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Il Padiglione USA a rischio per la Biennale Arte 2026: l’artista Robert Lazzarini si ritira
Arte contemporanea
di redazione
A pochi mesi dall’apertura della 61ma Biennale d’Arte di Venezia – che inaugurerà nel maggio 2026 sotto il titolo In Minor Keys, nel segno dell’eredità della curatrice Koyo Kouoh -, il Padiglione degli Stati Uniti rischia di restare chiuso. Il progetto selezionato dal Dipartimento di Stato americano, una collaborazione tra l’artista Robert Lazzarini e il curatore John Ravenal, sembra infatti essere naufragato dopo la rottura delle trattative con l’istituzione partner, l’USF Contemporary Art Museum dell’Università della Florida del Sud.
Secondo quanto riportato dal Washington Post, il museo avrebbe deciso di ritirarsi a fine settembre, citando le tempistiche troppo ristrette e i costi insostenibili: un budget stimato intorno ai 5 milioni di dollari, di cui solo circa 350mila coperti dal contributo governativo (una parte dei quali destinata alla Collezione Peggy Guggenheim, che gestisce il Padiglione ai Giardini). In pratica, l’università si sarebbe trovata a dover garantire oltre 4,75 milioni di dollari, cifra che avrebbe dovuto raccogliere in tempi strettissimi.
La proposta di Lazzarini prevede di riempire l’edificio neoclassico con opere che reinterpretano simboli fondanti dell’identità americana – bandiere, un cannone della Guerra Civile, una statua di George Washington – sottoposti a distorsioni matematiche, in un linguaggio che rifletteva la tensione tra ideale e realtà. All’esterno, una grande scultura raffigurante un’aquila deformata, tratta dal puntale di una bandiera ottocentesca.
Nel concept di Ravenal, il Padiglione avrebbe dovuto rappresentare «Un’occasione per confrontarsi criticamente con i simboli e gli ideali americani mentre gli Stati Uniti si avvicinano al loro semiquincentenario».

Un processo di selezione in crisi
L’episodio rivela però una più ampia crisi nella gestione del Padiglione USA. Le riforme introdotte dall’amministrazione Trump hanno modificato le procedure di selezione, escludendo di fatto la NEA – National Endowment for the Arts, che per decenni aveva coordinato il processo attraverso il Committee on International Exhibitions, e lasciando al solo Dipartimento di Stato la responsabilità della scelta.
Un portavoce della NEA ha spiegato al Post che l’agenzia non ha potuto partecipare «Per vincoli di tempo e transizioni di personale». La conseguenza è stata un bando accelerato e poco trasparente, che chiedeva espressamente di presentare «Opere che riflettano e promuovano i valori americani» e che favoriscano «Relazioni pacifiche tra gli Stati Uniti e le altre nazioni».
Negli scorsi mesi, artisti come Andres Serrano e il blogger di estrema destra Curtis Yarvin avevano annunciato pubblicamente di voler presentare le loro proposte, anche se non è chiaro se le abbiano effettivamente inviate attraverso i canali ufficiali.

Una partecipazione incerta, tra precedenti illustri e sfide finanziarie
Realizzare il Padiglione statunitense è sempre stato un impegno oneroso: nel 2022 la mostra di Simone Leigh era costata circa sette milioni di dollari, mentre quella di Jeffrey Gibson nel 2024 ne aveva richiesti cinque. La scarsità di fondi pubblici obbliga curatori e istituzioni a ricorrere a complesse campagne di fundraising privato, una sfida resa quasi impossibile nel caso di Lazzarini, selezionato in extremis, a meno di un anno dall’inaugurazione.
Una scelta, peraltro, considerata inusuale rispetto ai precedenti: la carriera di Lazzarini, artista noto per le sue distorsioni geometriche e la sua partecipazione alla Whitney Biennial del 2002, è decisamente più defilata rispetto a figure come quelle solitamente associate al Padiglione, che ha visto la partecipazione di autori quali Mark Bradford, Joan Jonas ed Ed Ruscha, solo per rimanere negli ultimi decenni.
Insomma, il rischio di un Padiglione USA chiuso nel 2026 si fa sempre più concreto. Sarebbe un fatto senza precedenti nella storia recente della Biennale, dove la presenza americana è sempre stata un punto fermo, con l’eccezione degli anni della Seconda guerra mondiale.
Una Biennale segnata da assenze e tensioni
La possibile chiusura del Padiglione statunitense si inserisce in un contesto di progressiva frammentazione geopolitica. Anche il Padiglione della Russia resta chiuso dal 2022, in seguito all’invasione dell’Ucraina – dopo aver ospitato nel 2024 la Bolivia e nel 2025 i programmi educational della Biennale Architettura – mentre quello di Israele, ufficialmente in ristrutturazione, sarà sostituito da un padiglione alternativo alle Sale d’Armi dell’Arsenale, in uno spazio di 230 metri quadrati offerto dalla Fondazione Biennale.














