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Il rapporto con la natura e l’impatto del colonialismo, secondo Máret Ánne Sara
Arte contemporanea
C’è qualcosa di profondamente anacronistico – ed estremamente necessario – nell’opera di Máret Ánne Sara. Hyundai e la Tate Modern collaborano anche quest’anno per la Hyundai Commission per Goavve-Geabbil, un’installazione monumentale dell’artista Sámi nell’iconica Turbine Hall della Tate Modern. Fino al 6 aprile 2026, Sara trasforma l’architettura industriale dello spazio in un paesaggio respirante, composto da ossa, pelli, suoni, fibre e odori: non una scena ma un vero e proprio ecosistema che viene attraversato dal visitatore e animato da registrazioni ambientali del luogo d’origine dell’artista e dalla pratica musicale Sámi, lo “joik”, insieme alla conoscenza orale condivisa dagli anziani della comunità.

L’anno scorso, l’artista coreana Mire Lee e le sue sculture tentacolari, nel 2023 l’artista ghanese El Anatsui e i suoi materici arazzi: Hyundai e Tate collaborano già dal 2014 e hanno registrato oltre 19 milioni di visitatori con una collaborazione che rappresenta il più duraturo e significativo impegno nella storia delle partnership aziendali della Tate. Proprio quest’anno, è stata annunciata l’estensione dell’accordo fino al 2036, con un accordo che include il sostegno per la Hyundai Commission e allo stesso tempo per loHyundai Tate Research Centre: Transnational.
«Goavve-Geabbil invita il pubblico a confrontarsi con le complesse interconnessioni del nostro mondo condiviso e ad aprire nuovi dialoghi sul futuro collettivo», ha affermato DooEun Choi, Art Director di Hyundai. Goavve-Geabbil: l’opera di Sara occupa i circa 3.300 metri quadrati della Turbine Hall articolandosi in due parti, distinte ma in relazione l’una con l’altra.

La prima scultura monumentale, Goavve, si innalza come una ferita luminosa per 28 metri di altezza ed è stata realizzata con pelli di renna intrecciate a cavi elettrici, che rappresentano la continua estrazione di risorse dalla Lapponia attraverso lo sviluppo minerario ed energetico. Il titolo fa riferimento alla sempre più frequente condizione ambientale della pioggia e della neve sciolta che, ghiacciandosi al suolo, formano degli strati tali da impedire agli animali di accedere al cibo. Un grido di denuncia per la rottura di un ecosistema che porta allo spostamento di animali e comunità e all’erosione delle pratiche culturali tradizionali.
Le pelli rappresentano simbolicamente la forza vitale che deriva direttamente dalle tradizioni ancestrali, custodi di conoscenze e legami spirituali tramandati di generazione in generazione: l’opera stessa si fa potente richiamo all’interdipendenza di tutti gli esseri viventi e all’urgenza di ristabilire un equilibrio armonico nel mondo.

All’estremità orientale dello spazio sorge invece una struttura labirintica che gli spettatori sono invitati a percorrere e che richiama il naso di una renna, un organo capace di riscaldare l’aria di 80°C in meno di un secondo. L’opera, Geabbil, propone un’esperienza di connessione con l’energia e il sapere ancestrale che la attraversano. Riprendendo la pratica tradizionale del duodji, pelli e ossa fanno parte delle pareti, restituendo nuova vita a parti dell’animale non destinate all’alimentazione o al vestiario. In questo modo non avviene uno spreco e tutto viene riutilizzato, come gesto di gratitudine e rispetto verso le renne.

Máret Ánne Sara non propone la rivisitazione di un folklore ma un vero e proprio paradigma epistemico. Goavve-Geabbil diventa un dispositivo per spostare il punto di vista: non più l’animale come mera risorsa, non più la natura come entità da sfruttura ma come interlocutrice attiva. E proprio pensando alla storia del sito della Tate Modern, ex centrale elettrica a petrolio e carbone, appare ancora di maggiore importanza la proposta dell’artista, di una visione alternativa dell’energia come forza vitale sacra.
In un’epoca in cui il pensiero occidentale cerca di riavvicinarsi alla nozione di “intelligenza naturale”, Sara apre una via alternativa che non si nutre di ritorni nostalgici a passati mitici, ma punta un faro, piuttosto, sulla riemersione di un sapere che non ha mai cessato di esistere, anche se marginalizzato.
Si tratta di un lavoro che, coerentemente allo stile dell’artista, non è mai puramente – e solamente – visivo, ma nuota in un’aria densa di contaminazioni e intrecci sensoriali: l’aria stessa è parte dell’opera, permeata di suoni e vibrazioni, di odori che evocano corpi, sacrifici, transumanze.
Gli elementi organici – teschi di renna, corde intrecciate, residui di sangue secco – non sono simboli, ma sostanze vive, testimonianze di una relazione. L’artista raccoglie, trasforma, restituisce e la forma dell’opera non è data tanto dall’intenzione, quanto invece dal processo, proprio come per i rituali collettivi della cultura Sámi, dove ogni atto di creazione è un atto di connessione. Un’installazione, dunque, che celebra il legame reciproco e profondo tra il popolo Sámi, le renne e la terra.

Era presente all’inaugurazione ufficiale dell’installazione anche la Sua Maestà la Regina Sonja di Norvegia, che ha sottolineato l’invito a riflettere sulla fragilità degli ecosistemi e sulla forza che si trova nelle connessioni culturali, presentando l’opera di Máret Ánne Sara come capace di trasformare lo spazio museale in spazio di riflessione. «Celebriamo l’importanza dell’arte in tempi difficili e turbolenti, come quello che stiamo vivendo. Abbiamo bisogno dell’arte per confrontarci, per risvegliarci e per unirci come esseri umani, al di là delle nostre differenze. È esattamente ciò che Máret Ánne Sara fa con le sue opere».
Che si tratti del Museo Nazionale di Oslo, dove una delle sue installazioni permanenti è la prima a incontrare i visitatori, o della Biennale di Venezia, dove è stata rappresentata tre anni fa, la Norvegia è onorata e orgogliosa di questa straordinaria artista, ha affermato la Sovrana. La Regina ha aggiunto: «Dobbiamo tutti imparare dall’esperienza Sami, condivisa dai popoli indigeni di tutto il mondo. La loro esperienza è un viaggio nel cuore della vita stessa e dell’arte. Cerca di riportare noi stessi e la vita sulla Terra in equilibrio».

Si passa dall’odore di paura, rilasciato dalle renne nei momenti di pericolo, a quello di speranza portato dalle piante native del territorio Sápmí: tutto concorre a un’estetica della presenza, dove la materia si fa soglia verso l’immateriale. Il “duodji” – la tradizione di lavorazione del legno, delle pelli e delle ossa – diventa qui un atto di resistenza, un gesto che ripristina dignità e continuità storica. Non si tratta di contemplare un oggetto statico, ma di assumere una postura etica: riconoscere l’interdipendenza con la vita, con l’ambiente, con i saperi ancestrali. L’opera, quindi, diventa un vero e proprio tribunale di responsabilità collettiva, in cui l’arte si veste di urgenza e coscienza politica.














