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Jacques-Louis David, l’anatomia del potere nelle giunture della pittura
Arte moderna
Allo scadere dei duecento anni dalla morte, torniamo a confrontarci (l’ultima mostra, a Versailles e al Louvre, risale al 1989) con Jacques-Louis David, un vero e proprio “monumento”, come scrivono i curatori Sébastien Allard e Côme Fabre nell’introduzione alla mostra. E non si può non essere d’accordo con loro visitando l’esposizione, aperta fino al 26 gennaio 2026. Ma forse sono meno convincenti quando lo pongono sotto il segno dell’antico e di Caravaggio e anche qui è proprio il dispiegarsi della sua pittura, sala dopo sala, che fa quasi svanire il rapporto col nostro asso pigliatutto.

Si parte con i suoi tentativi giovanili di ottenere il Prix de Rome, che garantiva l’ambitissima residenza nella capitale pontificia, considerata un serbatoio figurativo la cui conoscenza era essenziale per chiunque volesse conquistare la gloria, non solo in Francia ma nell’intero Occidente, Russia compresa. Nella prima sezione – dominata ovviamente dal Giuramento degli Orazi – compaiono i quadri precedenti e quelli successivi al soggiorno romano, 1775 – 1780, i primi governati da un senso del colore acceso e della teatralità legati al suo apprendistato presso Joseph-Marie Vien, i secondi, invece, aspiranti al raggiungimento di saldezza spaziale e volumetrica non sempre ottenuta: il San Rocco di Marsiglia, nel quale i curatori vedono un riflesso caravaggesco, è influenzato da Poussin e, azzardo, da Velázquez per la sagomatura così accentuata del Santo.

Quanto al capodopera, gli Orazi, 1785, una volta sottolineata la sensazionale novità dell’ambientazione, spoglia di ogni connotazione stereotipicamente “antica”, e la disposizione a piani paralleli (a differenza del Belisario, 1781, ancora montato lungo la diagonale teatrale) e che ricompare, più forzata, nella Morte di Socrate del Metropolitan, 1785, non si può non notare – e la cosa è più evidente dal vero che non nelle riproduzioni – che il gesto risoluto e virile dei protagonisti è contrapposto al gruppo delle donne disperate, le quali non sono “sullo sfondo”, né in secondo piano, ma occupano lo stesso spazio dei protagonisti, pur essendo molto più piccole. Si tratta di un primo indizio della vocazione di David a “montare” i suoi quadri per dettagli separati che si ingranano poi in un meccanismo perfettamente oliato, in cui l’occhio non riesce a distinguere le giunture.

Ci si aspetterebbe adesso che il treno dell’austerità “repubblicana” viaggi senza problemi – anche se in mostra i puntualissimi riferimenti storici, gli abbozzi, i disegni, sono lontani dai quadri a cui si riferiscono, per cui c’è un via vai continuo tra le sezioni – invece questo si inceppa con un quadro destinato al Conte di Artois, futuro Carlo X, Gli amori di Paride ed Elena, dipinto per il volage fratello minore dei Luigi XVI e XVIII, scena che incontrò un successo immediato, tanto che il pittore lo replicò a tambur battente per un aristocratico polacco.

Sarebbe adesso il turno de I littori riportano a Bruto il corpo dei suoi figli, di cui è esposto solo il bozzetto, rimandando un cartellino all’originale presente in una sala del museo. Si dovrebbe a questo punto stigmatizzare che manchi l’unica opera in cui David riesca a intersecare persuasivamente i “valori repubblicani” con le emozioni che la vista dei cadaveri suscita nelle donne, strette disperate in piena luce, mentre il dolore del padre – il quale aveva contribuito alla loro condanna – resta sepolto dall’ombra profonda del primo piano, ma tant’è: le sale sotterranee dove è allestita la mostra, oltre a essere basse, si rivelano appena bastanti per un’esposizione di questo genere e qualcosa va sacrificato.
Non vorrei che sia per questo motivo che manchi il meraviglioso Ritratto di Lavoisier e della moglie, 1788, Metropolitan Museum, in cui lo scienziato è intento a scrivere davanti ad ampolle ed alambicchi mentre la moglie gli si accosta, vestita di un’abbagliante abito bianco, complice e tenera. Lavoisier fu ghigliottinato nel 1794 per il suo passato di esattore.

Inizia qui, come elemento di connessione con le vicende rivoluzionarie, l’esposizione di una serie di ritratti e disegni che conducono a quello che doveva essere il trionfo dei rivoluzionari e che invece David dovette abbandonare: Il giuramento della Pallacorda (1791-92), di cui è esposto anche l’emozionante disegno preparatorio. La grande tela su cui doveva essere trasferito il disegno è costellata dei ritratti dei protagonisti della rivoluzione ma l’opera si ferma lì. La storia correva più veloce della pittura e non era prudente celebrare chi non si sapeva se sarebbe sopravvissuto ai processi per tradimento. È quanto accadrà in Unione Sovietica negli anni Cinquanta, quando i grandi quadri celebrativi del regime staliniano, popolati di centinaia di personaggi, dovevano essere continuamente aggiornati agli esiti letali della paranoia di Stalin.
David si lega, negli anni seguenti la Rivoluzione, a Robespierre, nel 1792 è eletto nella Convenzione e incaricato delle feste e delle celebrazioni rivoluzionarie, il suo ruolo gli consente di mettere mano alla riorganizzazione del Louvre e delle Accademie, con cui pareggerà i conti chiudendole. Voterà anche per la messa a morte di Luigi XVI.
Dopo l’assassinio di Marat, il 13 luglio 1793, la Convenzione lo incarica di celebrare il defunto, prima con i funerali poi con un ritratto. La struggente bellezza del quadro è troppo nota perché se ne possa parlare: l’essenzialità della composizione, la partecipazione emotiva con cui David evoca l’eroe rivoluzionario ucciso mentre lavorava, e la pietas con cui il corpo viene avvolto dalla luce morbida e avvolgente ne fanno, più che un capolavoro, l’essenza stessa del talento del pittore e, in generale, del compito della pittura.


In mostra sono presenti le tre versioni, che si distinguono per la scritta sul basamento in primo piano: nella versione “ufficiale”, la dedica “À Marat / David”, stringe i due esseri in uno stesso abbraccio. È un quadro “caravaggesco”? Non potrei unirmi al coro degli storici ma sicuramente il pittore riprende dall’antico il gesto del braccio abbandonato come nelle sculture che raffigurano la morte di Adone (il quale, ricordo, è un esempio iconograficamente cristologico) come Raffaello nella Deposizione di Cristo, 1507, della Galleria Borghese, e Caravaggio nella Deposizione nel sepolcro, 1600-04, della Pinacoteca Vaticana, opere entrambe peraltro sottratte nel 1797 per essere portate in Francia.
Alla caduta di Robespierre, David sfugge per un pelo alla stessa sorte – è un artista troppo amato e importante per pagare con la vita come i politici – ma gli toccherà comunque scontare qualche mese di prigione, uscito dalla quale si dedicherà a ritratti di amici e parenti, tra i quali risplendono quelli dei coniugi Sériziat, 1795, nei quali l’acutezza dello sguardo è temperata dalla simpatia per gli effigiati (suoi parenti acquisiti), c’è una dolcezza negli occhi con cui l’artista li raffigura che fa pensare alla pittura inglese, così lontana dal clima collet monté dei suoi precedenti ritratti.

Ma sono anni in cui la ritirata di David darà un frutto tra i suoi maggiori: Le Sabine, terminato nel 1798, un quadro che il pittore esporrà a pagamento – non era la prima volta che accadeva, in Inghilterra le opere shakespeariane di Füssli erano visibili solo acquistando un biglietto – in una sala del Louvre. Il successo delle Sabine fu clamoroso, non solo per il soggetto – in cui per la prima volte le donne, invece di limitarsi a piangere, avevano un ruolo attivo – ma anche per la grandiosità dell’impianto, dominato in primo piano dai nudi virili. È sicuramente il culmine di quella tecnica di montaggio e giustapposizione arrivata a un livello virtuosistico.
Però i curatori gli accostano – non so se per malizia o dabbenaggine – Romolo vincitore di Acrone, 1812, di Jean-Auguste-Dominique Ingres, di dimensioni altrettanto imponenti. Il confronto tra i due quadri, se fa risaltare la bellezza della pittura e la cura con cui David ha dipinto la scena, ne sottolinea anche l’aspetto di artificiosa teatralità, con gli eroi in posa guerresca e le donne che irrompono a braccia aperte a dividerli, mentre l’opera di Ingres, rude e quasi grossolana nella definizione dei personaggi, sagome metalliche appena abbozzate, ha una forza arcaica, quasi mitica, impressionante.

Una serie di ritratti di personaggi sans-gêne, legati a Napoleone, sono preceduti da quello di Madame Recamier, 1800, famosa socialite dell’epoca – che non lo apprezzò, ritirando l’incarico al pittore – raffigurata distesa su divano all’antica come una vestale, in una posa ripresa da Canova nella statua di Paolina Borghese, di qualche anno posteriore. Il rapporto di David con Napoleone non fu facile, nonostante il pittore avesse creato quella che è diventata la sua immagine più nota: il Primo Console che valica le alpi al San Bernardo su un cavallo rampante, 1801, emulo, come riportano le pietre in primo piano, di Annibale e Carlo Magno.

Nonostante l’icasticità dell’invenzione di David, sarà Ingres a realizzare il suo ritratto ufficiale, nel trasumanante Napoleone I sul trono imperiale, mentre il nostro si dovrà accontentare di ritrarre l’imperatore nel suo studio (1806) peraltro con un risultato altissimo per indagine psicologica e abilità di impaginazione. Manca di questa fase imperiale – per ragioni comprensibili, misurando dieci metri per sei – l’immenso Le Sacre, cioè l’autoincoronazione di Napoleone e della moglie Giuseppina alla presenza di Pio VII – già apparso, minuto e tremebondo, in un ritratto dello stesso David del 1805-, di cui sono in mostra studi e disegni, esposto nelle sale superiori del Museo.
Sic transit…anche l’era napoleonica finisce e il pittore, che aveva avuto un ruolo chiave anche sotto Bonaparte, stavolta sceglie l’esilio a Bruxelles, dove resterà per dieci anni, dal 1815 fino alla morte. È un periodo in cui l’artista sembra indifferente all’aspetto epico dell’invenzione – del resto, sono anni privi di grandezza, quelli della Restaurazione – e torna a dedicarsi ai ritratti, tra cui spicca quello di un altro esule brussellese, David-Etienne-Maurice Gerard, 1816, che ancora indossa le scintillanti decorazioni napoleoniche, reso quasi regale dal drappo rosso sullo sfondo, e di nuovo alle scene di argomento classico.

In mostra spiccano l’Amore e Psiche, anche questo giudicato scandaloso, ispirato direttamente dal caravaggesco Omnia vincit amor, in quel periodo a Bruxelles, dove però David sostituisce alla vitale sfrontatezza del fanciullo di Caravaggio un’espressione tra il licenzioso e l’ipocrita: questo Amore, reso sazio dal troppo sesso, abbandona il letto di Psiche come se non l’avesse mai amata e pare avviarsi verso nuove avventure. Il confronto col celestiale dipinto di François Gérard dal medesimo soggetto, 1798, accentua il carattere puramente sensuale della scena davidiana.
La mostra si chiude con un ritorno di David agli amori degli dei, con Venere che disarma Marte, nel quale il Dio della guerra cede le sue armi alla seduzione della dea. Dal punto di vista pittorico il quadro è splendido, l’invenzione delle nuvole stagliate contro un azzurro siderale, il corpo del Dio accarezzato da una luce che ne mette in risalto il gioco dei muscoli, la Venere di spalle, simile a un’odalisca (e qui avranno fischiato le orecchie a Ingres), l’affaccendarsi di ninfe ed eroti attorno ai due amanti, il tutto sullo sfondo, un po’ incongruo, del colonnato di un tempio. David gioca alla rievocazione di un tempo gioioso, ormai perduto per sempre.

La recensione della mostra finirebbe qui, se i curatori non avessero acceso una miccia nella testa dello spettatore con l’esposizione di Teti che implora Giove, 1811, un confronto ancora impietoso tra il nostro pittore e Ingres. Il quale Giove di Ingres occupa l’intera superfice del dipinto, con la semidea embricata al suo corpo gigantesco: è come se il Dio fosse l’Olimpo stesso, severo e corrusco come i Greci immaginavano il loro monte più alto, e così l’opera quasi diventa la controprova che, a differenza della fantasticheria olimpica di David, gli Empirei non passano il tempo a divertirsi, o almeno non tutti, impegnati come sono a tenere le redini del mondo.














