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Ma a che serve la luce? Virgilio Sieni traduce la poesia di Pasolini in danza
Danza
«Non è di maggio questa impura aria che il buio giardino straniero fa ancora più buio, o l’abbaglia con cieche schiarite…questo cielo di bave sopra gli attici giallini che in semicerchi immensi fanno velo alle curve del Tevere, ai turchini monti del Lazio…Spande una mortale pace, disamorata come i nostri destini, tra le vecchie muraglie l’autunnale maggio. In esso c’è il grigiore del mondo, la fine del decennio in cui ci appare tra le macerie finito il profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita; il silenzio, fradicio e infecondo…». Apparso dal buio, illuminato appena nel muovere le braccia e con, sullo sfondo, l’immagine gigante del quadro Battesimo di Cristo di Piero della Francesca, il danzatore e coreografo fiorentino Virgilio Sieni inizia con questi versi sussurrati lo spettacolo Ma a che serve la luce?, titolo che prende a prestito l’emblematica domanda di Pier Paolo Pasolini tratta da Le ceneri di Gramsci, una raccolta di poesie pubblicata nel 1957.

In esse, le riflessioni sulla sua vita e sulla società italiana contemporanea, il dato autobiografico che si unisce e si intreccia con quello storico-politico, fa emergere il tema pasoliniano del cambiamento della società avvertito drammaticamente. In visita alla tomba di Gramsci, in dialogo con le sue spoglie, Pasolini descriveva un maggio autunnale che sembrava rappresentare «Il grigiore del mondo, la fine del decennio in cui ci appare tra le macerie finito il profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita». Ed è, questa nuova sfida di Sieni, un corpo a corpo di danza e parola con la poesia dello scrittore di Casarsa, con la sua voce reale – che legge Le ceneri di Gramsci -, con parole che bruciano, che denunciano, che sollevano dalle ceneri l’ardore per la vita nelle sue espressioni più autentiche, vitali, sincere.

Nello spazio intimo del palcoscenico condiviso col pubblico in una vicinanza di prossimità, il danzatore accorda il gesto e il movimento con esattezza, prima pronunciando egli stesso i versi pasoliniani, poi ascoltati direttamente dalla voce off dell’autore il cui suono ci arriva di una densità malinconica e materica, struggente nella sua phoné che sembra provenire da un altro mondo. Così per sei episodi poetici.
Quella di Sieni è una danza che si fa attraversare dal linguaggio acustico e percussivo del suo stesso corpo, dal ritmo dei versi; li riprende, li lascia scorrere tra le giunture degli arti, nel fremere di braccia e mani, nel gesto raggrumato e nel respiro spanso; nell’inciampo a terra, e nel trascinamento prolungato; nel vuoto che preme e chiama alla pienezza; nel buio che chiama la luce. È un proliferare di segmenti gestuali e di sillabazioni vocali che si originano e si trasformano continuamente dissolvendosi e rigenerandosi sul corpo.

Così, nello spettacolo, sembra scorrere una summa del suo alfabeto coreografico, quasi il compendio di un ricco percorso artistico, nel quale intravediamo diverse citazioni – prima fra tutte dal celebre assolo Variazioni Goldberg di Bach -, mentre il paesaggio sonoro curato da Mauro Forte s’incunea alle musiche di Odetta Holmes dal film Il Vangelo secondo Matteo, di William Basinki da Malincholia di Lars Von Trier.

In un continuum di figurazioni fisiche e di immagini pittoriche ingrandite su uno schermo da un vecchio proiettore per diapositive – sono alcuni quadri che hanno nutrito l’immaginario e l’ispirazione del coreografo negli anni: la Deposizione di Rosso Fiorentino, il Cristo morto del Mantegna, la Madonna del Parto e le Storie della vera croce di Piero della Francesca, la Deposizione del Pontormo –, la danza si accende e si quieta, rientra nel buio e ritorna ogni volta con qualche oggetto che Sieni adopera nel suo sostare: della carta velina sfogliata e accarezzata a terra; dei fiammiferi accesi e spenti a rischiarare, nel buio pieno, mani e braccia; uno sgabello; un microfono che amplifica il suo respiro.

Porta in scena, infine, quella scheletrica marionetta di legno – “protagonista” del memorabile terzetto Nudità, insieme al puparo Mimmo Cuticchio – portatrice di alterità, di una dimensione di grazia, di fragilità, d’innocenza. Qui Sieni torna a giocarci manovrandola delicatamente dialogando con le incrinature delle posture; avvolgerla poi in un bianco sudario; tenerla in braccio e sulle gambe in una plastica Deposizione; infine deporla lì sulle tavole del nudo palcoscenico, mentre egli si avvia scomparendo nella penombra lasciandoci con l’ultima poesia di Pasolini: «Mi chiederai tu, morto disadorno, d’abbandonare questa disperata passione di essere nel mondo? Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi, con la luce cerea che al quartiere in penombra si rapprende». Uno spettacolo di rara bellezza.

Dopo il debutto al Teatro La Pergola di Firenze (Produzione Teatro della Toscana e Centro Nazionale di Produzione della danza Cango/Firenze), sarà da 4 all’8 marzo 2026 a Cango, e a ottobre al festival MilanOltre.












