gatte, 3191, (VE)
Venezia, Salizada de le Gatte, 3191, (VE)
Orario di apertura
Da mercoledì a sabato ore 11:30-14:30 e 15:00-18:00
Vernissage
7 Novembre 2025, Dalle 19:00 alle 21:30
Sito web
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