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Da Burri a Cattelan: la GNAMC approda a Palazzo Valle e dialoga con il barocco di Catania
Arte contemporanea
Dall’esterno, Palazzo Valle appare come un elegante edificio nel pieno stile del barocco catanese, con la sua facciata dominata dai toni scuri e profondi della pietra lavica in contrasto con le basse lesene chiare, opera di Vaccarini del tardo Seicento. Se ci si avvicina alla soglia, però, i cappotti neri di Kounellis invitano a soffermarsi, e quello stesso contrasto di bianco e nero che caratterizza l’esterno dell’edificio viene enfatizzato e riproposto da una grandissima tela di Carla Accardi presente nel cortile. A quel punto, ci si ritrova già catapultati in Da Burri a Cattelan 1970/2025, un’esposizione che vede un prestito di ben 53 opere dalla GNAMC alla Fondazione Puglisi Cosentino. Non era mai successo prima che un nucleo tematico così importante della Galleria Nazionale varcasse i confini del museo e approdasse altrove. Fino al 29 marzo 2026, questa esposizione a cura di Cristina Mazzantini e Gabriele Simongini metterà invece in dialogo questo consistente prestito con la collezione della Fondazione e con gli spazi barocchi del Palazzo.

La discussione fra le due collezioni e il contesto dell’edificio, fin dal suo ingresso, non è assolutamente neutra. La scelta di collocare opere emblematiche della collezione della Fondazione – Accardi, Anselmo, Kounellis – nel cortile d’accesso introduce e al contempo costruisce un primo cortocircuito percettivo: il linguaggio dell’arte italiana del secondo Novecento si misura immediatamente con una spazialità storica che non viene addomesticata, né trasformata in semplice contenitore. È un confronto diretto, spesso ruvido, che prepara il visitatore a un percorso in cui la cronologia non è mai l’unico criterio ordinatore. La maestosa scalinata immette il visitatore all’interno di una mostra che copre un arco temporale di oltre 50 anni, dal 1970 al 2025.

L’impianto curatoriale evita consapevolmente ogni pretesa enciclopedica, puntando piuttosto su una selezione che privilegia la qualità delle opere e la loro capacità di attivare relazioni, tra loro e con lo spazio che le accoglie. In questo senso, il progetto appare più vicino a una costellazione che a una linea evolutiva: i movimenti e le tendenze emergono per addensamenti, per risonanze, per attriti. A questo contribuisce notevolmente e senza dubbio alcuno la determinante – e forse non del tutto accessibile – scelta di non porre alcuna indicazione alle sale. Non ci sono informazioni tematiche o temporali, guide interpretative alle scelte di collocazione e neanche profusi cartellini che riportino indicazioni circa le opere. Artista, opera e data. E basta.
Il visitatore si trova quindi senza veri e propri punti di riferimento che non siano contenuti nel pannello introduttivo e se da un lato questa scelta lo priva di una bussola veramente efficace, qualora privo di mezzi propri, dall’altro fa sì effettivamente che a parlare siano solo le opere, le relazioni che esse attivano con il visitatore, fra di loro, con lo spazio, e tra il visitatore e lo spazio.

Il percorso si apre con figure che negli anni Settanta avevano già messo in crisi i presupposti dell’Informale e della scultura tradizionale. Burri, Consagra, Melotti e de Chirico – qui nella sua fase neometafisica – non fungono da padri fondatori, ma da vere e proprie soglie, punti di passaggio che permettono di leggere la trasformazione della materia, dello spazio e dell’immagine pittorica in una fase storica segnata da profonde tensioni culturali e politiche. La loro presenza evita l’effetto “antologico” e restituisce piuttosto un’idea di continuità problematica.


Proseguendo nelle sale del piano nobile, la mostra entra nel vivo delle ricerche che hanno segnato il panorama italiano dagli anni Settanta in poi. L’Arte Povera, il Concettuale, le riformulazioni dell’astrazione e le pratiche testuali e linguistiche non vengono isolate in sezioni tematiche rigide, ma intrecciate in un racconto che procede per slittamenti. Paolini, Isgrò, Anselmo e Paladino non sono convocati per rappresentare una corrente, quanto per mostrare come l’opera d’arte abbia progressivamente spostato il proprio baricentro: dal risultato formale al processo, dall’oggetto al sistema di relazioni che lo produce e lo circonda.

In questo quadro, la presenza di artisti internazionali non appare accessoria. Calder, LeWitt, Kapoor, Smith e Rondinone non servono a “internazionalizzare” forzatamente il percorso, ma a ricordare come la scena italiana sia sempre stata attraversata da scambi e influenze che hanno indubbiamente arricchito un dialogo già fecondo. È un dato che emerge con chiarezza soprattutto nel confronto tra le pratiche concettuali e le ricerche più recenti, dove il confine tra locale e globale si fa sempre più poroso. Cattelan chiude il percorso senza risolverlo. La sua presenza non sancisce un approdo ma rilancia una domanda: che cosa resta oggi delle grandi narrazioni dell’arte contemporanea italiana?

«La mostra Da Burri a Cattelan – come ha sottolineato la direttrice Cristina Mazzantini – restituisce alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea la sua voce più autentica: quella di un’istituzione che produce cultura e, come un laboratorio di idee, genera pensiero e promuove la creatività, riaffermando un ruolo storicamente riconosciuto ma in alcuni periodi affievolito. Il ruolo di un museo che non solo conserva una straordinaria raccolta, ma che la sviluppa, la racconta e la condivide con tante comunità, rendendola più conosciuta e accessibile, riportandola al centro della scena artistica nazionale».

Il prestito di un nucleo così consistente della collezione della GNAMC non rappresenta, dunque, solo un’operazione espositiva ma un gesto istituzionale che interroga il ruolo del museo nazionale e la possibilità di pensare a esso come a organismo diffuso, capace di attivare territori e comunità diverse.

«Questa mostra – ha affermato Alfio Puglisi Cosentino – segna l’avvio di una collaborazione triennale fra la Fondazione e il grande museo romano che porterà a Catania nei prossimi due anni altre rassegne di indiscutibile qualità. L’attuale evento espositivo risponde perfettamente alla mission della nostra Fondazione: operare a favore dell’arte antica, moderna e contemporanea, con fini di studio, educazione e diletto, promuovendo le relazioni tra artisti e pubblico, anche di non addetti ai lavori, e contribuendo alla trasformazione virtuosa del nostro territorio».
Inserita nella cornice barocca di Palazzo Valle, la mostra rinuncia a ogni mimetismo e accetta il rischio del contrasto. Ed è proprio in questa frizione – tra epoche, linguaggi, funzioni – che il progetto trova la sua misura più convincente, restituendo al pubblico un campo di forze visibilmente ancora aperto.











